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Razionalismo e Metafisica

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Messaggio Da einrix Dom 25 Mag 2014, 16:01

Non so se questa sia la sezione più adatta per discutere di temi filosofici. In fondo "Diario di Bordo" può anche essere il luogo dove scrivere  appunti e riflessioni che si sviluppano nell'arco dell'esistenza. Qualche anno fa, quando con il Papa filosofo - Benedetto XVI - si discutevano le questioni del relativismo, mi ero posto il tema di una critica del razionalismo e della metafisica, concetti che spesso venivano  utilizzati per costruire le pareti perimetrali della propria ideologia. Vorrei riprendere quelle pagine per rileggerle punto per punto, al fine di riscriverle alla luce delle riflessioni che sono intervenute nel frattempo. Si tratta della critica di chi in vita sua (sto parlando di me), pur avendo letto libri di filosofi, non ha fatto di quella materia la sua professione. Ragion per cui sarà facile riscontrare idee e commenti che potranno apparire contraddittori o mal posti. Il titolo "Metafisica e Razionalismo" dipende dal fatto che ragione e metafisica stanno in rapporto tra loro, almeno nei termini posti da Kant nella prefazione alla sua Critica della ragione pura. Cito a braccio: - La ragione talvolta si pone domande alle quali sa di non poter rispondere; quello è il campo della metafisica. Il fatto è che se la metafisica è quell'ambito della conoscenza che ancora non trova le sue risposte, può essere considerata come un laboratorio di studio e di sperimentazione, e non come scienza del sapere, come troppo spesso è accaduto nella storia del pensiero umano e della conoscenza. Spesso nel testo mi riferisco a Nietzsche, Heidegger, Husserl ed altri, che leggevo in quel periodo, ma con le citazioni non voglio contenere o ridurre il loro pensiero soltanto in esse. Di quegli autori mi sono fatto idee molto complesse e non definitorie, perché anche loro con ciò che hanno scritto hanno vagato e sondando terreni ovunque nel campo del pensiero umano, ereditando a loro volta concetti che hanno riproposto da altri angoli visuali, quasi che le infinite proprietà della Natura, e qualcuno direbbe di Dio, non solo lo consentano, ma lo rendano addirittura necessario. Domani, partendo in nave per la Sicilia, non sono sicuro di poter continuare a caricare il testo. Lo
farò al ritorno. Intanto vi auguro molta pazienza per la materia e molta comprensione per i limiti concettuali che di sicuro emergeranno in più di un passaggio. Non è mai facile parlare di certi argomenti, e spero che apprezziate il mio sforzo.
Enrico.
 
Il libro è costruito in Capitoli e paragrafi. Spedirò un paragrafo alla volta, o quasi.
 
Razionalismo e Metafisica
CAPITOLO PRIMO
SULLA VOLONTÁ DELLA VERITÁ
 
1. «La volontà di verità che ci sedurrà ancora
(...). Con queste parole Nietzsche, in Al di la del
bene e del male, introduce un concetto, e poco
dopo pone una domanda: «che cosa in noi tende
propriamente alla verità?». Cos’è, dunque, la
verità, cosa accade quando la si possiede? E se
essa fosse soltanto un concetto astratto, tale solo
per dare un senso a principi altrettanto astratti,
continuerebbe ad essere quell’arcano che tutti
cercano? O finirebbe, com’è nella logica, confi
nata ad essere una possibile condizione, corrispondente
ai valori antitetici: vero, falso? In un
mondo sensibile, la verità è ciò che registra l’uomo
ed ogni altro essere vivente, nel rapporto con
l’ambiente, attraverso le rappresentazioni sensibili,
che sono immagini, suoni, odori, sensazioni
tattili, sapori. Può accadere ancora che una
sensazione sia il prodotto della nostra coscienza
e che, pur avendo un legame ed una dipendenza
con l’oggetto e la realtà che la produce, essa non
sia affatto la realtà, ma soltanto un possibile riflesso
di essa, la rappresentazione di cui l’essere
vivente può cogliere o sa cogliere. La stessa cosa
veniva asserita da Democrito osservando quanto
il miele per alcuni fosse dolce e per altri amaro,
e da ciò traeva la conclusione che il miele non
fosse né dolce, né amaro. Una misura nel campo
del sensibile è legata naturalmente alla fisiologia
dei sensi, con soglie personali di attivazione ed
altre di passivazione, e con una qualche regola
di proporzionalità nel campo utile di misura del
valore. Eccedere i valori ammissibili del campo
di misura può portare anche a stime o misure
errate, ed in certi casi, alla distruzione materiale
degli stessi organi di senso. Infatti, si può restare
accecati per troppa luce o non vedere al buio, e
lo stesso vale per chi si scotta la lingua. Infine
vi è l’elaborazione personale fisiologica di quei
segnali, al livello istintivo, quando l’amaro viene
associato al velenoso senza che necessariamente,
di fatto, lo sia. Se la vita attiva sensibile è quella
che ci pone in rapporto alla natura, il pensiero
razionale ci fa riflettere su noi stessi in rapporto
alla natura medesima, sulla base di quanto
stiamo scoprendo o abbiamo appreso nel tempo,
anche attraverso l’istruzione. La verità è costituita
da quell’insieme di percezioni e conoscenze
che derivano da questo stesso processo e ne sono
la rappresentazione astratta. Quando mentiamo
di fronte all’evidenza, in realtà possiamo si
violare, per qualche scopo nascosto o palese,
la conformità al nostro modello di realtà, ma
possiamo farlo anche inconsapevolmente in rapporto
al giudizio di altri, solo perché i canoni del
nostro sapere non sono conformi, normalizzati,
al sapere che viene ritenuto valido in generale.
Può anche capitare che nel corso dell’esperienza
della vita, si raccolgano e si facciano propri,
concetti e verità che sono in contraddizione su
uno o più livelli della nostra coscienza. Il lavoro
di ripulitura ed allineamento dei concetti
per rimuoverne le contraddizioni, può essere un
processo di riflessione razionale immediato, o
può avvenire in un secondo momento, quando
quelle contraddizioni divengano palesi ed a quel
punto si impone la scelta di quale verità vada
conservata e di quale invece debba essere abbandonata,
cancellata.


Ultima modifica di einrix il Ven 28 Nov 2014, 20:12 - modificato 3 volte.
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Messaggio Da einrix Dom 25 Mag 2014, 16:44

2.Il pensiero può fornire una possibile rappresentazione
della realtà quando in qualche modo
la interpreti e la descriva, ma le infinite trasformazioni
che si possono operare attraverso di
esso possono far perdere il contatto con il mondo
fisico e fisiologico della natura, per difetto od
eccesso di vincoli logici e ideologici. Posso non
conoscere il processo elettrostatico che porta alla
formazione di immense cariche elettriche nelle
nubi e che nel corso dei temporali si scaricano a
terra con lampi e saette, e se poi per altre vie ho
definito la figura di un Creatore, di un Demiurgo,
posso allora pensare che sia lui stesso, per
qualche ragione, a scatenare quel putiferio. Ma
le cose non cambiano neppure se finalmente ho
scoperto l’origine fisica dei lampi e della pioggia,
se credo in una superiore divinità metafisica
al disopra della termodinamica e dell’elettrochimica
della terra, posso continuare, nei periodi
di siccità, a fare processioni e suppliche al santo
per sollecitare l’arrivo della pioggia o a scongiurarla
nel corso di alluvioni. La mente è sede di
ogni possibile rappresentazione della realtà, ma
è quest’ultima che prendendo infiniti significati
perde il proprio senso di corrispondenza al vero.
La volontà di verità può orientare l’educazione
della nostra mente tanto per asservirla a qua-
lunque forma di dogmatismo quanto a renderla
libera nella ricerca di senso che questa esistenza
voglia assegnarle. Tra le forme di dogmatismo
non vi sono solo quelle metafisiche della religione
o le categorie ideologiche della politica,
ma ve ne possono essere anche nella scienza,
quando questa si affidi a processi puramente
mentali al di fuori della costruzione di modelli
logici, e senza voler verificare con dati sensibili
e strumentali, la corrispondenza dei principi con
la natura in tutte le sue espressioni.
 
3. La mente è la sede di ogni possibile rappresentazione
del mondo, tali quelle che si possono
riscontrare nelle culture che coesistono nel
nostro secolo che di quelle che si sono succedute
nel passato. Da sempre il conflitto tra il determinismo
dei sensi e l’indeterminazione del pensiero
hanno segnato e contrastato la ricerca della
verità, non riuscendo mai a trovare quell’accordo,
che nel caso delle scienze invece è stato trovato.
Da tempo le scienze si parlano, sviluppando
un circuito di crescita e divulgazione della
conoscenza, mentre le espressioni dogmatiche
del pensiero ideologico e religioso, si arroccano
sui propri principi e presupposti che costituiscono
il discrimine per ogni scelta. La cosa più
curiosa è che come tutti usano le risorse del
pianeta per soddisfare le proprie necessità legate
alla propria volontà, allo stesso modo utilizzano
le proprietà astratte della mente, per costruire un
proprio modello razionale dell’esistenza. Modello
razionale di fatto flessibile che pur negandolo
talvolta, comprende sia la visione dogmatica
della fede che quella deterministica dell’esistenza.
Il Papa vola in aereo verso i luoghi del suo
pellegrinaggio. Quel volo è la sintesi di quanto il
determinismo abbia plasmato la nostra esistenza.
L’aereo è un prodotto incontrovertibile del
determinismo della meccanica, della fisica, della
tecnologia, e con esso ora vola davvero la metafi
sica di un Papa, quasi fosse un angelo, e se va
bene, per insegnare al mondo quanto il determinismo
ed il materialismo da soli non bastino a
comprendere la vita ed i segreti dell’esistenza, e
se va male per tuonare contro il mondo secolarizzato
della scienza. Quella volontà dogmatica
della verità promuove così un Creatore di cui per
sua natura non si è in grado né di dimostrarne
l’esistenza, né l’inesistenza, ma che ignorandolo,
si può vivere, talvolta tranquillamente, lo stesso.


Ultima modifica di einrix il Ven 28 Nov 2014, 20:13 - modificato 2 volte.
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Messaggio Da einrix Dom 25 Mag 2014, 21:08

4. Trattando dei pregiudizi dei filosofi Nietzsche
scrive: « La credenza fondamentale dei
metafisici è la credenza nell’antitesi dei valori».
A meno che non ritenga metafisici anche gli
scienziati e metafisica la scienza, sbaglia, perché
l’antitesi dei valori è proprio la base con cui si
fissa una scala di valutazione nella misura, e
la misura è la premessa fondamentale per una
sperimentazione che venga condotta per cercare
quella corrispondenza tra il modello razionale e
la realtà, che se non si trovasse, invaliderebbe la
regola. Neppure le scienze logiche sono a rigore
scienze metafisiche, pur potendo vivere esclusivamente
nella mente, perché razionale, legato al
pensiero umano, non significa immediatamente
metafisica. “Meta” significa “oltre”, la metafi-
sica è perciò qualcosa che descrive ciò che c’è
oltre la fisica, un “ignoto” di natura particolare
che non possiede di solito molte delle proprietà
fisiche conosciute. Solo un metafisico può
ritenere che essa serva ad identificare un aspetto
fondamentale di una scienza, di un problema.
Pur riguardando la scienza lo fa con l’attitudine
dell’essoterico e se non fosse così, non vi
sarebbe materia per contendere. É la mente, lo
strumento fisiologico del pensiero che è comune
sia in chi usa la razionalità per dimostrare le
verità, che in quanto tali sono deterministiche
per loro natura e per ciò stesso, sempre dimostrabili,
sia in chi usa analoga razionalità per
costruire modelli religiosi dell’esistenza che di
ripetibile hanno solo il mantra di ciò in cui si
crede. La credenza fondamentale dei metafisici
è la credenza e basta, l’antitesi dei valori non
discrimina la metafisica dalla scienza, potendone
essere un tratto comune. Si potrebbe sostenere
che qualsiasi forma di pensiero è metafisico, al
punto che Heiddeger definisce Nietzsche l’ultimo
dei metafisici scrivendo di lui in “Nichilismo
europeo” a pagina 57 della piccola biblioteca
Adelphi: «Egli deve concepire il nichilismo in
tal modo perché, mantenendosi nella traiettoria
e nell’ambito della metafisica occidentale, pensa
quest’ultima fino in fondo». Leggendo Nietzsche
mi è venuto semmai da pensare ad un suo modo
vago di essere un volterriano, quasi fosse l’ultimo
degli illuministi. Che fossero per Heiddeger
anche questi ultimi, dei metafisici? In fondo
basta così poco con la metafisica per rimuovere
i fatti che non piacciono, se fossero d’intralcio
alla propria volontà della verità.
 
5. Il pensiero razionale in se non è per sua
natura, metafisico, anche se la metafisica se ne
serve disinvoltamente, ed è lo stesso Heiddeger
a darcene in una qualche forma, una definizione,
quando scrive a pagina 54 de “Il nichilismo
europeo”: «É vero che l’uomo ha bisogno della
“logica” per pensare in modo corretto e ordinato,
ma quello che uno pensa soltanto, non necessariamente
è già, ossia compare nella realtà
come qualcosa di reale». Quindi, bontà sua, non
esclude neppure che potrebbe anche essere in
via ipotetica corrispondente alla realtà. Allora
se è ormai dimostrato che metafisici e scienziati
utilizzano lo stesso cervello per pensare in modo
più o meno corretto, è possibile che partano da
principi diversi ed usino logiche differenti per
pervenire a ragionamenti e risultati opposti?
A mio avviso è senz’altro così. Quando uno
strumento come l’intelletto può essere usato in
piena libertà non genera solo fatti concreti, ma
anche sogni emblematici come possono esserlo
le religioni, le ideologie, la stessa arte e la
poesia. Nulla da obiettare sull’utilizzo spontaneo
e libero della propria ragione, ma che questa poi
debba coinvolgere la vita degli altri non è immediatamente
accettabile senza riscontri plausibili
con la realtà. Il metodo scientifico nasce proprio
per quello. Non si discute di come la matematica
o la tettonica possano o non, avere legami diretti
con le scienze dello spirito, sappiamo che la
natura degli esseri umani è complessa e che non
può essere espressa con i modelli della scienza
fisica, ma allo stesso tempo non si può e non si
deve approfittare della complessità dei problemi
ideologici e spirituali, per non dire psicologici,
per non applicare a quelle teleologie gli stessi
metodi della scienza. Husserl stesso si sforza
di chiedere una filosofia come scienza rigorosa,
essendo di fatto, essa, divenuta la porta stretta
attraverso cui passa ogni genere di espressione
metafisica, scendendo giù, giù verso le religioni,
sino a raggiungere l’esoterismo. Husserl, lo dice
scrivendo: «In nessuna epoca del suo sviluppo la
filosofia è stata in grado di soddisfare la pretesa
di essere una scienza rigorosa (...) Certo, l’hetos
dominante della filosofia moderna consiste proprio
in questo, che essa, invece di abbandonarsi
ingenuamente all’impulso filosofico, intende
costituirsi come scienza rigorosa mediante la
rifl essione critica, attraverso ricerche sempre più
approfondite sul metodo» (“La filosofia come
scienza rigorosa” pagine 2,3 GLF editori Laterza).
Non solo non vi sono limiti al pensiero
umano, ma neppure per le azioni umane i limiti
sono divenuti così enormi con il potere della
tecnica e delle tecnologie che talvolta rappresentano
un autentico pericolo per l’umanità intera.
Una certa forma di controllo sulle conseguenze
del pensiero umano non è possibile né quando
opera attraverso la scienza la scoperta di armi
distruttive, tanto meno lo si può o lo si deve fare
quando in gioco vi sia la stessa libertà di pensiero.
Deve essere la comunità scientifica, in nome
e per conto della comunità umana, a farsi carico
di validare i risultati e le scoperte del pensiero
nelle sue molteplici forme al fine di mettere in
mora quegli studi che oltre ad essere privi di
valore, costituiscano palese distorsione della
realtà. Lasciamo all’arte ed alla poesia, per le
rappresentazioni, anche le più astratte, la massima
libertà espressiva con lo scopo di salvaguardare
un principio di prudenza verso l’emersione
di nuove possibili verità o di critica e rifl essione
sui guasti che talune forme di pensiero hanno di
fatto prodotto. Sorvegliamo religioni ed ideologie
quando fondino i loro falsi valori per pretese
egemoniche non compatibili con un mondo in
cui la libertà e la democrazia non possa ammettere
altro vincolo di subordinazione. Parlando
più specificamente della filosofia, essa dovrebbe,
rifl ettendo sull’essere e sulla natura, dare
quell’avvio alle nuove scienze che sorgessero
proprio dalle loro scoperte, e non dovrebbero
insistere nello sviluppare a fondo quelle materie
per le quali non sono attrezzati, e quando non è
sufficiente il processo razionale, o ispirato, della
mente, ma c’è bisogno di ogni altro strumento di
logica e di indagine quali sono quelli che usano
le scienze, operando per obiettivi e seguendo un
metodo.


Ultima modifica di einrix il Dom 22 Giu 2014, 21:00 - modificato 1 volta.
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Messaggio Da einrix Ven 06 Giu 2014, 09:01

6. Le scale dei valori, che tanto danno da pensare
a Nietzsche, ai cui estremi vi sono le loro stesse antitesi,
hanno sempre un verso dal minore al maggiore, dal
peggio al meglio, in funzione di un nostro specifico intendimento,
non importa se di natura razionale o istintiva.
Nietzsche stesso qua e la scrive cose che paiono avvalorare
l’importanza dei valori, anche se non direttamente le loro
antitesi per lui metafisiche che, di fatto, sono pur sempre
“valori estremi” di una stessa scala di misura del valore.
Nel paragrafo 3 de “Il nichilismo europeo“ scrive:
«Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità
di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per
esprimermi più chiaramente, esigenze psicologiche di una
determinata specie di vita». Ed ora che abbiamo appreso
dell’importanza del valore ed avere compreso quale sia la scala
in cui esso può essere espresso, non temiamo più l’accusa
di essere dei metafisici se accettiamo di definire “antitesi”
i valori estremi di quella scala. Nella scala Celsius delle
temperature zero sarà la temperatura fredda del ghiaccio
e cento sarà la temperatura dell’acqua bollente.
La scala delle temperature viene usata in molte scienze
ed altrettante applicazioni, anche se di fisico ha quel tanto
o poco che gli proviene teoricamente dalla statistica
e praticamente, dagli strumenti di misura e dalle sensazioni
tattili nel campo in cui non ci si ustiona. Anche il bene ed il male
si trovano agli estremi di una stessa scala di valori, di cui
l’indifferenza può essere considerato lo zero di partenza.
Quale scienza o cos’altro oggi può trattare del bene e
del male allo stesso modo che la termodinamica tratta
delle temperature? Se cerco in un dizionario di psicologia
le parole “bene” e “ male”, quasi non le trovo, mentre
è più facile veder trattato il problema del “conflitto” che
di sicuro in qualche modo li implica. Ma come in termodinamica
si definisce con la scala delle temperature anche lo
strumento ed il metodo per misurarla, non altrettanto pare
che accada per la scala che comprende quei valori.
In ultima analisi, “bene” e “male” sono avverbi di modo,
e gli avverbi si sa, sono parti invariabili del discorso
che servono a modificare il significato di un verbo, di un aggettivo,
o di un altro avverbio. Allora sono chiaramente dei valori
che esprimono la potenza di un’azione o la dimensione
di una quantità. Niente sul piano teorico vieta di associare
a quella scala, dei numeri razionali e con essi operare i conti
e le misure necessarie. Sul piano pratico non esiste
una scienza che quantizzi numericamente per tal verbo e per
tal aggettivo quanto bene e quanto male rappresenti.
Eppure a scuola, prima dell’invadenza dei giudizi, si era soliti
mantenere una contabilità del profitto, con risultati numerici
che finivano in pagella. Il non avere la necessità di creare delle scale
di valori dipende dal fatto che è ancora grezza la materia
che tratta della psiche e dello spirito per trovare quelle relazioni
che spieghino, di fatto, a partire dai principi, talune conseguenze.
E come in ogni modello che si rispetti devono essere costruite
ed assegnate tutte le relazioni che con la sola logica pura o
con l’ausilio di una qualche matematica fossero rilevanti e necessarie
per caratterizzare un fenomeno. Lo stesso Spinoza provò
a dimostrare l’esistenza di Dio attraverso la logica.
L’intenzione era buona, ma fallì subito. Quando credette di averlo
dimostrato, non si accorse che l’esistenza di Dio lui l’aveva
già posta nelle premesse, nelle definizioni del suo teorema.
Ma se quello fu un tentativo a mio giudizio fallito, è anche
la strada segnata per imporre un metodo alla ricerca filosofica
quando voglia non arrestarsi alle prime intuizioni, ma voglia
avviare già da subito un proprio sviluppo scientifico di quelle scoperte.
Ma si sa, chi si crede filosofo e vuol esserlo a tutti i costi
e non abbia la pazienza di meditare su quei semplici ma
reconditi principi, di cui l’esistenza è disseminata, allora
si adatta ai ruoli di scienziato, di critico, di storico, di ermeneuta,
di insegnante e di qualsiasi altra cosa che possa tenere
impegnato il suo intelletto, in attesa della nuova scoperta.
Spesso è proprio lungo questi percorsi che perde il tema e lo
scopo che si era posto con la filosofia.


Ultima modifica di einrix il Mar 10 Nov 2015, 20:52 - modificato 3 volte.
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Messaggio Da einrix Lun 09 Giu 2014, 15:54

7. Per dare subito un esempio di dove porti certa
critica filosofica, esaminiamo questo concetto
che esprime Heiddeger nel “Il nichilismo europeo”:
«non c’è niente di strano che “l’uomo
della strada” creda che un motore diesel esista
perché Diesel lo ha inventato. Non occorre che
tutti sappiano che l’intero sistema della scoperta
non avrebbe potuto compiere un solo passo se la
filosofia, nell’attimo storico in cui entrò nell’ambito
della sua non-essenza, non avesse pensato
le categorie di questa natura e non avesse, solo 
così, aperto l’ambito per il cercare e per la
sperimentazione degli inventori ». A mio giudizio
talvolta ha fatto anche di peggio, e se non
lo avesse scritto per uno scopo contrario al mio,
questa volta sarei tentato di usare l’espressione
di Nietzsche che si trova nel paragrafo 4. di “Al
di là del bene e del male” e che dice: «e noi siamo
propensi ad affermare che i giudizi più falsi
(ai quali appartengono i giudizi sintetici a priori)
sono per noi i più indispensabili». Certi giudizi
falsi screditano chi li esprime e di fatto e per vie
tortuose portano alla chiarezza, benché Nietzsche,
se non l’ho frainteso, la pensi in tutt’altro
modo. Com’è possibile che un filosofo, anch’esso
sorto in un certo momento come categoria
della “fisis” e nominato perciò chissà da chi,
adesso debba divenire lui stesso chi definisce la
categoria della “fisis”, essendo la meccanica, le
tecnologie e la termodinamica suoi sottosistemi.
Il linguaggio è stato costruito da un uomo che
non poteva permettersi ancora di essere epistemologo
perché ancora la scienza non esisteva, e
la gran parte delle definizioni sono nate proprio
ai primordi, in cui da una parte vi era la durezza
dell'esistenza, dall'altra si portava avanti per tentativi
la costruzione degli strumenti, anche linguistici,
che potevano sostenerla. Rudolf Diesel era
un fervente luterano, come la sua famiglia, e si
laureò alla Technische Hochschule di Monaco di
Baviera, avendo vinto una borsa di studio e dove
si dimostrò un allievo eccellente. La sua invenzione
consisteva nello sviluppo dell’idea che si
potesse costruire un motore a cui bastasse l’alta
pressione del carburante nella camera di com-
bustione, per accendersi, eliminando quindi il
dispositivo di accensione allora usato nei motori
a combustione interna che derivavano dall’idea
di Nikolaus Otto. Possibile che la denominazione
di tutte quelle categorie fossero toccate ai
filosofi, e che da ciò fosse sorta la possibilità per
Rudolf di fare la sua scoperta? Il brevetto del
nuovo motore venne depositato il 23 febbraio
1892 cui fece seguito, nell’anno successivo, la
pubblicazione del principio di funzionamento
nel saggio: ”Teoria e costruzione di un motore
termico razionale, destinato a soppiantare la
macchina a vapore e le altre macchine a combustione
finora conosciute”. Libro che si è rivelato
molto più produttivo e costruttivo dei tanti volumi
scritti dal nostro bravissimo filosofo, per non
parlare dei discorsi che scriveva per il Führer,
anche se di questi, per non dimostrare preconcetti,
non ne terremo conto. Provo sempre profonda
contrarietà quando una categoria umana che
tende a divenire corporazione, si arroga diritti
che non le competono, e così accade spesso
che trovino il tempo delle millanterie quando si
sciupi quello destinato ai compiti che loro stessi,
inutilmente si erano dati. Non possiamo accettare
che il linguaggio venga sublimato al ruolo di
supplente dei contenuti, comunque si costruisca
ad arte, l’argomentazione del non-essere.
 
8. Talvolta non si comprende se per i suoi tempi
Nietzsche fosse male informato, o se davvero
credesse a ragion veduta in ciò che diceva, o
detto in altri termini, oltre quali limiti si spinge
la sua dissacrazione verso la co-noscenza ed i
costumi? Nel 1896, Becquerel scoprì accidentalmente
la radioattività, mentre investigava la
fosforescenza dei sali di uranio, ma negli anni
in cui Nietzsche scriveva certe sciocchezze, lui
studiava proprio quelle materie che poi lo portarono
alla scoperta di fenomeni connessi proprio
con la natura atomica della materia. Cosa
significa dire che gli atomisti sono stati sconfessati
da tutti, come se ciò bastasse a cancellare
l’idea che la realtà della natura non possa essere
rappresentata dalla realtà degli atomi. Antoine
Becquerel e Marie Curie avevano ben altre idee
per la testa e non erano dei filosofi alla ricerca
del pelo nell’uovo ma fisici che si preparavano a
combattere con gli strumenti della scienza quella
battaglia che doveva fa vincere definitivamente
il fisico Democrito e non il filosofo Platone.
È sorprendente che oltre duemila anni fa vi
fossero persone capaci di rifl ettere sul nostro
essere materia e sulle cose, al punto da riuscire
a scomporle in elementi finiti e indivisibili e poi
aggiungere di loro che sono in continuo movimento.
Pazienza se Platone non condivideva
quelle idee che parevano astruse e lontane da
quella realtà così come appariva, specie quando
esse dovevano costituire il principio per la
generazione del cosmo, ma Nietzsche è proprio
l’ultimo scettico della storia a non accorgersi
che Leucippo e Democrito avevano ragione,
almeno leggendo quei frammenti riportati dagli
studiosi del tempo, che non furono censurati
come loro invece lo furono, al punto che tut-
ta quella produzione libraria andò dispersa e
distrutta per incuria, ma anche per il disprezzo
che quelle idee suscitavano. Ancora una volta si
può sostenere con Nietzsche che siamo fortunati
a leggere di autori così stimati ed importanti,
tante corbellerie, e posso aggiungere sempre con
lui, che certe considerazioni vanno davvero oltre
il bene ed il male, anche se poi Nietzsche di
certe fantasie se ne ciba, per la sua rivoluzione
dell’idea del mondo e dell’esistenza, mentre io
e molti con me, se ne servono per seguire e far
proseguire il lavoro della scienza che può, sulla
base di quelle idee, costruire sia terribili ordigni
nucleari che centrali nucleari capaci di fornire
energia al mondo per intere generazioni (1). In
fondo, quando i filosofi erano fieri di essere fisici
erano davvero migliori di certi filosofi di adesso,
alla ricerca di un metodo, credendo che basti
esso, inteso come filologia o l’ermeneutica, a far
fare qualche passo in avanti al mondo. E da tanto
tempo che sappiamo che la sola vera filosofia
è conforme alla vera scienza, la sola che sino ad
oggi è riuscita a sviluppare un’ermeneutica della
vita, della natura e del cosmo, seguendo passo
passo il sentiero della ragione, confortata dai soli
riscontri possibili, quelli dell’esperimento e della
verifica dei pensieri e dei principi, con i fatti di
cui sono l’oggetto. Senza la sperimentazione, la
scienza ha costruito i sistemi logici, matematici
e geometrici che possono permettere di costruire
i modelli della realtà nel mondo razionale del
pensiero. Ma quei modelli avranno una funzione
importante che non sia prettamente mentale, solo
se saranno corrispondenti alla vita degli individui
e del cosmo. Per questa ragione i matematici
trattano quasi sempre solo della struttura del
ragionamento, e non si interessano veramente di
ciò di cui stanno trattando in relazione alle possibili
applicazioni delle loro astrazioni. Anche se
i numeri naturali sono nati in modo spontaneo
per contare gli individui e le cose ed i primi
calcoli sono nati per semplificare alcuni ragionamenti
contabili. Quando a partire dai numeri
naturali ed i numeri primi, o dal punto e dalla
retta in geometria, si trascende il significato
della rappresentazione naturale, il matematico ed
il geometra diventano giocoforza degli specialisti
di logica, e si perdono quando perseguono
sviluppi cabalistici od essoterici nel dare signifi-
cati improbabili ai loro costrutti. Così, dopo che
loro abbiano preparato un ragionamento astratto,
pronto per essere usato, occorre attendere che
dei ricercatori definiscano una serie di assiomi
del mondo reale, compatibili con quelle logiche
e con quegli operatori, perché possano essere
utilizzate. In ultima analisi le scienze della natura,
proprio attraverso la logica trovano le giuste
connessioni tra le parole ed il mondo reale. È
questo modo di procedere ordinato è funzionale
che ha prodotto il progresso della conoscenza, è
questa volontà di verità espressa nei modi giusti,
anche con spunti d’ingegno che hanno prodotto
lo sviluppo del mondo. Poi vi è il caso, come per
Dirac, che abbia costruito un’apposita matematica
che interpretasse e consentisse di calcolare,
intorno alle particelle ed all’atomo, secondo le
ultime scoperte che in quegli anni lui, insieme
ad altri stava indagando. Ma l’ultima parola
non era costituita dalla bellezza estetica di un
risultato puramente astratto, razionale, logico,
ma doveva essere confermato dalle macchine
sperimentali enormi, necessarie ad accelerare le
particelle atomiche e sub atomiche, proprio per
verificare la correttezza dei calcoli relativi agli
urti ed alle loro trasformazioni o transizioni. Ma
per grandi scoperte bastano anche strumenti fi-
sici e logici elementari. Cavendish, morto prima
che Nietzsche nascesse, aveva misurato con un
esperimento, la costante universale che definiva
il rapporto che vi è tra la forza di attrazione gravitazionale
e la grandezza delle masse coinvolte,
variabile col quadrato della distanza dai loro baricentri.
Quanti poeti avranno cantato qualcosa
che avesse attinenza con quella forza che forma
il nostro mondo, ma mai nessuno è riuscito a
determinare quella costante che poi permetterà
altri calcoli astronomici. La poesia può e deve
allietare l’animo e non saremo mai troppo grati
ai poeti che cantano dello spirito, ma declassare
la scienza, e con lei gli atomisti che ne sono i
precursori indiscussi è un delitto conto la volontà
di verità, su questo non vi sono dubbi.
 
nota:
1) purchè si fosse in grado di renderle sicure e riciclabili


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Messaggio Da einrix Mer 11 Giu 2014, 09:40

9. Leggere una monografia sulla complessa
vita di Keplero, contemporaneamente a “Al di
là del bene e del male” di Nietzsche, fa si che
il confronto porti immediatamente a fare talune
riflessioni sulla natura della conoscenza. Di
quali percorsi tortuosi essa segua per manifestar-
si, di quanto talvolta ci tragga in inganno o di
come evolva quando vi sia non solo la volontà
di verità, ma anche la forza per strapparla dal
profondo della natura. Riferendosi ai filosofi ,
o almeno a quelli che ha in mente, Nietzsche
scrive: «continuino pure a sentirsi così indipendenti
l’uno dall’altro con la loro volontà critica e
sistematica, c’è pur sempre un qualcosa in essi,
che li conduce, un qualcosa che li incalza, in un
determinato ordine, l’uno dopo l’altro, appunto
quella innata sistematica e affinità di concetti. Il
loro pensare è in realtà molto meno uno scoprire
che un rinnovato conoscere, un rinnovato ricordare,
un procedere a ritroso e un rimpatriare in
una lontana, primordiale economia dell’anima,
da cui questi concetti sono germogliati una volta:-
in questo senso il filosofare è una specie di
atavismo di primissimo rango». Anche Keplero
deve passare attraverso i germogli dei preconcetti
astrali e tolemaici per maturare attraverso
Copernico una concezione del cosmo in prossimità
del sole, che potesse avere regole diverse
da quelle stabilite nel passato. E la sua volontà
di verità andava ancora oltre quando prefigurava
una fisica del cosmo che superasse i vincoli
dell’osservazione visiva degli astri, definendo
con le sue leggi, quei principi che avevano, di
fatto, valore deterministico. Lui ha la forza e
la capacità di uscire dal cerchio delle critiche e
delle dispute che rigirano soltanto i principi, li
rimescolano senza però far fare un salto importante
al processo della conoscenza. Con Einstein
anche le sue leggi perderanno di precisione, ma
non di valore com’è invece accaduto con quelle
di Tolomeo, anche se i principi della sua scienza
sono durati millenni. E così, dopo esserci arrovellati
per millenni, legati alla Terra senza poter
volare nei cieli se non per grazia degli Dei, ora
con gli studi e le scoperte di Copernico, Keplero,
Galileo, Einstein e tanti altri uomini di ingegno,
siamo nello spazio vero, con stazioni orbitanti
attorno alla terra e con razzi e strumenti lanciati
ovunque nel cosmo, per scoprire la natura di
questo universo che, seppure vasto oltre ogni
nostro volere, non ci impedisce di farsi scoprire.
Viene da pensare, rileggendo Nietzsche quando
scrive: « Per questo occorre aspettare l’arrivo
di un nuovo genere di filosofi , tali che abbiano
gusti ed inclinazioni diverse ed opposte rispetto
a quelle fino ad oggi esistite - filosofi del pericoloso
“forse” in ogni senso. - e per dirla tutta con
serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi
nuovi filosofi ». Quegli uomini che lui cerca nel
futuro ci sono sempre stati anche nel passato. È
intorno a loro che si è formata la nostra coscienza
ordinata dalla verità. Il nostro compito non
è d’attenderli, ma di riconoscerli, per tentare,
proprio dal momento in cui loro sono arrivati, di
far fare a questa umanità tutta, un nuovo balzo in
avanti, si spera non incauto, verso l’auto distruzione.
 
10. Erwin Schrödinger è l’autore della celebre
equazione che porta il suo nome e che regge la
meccanica ondulatoria, da lui poi dimostrata
identica alla meccanica quantistica di Heisem-
berg. Si deve a lui anche d’avere concepito sin
da prima del 1947 - anno in cui pubblica la prima
versione del suo libro “Che cos’è la vita” - la
struttura fisica del genoma, che dieci anni più
tardi scopriranno Francis Crick, James Watson
e Maurice Wilkins. Ciò che mi preme sottolineare,
è come questo fisico austriaco, sia passato
attraverso lo studio delle risultanze sperimentali
legate al meccanismo dell’ereditarietà, alle mutazioni
ed alla prova del loro carattere quantistico,
alla discussione ed alla verifica del modello
di Delbrück della sostanza ereditaria, in coerenza
ai principi di ordine, disordine ed entropia,
sino ad ipotizzare nuove leggi che valgano per
gli organismi. E quando, dopo aver congetturato,
analizzato, discusso di quella materia, alla
luce delle sue conoscenze nel campo della fisica
quantistica e della matematica, dice: «Ciò che
desideriamo porre in rilievo è soltanto il fatto
che col modello molecolare di un gene non è più
inconcepibile che il codice in miniatura venga
esattamente a corrispondere ad un complicatissimo
e specificato piano di sviluppo e in qualche
modo contenga i mezzi per realizzarlo» è in quel
preciso momento che nasce un’altro uomo, dalle
spoglie di quello copernicano che conosciamo.
Nietzsche non ha avuto il tempo di conoscere
Schrödinger, ma di sicuro, anche lui, pur senza
definirsi filosofo, ma fisico, come lo erano stati
Leucippo e Democrito, appartiene alla schiera di
quegli uomini nuovi che Nietzsche stesso attendeva,
avendo superato la curiosità ed il dubbio
guardando in faccia alla natura e non rinchiuden-
dosi soltanto nel labirinto della propria mente.
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Messaggio Da einrix Gio 12 Giu 2014, 21:23

Capitolo secondo
Sulla naturale aspirazione degli uomini alla conoscenza
 
1. Heiddeger, ne “Il nichilismo europeo”, nel
capitolo che tratta della metafisica e dell’antropomorfis-
mo, vuole passarci l’idea che Protagora,
Cartesio e Nietzsche fossero metafisici nonostante
sostenessero che “l’uomo è la misura di
tutte le cose”, o nonostante affermassero “ergo
cogito, ergo sum”, o infine che nell’orizzonte
della volontà di potenza - Nietzsche - ripensasse
a tutte le determinazioni dell’ente in relazione ai
nuovi valori che devono servire a quel ciclo di
transvalutazione verso l’alto, che passa necessariamente
per l’annichilimento di quelli vecchi.
E poiché non vi è mezzo logico ecco che li si
assume approfittando del fatto che i loro libri
non possono autonomamente ribellarsi a quella
prevaricazione. Ma ora che anche Heiddeger non
c’è più e che non può oltre i suoi scritti approfittare
per spiegarcene i motivi, noi abbiamo gioco
facile, dichiarando semplicemente che loro non
erano metafisici.
 
2. A questo punto però è necessario cercare di
capire perché la filosofia debba divenire metafi-
sica per alcuni, e più specificamente cosa sia
concettualmente la metafisica, e per farlo andiamo
alla sorgente, e leggiamo il primo libro della
metafisica di Aristotele. Il viaggio attraverso
quelle definizioni ed argomentazioni, non sarà
però ne facile né agevole perché prima che essere
filosofo, Aristotele era un sapiente che aveva
appreso la filosofia dei presocratici, di Socrate e
Platone, ed allora come ora, il suo compito era
ed è quello di ammaestrarci.
Inizia parlandoci degli uomini che sono protesi
per natura alla conoscenza e racconta di come
l’esperienza permetta di scoprire quei principi
che possono essere organizzati ed ordinati nel
piano generale della scienza. Ma da essi ne può
derivare anche l’arte, come ne fosse un compendio
razionale e talvolta un superamento dello
stesso sapere, non necessariamente aderente a
quegli stessi principi distinti, allo stesso modo
in cui devono invece essere presenti nelle scienze.
Scrive infatti: «l’arte nasce quando da una
molteplicità di nozioni empiriche venga prodotto
un unico giudizio universale che abbracci tutte
le cose simili tra loro».


Ultima modifica di einrix il Gio 11 Dic 2014, 15:30 - modificato 2 volte.
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Messaggio Da einrix Gio 12 Giu 2014, 21:24

3. Vi è quasi una scala gerarchica che, dall’esperienza
empirica, transitando verso la cono-scienza,
ci porta all’incontro con l’arte, intesa come
conoscenza universale. Se appare indiscutibile
che l’arte possa essere una transvalutazione
della conoscenza verso mete più astratte, diventa
comunque difficile generalizzare, affermando:
«che il conoscere e l’intendere siano più proprietà
dell’arte che dell’esperienza». Spesso
taluni sviluppi mentali, quando assumono le
espressioni culturali dell’arte, attraverso processi
irreversibili, non permettono più di individuare
le fonti da cui hanno tratto origine, salvo che con
la ripetizione non diventino una moda. Solo così
a posteriori possono essere associati a determinati
principi convenzionali. Per la scienza, vi è
sempre il riscontro deterministico con la prova
che si acquisisce nel processo sperimentale, per
il processo stesso che la genera. Proprio per queste
ragioni Aristotele non prova nulla, quando
nei confronti dell’arte asserisce: «e ciò è dovuto
al fatto che gli uni sanno la causa, gli altri no».
Il suo assunto, invece, può restare valido, sotto
certe condizioni, per la scienza e la sapienza di
cui molti sanno, non tutti sanno.
 
 
4. Se consideriamo quanta sapienza, trasmessa
per secoli senza alcuna base di realtà, abbia
generato arte, confondendola e traendola in
inganno, non possiamo accettare quei principi
aristotelici e dobbiamo confidare solo in ciò che
abbiamo nuovamente appreso, nei secoli del Rinascimento
e dell’Illuminismo, con Copernico,
Lavoisier, e tanti altri. Una scienza artefatta dal
pensiero umano, che si è perso nel labirinto della
pura razionalità, senza base fenomenologica che
non fosse altro che una pasticciata ed incompleta
simulazione, è stata ricondotta alla realtà,
proprio dal ritorno al principio dell’esperienza
che governa, dacché lei soltanto può dare valore
di verità ai nuovi saperi, dopo aver annichilito,
azzerato, quelli ormai privi di base reale.
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Messaggio Da einrix Sab 14 Giu 2014, 20:12

5. Ed anche ora vi è chi impudentemente chiama
“pensiero debole” quello che ha salvato la
verità dalle tenebre e dalle nebbie in cui era stata
per tanto tempo confinata, segregata, schiava
di false rivelazioni e dogmatici pregiudizi. Il
pensiero forte che viene proposto in cambio, è
puro dogmatismo e vuole rinserrarci in una torre
d’avorio, ancora più alta, per non permetterci di
vedere in basso e di sperimentare quella ricchezza
della scienza che ormai vola con i satelliti e
le astronavi persino più in alto, negli spazi del
nostro sistema interplanetario.

6. Non so quanto lo facesse inconsapevolmente,
ma se Aristotele preparava a quel modo le basi
filosofi che del pensiero razionale e scientifico
degli ateniesi, con talune sue asserzioni, creava i
presupposti ideologici di molte di quelle degenerazioni
culturali, che ci hanno assillato dal tempo
in cui lui insegnava al Liceo, sino ai nostri
giorni. Che bisogno c’era di creare le categorie
degli empirici «che sanno il che», ma non «il
perché», mentre «quegli altri», i sapienti, «sanno
discernere il perché e la causa». Se quelle fossero
state delle categorie astratte, basate su valori
casuali, avrebbero potuto ancora andare bene,
essere accettate, poiché invece vogliono essere
proprietà e istanze di un artefatto, “l’uomo empirico”
che deve vivere realmente, allora non possiamo
concordare con Aristotele per quelle sue
definizioni, perché la natura dell’uomo, specie
se legata alla conoscenza, è soggetta a cambiare
nel tempo, in funzione di ciò che apprende.
«L’uomo è ciò che sa», ripeteva Democrito, ogni
volta che gli chiedevano chi fosse l’uomo, ed “è
ciò che sa” in un processo evolutivo continuo
che cessa solo con la sua morte, salvo quanto
possa essere trasmesso ancora dal suo esempio,
dal ricordo che se ne ha di lui, e dalle sue
opere. E così vi sono uomini reali che sono in
parte empirici ed in parte razionali, e che perciò
riescono ad ottenere i migliori risultati, talvolta,
partendo proprio dalla scoperta generata dal
dato sperimentale, ed altre volte da una idea che
si insinua insistente, proponendo una nuova o
diversa percezione della realtà. La saggezza che
si tramanda, talvolta senza le dovute verifiche,
se consente il mantenimento di un certo grado di
cultura, può essere propedeutica ad ulteriori sviluppi
della conoscenza, solo se associata al lato
empirico e sperimentale della natura umana.
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Messaggio Da einrix Lun 16 Giu 2014, 21:01

7. Spesso, proprio perché la conoscenza razionale
è inadeguata o corrotta dai pregiudizi, che
diventa necessario sottoporre a critica i dubbi, o
entrare in conflitto con quelle verità che si pensano
ormai prive di valore, con quelle che sono
generate dalle nuove scoperte. L’uomo sensibile,
fenomenologico, deve essere sempre in stretto
rapporto con la sua natura, seppure traslitterata
nella forma razionale del pensiero, per costruire
visioni dell’esistenza che corrispondano attraverso
le idee, alle percezioni del mondo fenomenologico
medesimo. Quando ciò non accade,
e si pretende come suggerisce Heiddeger, per
non accettare un ente antropomorfo, di tentare
una morfogenesi dell’uomo attraverso l’ente
che razionalmente gli corrisponde, allora si è
veramente fuori strada, in un terreno virtuale che
proprio per quella ragione, può definirsi metafi -
sico. Ma non anticipiamo troppo le conclusioni,
poiché ciò che ci deve preoccupare ora è questo
sforzo ideologico di mantenere quella vecchia
caratterizzazione degli uomini, suddividendoli
in empirici e sapienti, quanto nella generalità, e
se non vi sono cause di natura impositiva, gli uomini
in genere tendono ad essere, in un qualche
rapporto, entrambe le cose. Infatti, è semmai
proprio per le vicende di ogni uomo e per come
una determinata società organizza la loro vita,
che si può verificare il caso in cui il mondo della
sapienza e del comando sia di taluni, e quello
della schiavitù, del lavoro servile o comunque
subordinato, sia di altri, che molto spesso signifi-
ca: “della moltitudine”. In fondo, il bisogno
di democrazia, anche nel mondo antico nasce
da questa diretta presa di coscienza di quanto la
visione del mondo abbia confuso la realtà con la
fantasia, e che bisognasse perciò trovare un criterio
meno dogmatico e capace di pesare i punti
di vista di tutti.
 
8. Così, con queste annotazioni dovremmo aver
capito dove porta quella innocente scissione di
metodo, che separa il sapere dall’empirismo, ed
a quel punto Aristotele e gran parte della filosofia
che lo ha seguito, potrà da quel momento costruire
una meta-verità, coerente solo quando si
accetti che l’uomo sia parte astratta di quell’ente
che si è appena delineato e non, com’è in natura,
quando fosse libero da ogni condizionamento e
non costretto ad esservi sottoposto: la contro
parte fenomenologica di ciò che non può essere
altro che l’autonomo lato razionale della propria
coscienza.
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Messaggio Da einrix Mar 17 Giu 2014, 19:19

9. Se la filosofia nasce per comprendere il
significato e spiegare la causa di quei fenomeni
che provocano meraviglia, Aristotele ci spiega
che anche allora si sapeva che ciò era possibile
soltanto per quegli uomini che avessero superato
la fase del bisogno e che vivessero in uno stato
di agiatezza tale da consentire loro di disporre
dei mezzi materiali e del tempo necessario per
intenderne le ragioni. Lo stesso Socrate, avendo
fatto per lunghi anni il soldato, solo al termine
della sua vita, fatta di doveri ed impegni militari,
ha potuto dedicarsi alle sue ricerche della verità.
Altri invece, come si racconta dello stesso Democrito,
disponendo di cospicui capitali poterono
dedicare la loro vita ai viaggi ed all’arricchimento
delle proprie conoscenze. Altri ancora, come
Teofrasto, divennero sin da giovani, discepoli
in scuole di filosofia, ed in seguito insegnarono
in quelle stesse scuole quanto avevano appreso.
Cosicché se taluni uomini poterono dedicarsi a
ragionare sulle questioni dell’esistenza, tutti gli
altri dovettero applicarsi nei compiti necessari
alla loro sopravvivenza ed a quella delle loro
famiglie. Questo fatto, spontaneamente generava
una selezione che stabiliva chi dovesse essere
empirico, subordinato e chi invece potesse divenire
colto, erudito e talvolta disponesse anche
del potere del comando. Non era la cultura che
suddivideva con quei criteri gli uomini, quanto
invece lo facesse il censo e la classe di appartenenza
che finiva per determinare di fatto quale ruolo,
quali ambiti di scelta, fossero consentiti
agli uni o agli altri, per non parlare degli
schiavi, i soli che quasi di sicuro costituissero
servitù e manovalanza per produrre quei beni e
quei servizi che permettevano alle famiglie più
abbienti, di vivere in maniera agiata.
 
10. Poiché capimmo già allora queste cose, per
queste medesime ragioni non condividemmo il
principio che il conoscere e l’intendere fossero
più proprietà dell’arte che dell’esperienza. Il
conoscere e l’intendere era di fatto, appannaggio
della classe dominante per quanto ingegno
potesse essere distribuito tra i poveri. E contestammo
quella regola anche perché capimmo
che per renderle una qualche forma di giustifi -
cazione, occorreva comporre un quadro astratto
della realtà, sociale e materiale, che giustificasse
quei ruoli, che li istituzionalizzasse, che li rendesse
tali da divenire pensiero etico e costume
di quel popolo in quel tempo. Perciò essendo
necessario nascondere la natura dei privilegi, li
si negava agli uomini di quel tempo insieme alla
conoscenza, a meno che da soli, o guidati dalla
famiglia, alcuni non fossero capaci di disporre
delle risorse materiali e dell’ingegno necessario.
E tanto per minimizzare il significato della conoscenza,
che era anche scienza, Aristotele scriveva:
«chiaro allora che noi non ci dedichiamo a
tale indagine senza mirare ad alcun bisogno che
ad essa sia estraneo, ma come noi chiamiamo
libero un uomo che vive per se, così anche consideriamo
la scienza come la sola che sia libera,
giacché essa soltanto esiste per se». Questa
indifferenza della scienza agli sviluppi materiali,
alla formazione del potere che trova nella politica
la sua più concreta espressione, pur essendo
materia di riflessione ed insegnamento, si dice di
essa che esiste soltanto per se, mentendo di fatto
proprio sul fondamento della sua utilità in relazione
all’espressione del potere. Un potere che
così diverrà più astratto, meno percepibile con i
rapporti di forza materiale, ma regolato da leggi
dello spirito che si possono anche sostenere con
antiche o nuove divinità.
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Messaggio Da einrix Dom 22 Giu 2014, 13:14

11. E contestammo quel principio perché capimmo
che una scienza non può essere sempre
e solo trasmessa con l’insegnamento, ma deve
essere ripetutamente verificata alla luce dei
fatti nuovi, delle contraddizioni che pare generare
e deve perciò essere criticata, investigata,
sperimentata, proprio per verificare se i valori
che essa ora possiede, siano ancora quelli di un
tempo o se invece siano del tutto scomparsi e
che sia così giunto il momento di superarli, con
un nuovo impulso di potenza, trascinando in tal
modo il vecchio sistema della conoscenza in
uno stadio più elevato del sapere. E chi se non
i critici che abbiano la capacità di sperimentare
saranno coloro che andranno oltre in confine di
un sapere che altrimenti subirà proprio, grazie
agli insegnanti, seppur capaci, quella svalutazione
dei contenuti, prodotta proprio da quegli
stessi ripetuti cicli di formazione nozionistica.
E chi se non sapienti che non abbiano la passione
della ricerca saranno coloro che penseranno
di congetturare solo nella loro mente i problemi,
trovando quelle soluzioni apparenti che per
vincere la complicazione dell’intreccio a cui
spesso vengono sottoposti, devono poi liberarli
da quelle condizioni che talvolta sono le sole
capaci di conferire loro quella aderenza al mondo
fenomenologico. Da questi falsi scopi nasce
una metafisica che non costruisce solo ipotesi
di ragionamento da verificare, ma che trova solo
in quelle risorse razionali le soluzioni che così
spesso sono soltanto apparenti. Vi è ancora uno
scopo in tutto ciò o si tratta solo di quel naturale
degrado cui è sottoposto ogni costrutto, dato che
nell’esistenza reale si scivola sempre, lentamente
verso la complessità ed il caos?
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Messaggio Da einrix Dom 22 Giu 2014, 13:22

CAPITOLO TERZO 
CAUSE ORIGINARIE ED INTELLETTO
 
1. Aristotele quando affronta il problema della
conoscenza di un oggetto, afferma che lo si
conosce quando di esso siano chiare le cause
originarie, e le definisce come: sostanza o
essenza, materia o sostrato, ciò che da inizio al
movimento, il fine ed il bene che esprimono la
generazione stessa di ogni movimento. E subito
dopo pone una definizione che lascia intravvedere
qual’é il suo pensiero in ultima analisi: «la
ragione d’essere di un oggetto si riconduce, in
ultima istanza, alla definizione». Non che non
possa avere ragione, perché seppure un oggetto
qualsiasi esista indipendentemente dalla presenza
dell’uomo, sarà soltanto quando questi
si accorgerà della sua esistenza, ed in qualche
modo di esso sarà capace di darne una definizione
razionale, soltanto allora entrerà nel catalogo
delle cose conosciute e di cui si ha nozione della
sua esistenza. Quello che preoccupa è invece
che “la ragion d’essere di quell’oggetto” sia resa
così soggettiva verso l’uomo da togliere alla natura
quel ruolo generale che le spetta ed entro il
cui ambito si sviluppa anche la nostra esistenza.
Così sembra che si voglia sottomettere l’esistenza
delle cose all’uomo, menomando la natura di
ciò che essa possiede. Una natura menomata non
sarà in grado di spiegare la logica della sua medesima
esistenza per comprendere infine come
noi stessi siamo legati ad essa, prima ancora che
agli Dei.
 
2. Poiché questa tesi sembra non essere in grado
di sostenersi da sola come se fosse un postulato,
allora Aristotele esamina il pensiero antico
per far comprendere come anche esso non
fosse sempre in grado di soddisfare i principi
del conoscere le vere cause prime che possono
determinare la conoscenza di un oggetto, solo
mediante cause di specie materiale, quali sono 
l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria, ma che ad esse
deve aggiungersi qualcos’altro che per Anassagora
era l’intelletto. Se si tratti dell’intelletto
dell’uomo che trasforma il legno in un letto,
può essere ancora ammissibile, vi può essere
pure l’intelletto di chi pianta un seme da cui si
sviluppa quella pianta che darà il legno. Se però
adesso pretenderemo di trovare nuove forme di
intelletto che dal seme sia in grado di riprodurre
la pianta, sappiamo che quell’intelletto è proprio
del codice genetico di quel seme, che con la terra,
l’acqua, l’aria ed il sole può svilupparsi moltiplicando 
le proprie cellule e specializzandosi. A
quel tempo non vi erano nozioni precise tal quali
vi sono oggi, ed è per quello che sappiamo oggi
che possiamo compiere un altro passo importante
nella scoperta di ciò che diviene conoscenza
dell’essere, come mettendo assieme le tessere di
un puzzle che diventa sempre più chiaro.
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Messaggio Da einrix Dom 22 Giu 2014, 20:51

3. Oltre questo stadio vi è il principio di uno
sviluppo naturale di un qualsivoglia organismo
a cui si oppone solo la creazione divina di esseri
ed oggetti. Ora come allora, presupporre l’intelletto
come uno dei principi che costituiscono
l’oggetto può essere vero, purché l’intelletto sia
quel processo predeterminato che abbia la capacità
di coordinare i mezzi del proprio mutamento
e che può svilupparsi in rapporto alla natura, insieme
a tutti gli elementi che lo favoriscano o vi
si oppongano. Poiché parte di queste conoscenze
erano solo intraviste e trasfigurate con concetti
che risultavano solo parzialmente conformi
alla verità - acqua, terra, aria, fuoco - era facile
per Aristotele tentarne una confutazione, anche
quando con Leucippo e Democrito furono creati
i concetti degli atomi e del vuoto che li conteneva,
come principi dell’essere, proprio perché
pur essendo razionalmente coerenti con la teoria
matematica dei numeri, e dei numeri primi, non
erano altrimenti visibili e perciò materialmente
non di facile individuazione e dimostrazione.
Fede per fede e razionalità per razionalità, si
poteva allora proporre un salto nella profondità
della ragione in cui ogni congettura potesse
trovare una spiegazione, e la ragione aveva sede
e riscontro nell’intelletto dell’uomo, dacché
iniziava a delinearsi quella filosofia che abbandonava
i principi della scienza e che trovava
la soluzione ai problemi negli ambiti reconditi
della mente.

4. Non che non si fossero fatti enormi progressi,
ma il fatto che doveva preoccupare al tempo di
Aristotele, è che non andassero perduti quegli
stessi, in nome di una filosofia che nell’atto di
costruire una base logica nuova e più astratta per
il pensiero, non li perdesse nel labirinto della
mente. E così deve essere capitato se Heidegger,
venticinque secoli dopo, ancora alla fine
del volume che tratta del Nichilismo europeo,
dopo aver sostenuto che la metafisica si basava
sull’enticità dell’ente e sull’a priori dell’essere,
introduce il concetto di «essere indeterminato da
riempirsi con contenuti molteplici». Se l’essere è
quell’a priori dell’ente, cosa sono questi contenuti
che devono riempire l’essere indeterminato?
Ad essere generosi, non vi è forse confusione tra
ente ed essere attraverso l’essere indefinito che
si riempie di contenuti? L’essere è tale in quanto
possiede a priori quei contenuti che vengono
rappresentati nell’ente, e non può esistere nessun
essere indeterminato allo stesso modo in cui
possano esistere enti indeterminati e quante loro
istanze si desiderino, ciascuna con tutte le proprietà
che corrispondano ad altri esseri in carne
ed ossa, si direbbe per gli uomini. Con Aristotele,
sostanza o essenza, materia o sostrato era
qualche cosa di molto di più concreto fenomenologicamente
di quanto non lo sia per Heidegger
un essere, se finisce per poter essere confuso con
l’essere indeterminato.
Vi erano a quel tempo sostanze, essenze, materie
e sostrati indeterminati che siano scomparsi
nel ventesimo secolo? Da questi fatti non si può
negare che il pensiero filosofico abbia subito
una potente deriva, allontanandosi dai rigori
della logica e dalla fisis e finendo troppo spesso
nel mondo delle opinioni dottrinali. È questa la
colpa che si può imputare alla metafisica, anche
se un tempo ardiva andare oltre la fisica, per
creare quella forma di pensiero rigoroso, atto
a conoscere e comprendere il mondo e il senso
della nostra esistenza. E vi deve essere proprio
una difficoltà di fondo se sono in tanti, che da
tempo immemore chiedono metodo e verità, da
Cartesio a Leibnitz, Spinoza, Kant, Husserl per
arrivare ai nostri giorni con Gadamer. Nessuno
di loro, per un verso o per l’altro, vi è riuscito
completamente e così, presto, sono stati risucchiati
dalla metafisica dottrinale, che al più fornisce
dei criteri di coerenza assurdi come le premesse
da cui partono. E credo che il convitato di
pietra di questa discussione sia la religione che
è contraria ad un metodo scientifico che proceda
dal buio alla luce, perché essa afferma di possedere
già la luce. Per poter vedere oltre quella
luce occorre essere ciechi, tanto è abbagliante, e
così si finisce nuovamente nel buio, della caverna,
dalla quale non si può più uscire con l’aiuto di
Platone, per quanti sforzi si facciano, salvo che
ciascuno non percorra i sentieri della mente che
possiede dentro di se, e dove potrà incontrare il
proprio essere, immerso in qualsivoglia universo
sarà in grado di immaginare. La vita fenomenologica
e la ricerca della verità è un’altra cosa,
per gli esseri viventi che vogliano mantenere
attivi tutti i propri sensi, e la via della scienza è
il sentiero che si deve percorrere per scoprire la
natura e le proprietà del nostro essere.
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Messaggio Da einrix Lun 23 Giu 2014, 09:41

5. Ad analoghi risultati perverremmo anche se
invertissimo il ragionamento. Se Heidegger afferma
che le basi della metafisica sono l’enticità
dell’ente e l’a priori dell’essere riferito all’ente,
allora anche la scienza è metafisica nella sua
forma più rigorosa, poiché anch’essa è alla continua
ricerca della verità legata alla molteplicità
degli esseri che vi sono in natura. E lo farà con
metodo analitico, logico e sperimentale al fine di
trovare il riscontro nella realtà fenomenologica.
Infatti se l’enticità dell’ente ne garantisce la sua
espressione razionale, l’essere è quella realtà a
priori che può essere disvelata nell’esperimento,
proprio al fine di essere trasformata e rappresentata
razionalmente nell’ente. Quell’idea che
a priori è solo una possibilità astratta, dopo la
conferma dell’esperimento diviene la definizione
dell’ente e delle sue proprietà che può essere
condivisa da tutti. E così diviene un contenuto
che si può trasmettere come verità, non una
semplice supposizione o teoria, com’è invece
prima della prova. Questa ricerca dell’essere
per se stesso, non deve essere un caso che la si
volesse definire ontologica, forse per tagliare
i ponti con una metafisica che restava aggrappata
al labirinto della fede. Per questa ragione
qualunque ragionamento Heidegger facesse sui
problemi dell’essere, dava patenti di metafisico
a tutti, anche a chi, come Nietzsche, detestava la
metafisica e ne indicava i limiti. La metafisica
è l’ambito in cui si vuole salvare la logica che
porta alla religione, e poiché essa - la metafisica
- di fatto può costituire anche l’ambito in cui si
possono indagare i fondamentali delle scienze
dello spirito, ecco che ci si sforza di tenere unite
le une alle altre, ma senza successo, per quel
principio di contraddizione che non può essere
rimosso, tra rivelazione di una verità senza
prove e rivelazione di una verità provata. Non
esiste di fatto alcuna «verità» non provata, e
se ciò può essere, avviene solo in un ambito in
cui le regole possano essere cambiate nel corso
della dimostrazione, o come nel caso di Spinoza,
la soluzione del teorema - sulla dimostrazione
dell’esistenza di Dio - fosse già scritta, seppure
camuffata, nella definizione di partenza. Comportamenti
che nell’ambito della scienza, se tale
vuole essere, non possono essere ammessi. 
 
6. É Nietzsche che ci riporta con i piedi per
terra. Nella genealogia della morale - paragrafo
16 - scrive:«Tutti gli istinti che non si scaricano
all’esterno, si rivolgono all’interno». Sta trattando
della cattiva coscienza che considera la grave
malattia in balia della quale l’uomo cade quando
subisce quella metamorfosi che lo trasforma da
uomo libero nella natura in cittadino, schiavo
o suddito che viene incapsulato nell’incantesimo
della società, del suo linguaggio e delle sue
regole. Quel dover divellere tutti gli istinti per
adeguare il proprio comportamento alle leggi,
lo ha portato a pensare, a calcolare, a dedurre,
in una maniera come non aveva mai fatto prima
d’allora. E così, se l’inimicizia, la crudeltà, il
piacere della persecuzione, dell’aggressione,
del mutamento, della distruzione, diventano il
contenuto formale della «sua cattiva coscienza»,
allo stesso modo altre qualità dell’essere vengono
iscritte nella «buona coscienza» e nella conoscenza,
secondo i formalismi razionali e metafi-
sici, richiesti proprio da quella convivenza. Da
quel momento non sarà più possibile liberarsi da
quella nuova condizione, salvo non voler regredire
al livello dell’uomo primitivo che di fatto è
stato estirpato o colonizzato dalla nuova società.
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Messaggio Da einrix Mar 24 Giu 2014, 13:43

7. Se le regole e l’etica sono finalizzate a definire
ed a rendere stabili i rapporti tra gli individui,
la natura di tali rapporti può essere quanto mai
varia e disparata e lo si vede dalla molteplicità
di società che vengono espresse sull’intero
pianeta, e come queste possano essere cambiate
rapidamente, solo sovvertendole. I cambiamenti
lenti di fatto avvengono con le crisi generazionali,
quando il livello di crescita di una società garantisca
quel raggiungimento di prospettive che
faccia parte di un comune sentire e che venga
sostenuto da un potere adeguato. I cambiamenti
repentini si hanno invece o quando vi sia una
crisi di fiducia nelle proprie istituzioni che così
vengono ad indebolirsi, o perché dall’esterno
venga sferrato un attacco capace di distruggere
quella società al fine di assoggettarne individui
e risorse. Sono proprio questi pericoli mortali
che spingono gli individui a cooperare in una
società senza alternative e baluardo per la difesa
della propria indipendenza. Attorno a questi
pressanti bisogni e necessità nasce quella visione
di se, quell’eidos che comprende ogni strumento
ideologico teso a potenziare la propria capacità
di affermazione, di difesa e di supremazia. In un
mondo in cui la difesa a certe condizioni degli
individui è possibile solo nell’ambito dello stato,
l’organizzazione di quelle condizioni rappresentano
i fattori di normalizzazione ideologica
che si giustificano solo in rapporto al fine, e che
possono perdere anche qualsiasi altro rapporto
con la realtà fisica. Le guerre coloniali - che
talvolta vengono chiamate anche imperialiste -
obbediscono in senso lato alle leggi della natura,
ma vengono condotte dopo aver costruito una
ideologia legata alla patria, al senso di appartenenza,
alla superiorità del proprio pensiero, in
genere contro popolazioni deboli che vengono
rappresentate come incapaci di comunicare e
come un pericolo imminente per la sicurezza di
chi diviene colono per quelle immanenti necessità.
E se l’uomo internamente alla stato, è costretto
ad indossare i panni della cattiva coscienza,
riacquista il suo ruolo di animale del passato,
proprio quando con la dichiarazione di guerra,
può nuovamente affermare i propri istinti. E così
constatiamo come la mente razionale venga suddivisa
in una parte capace di «cattiva coscienza»
e moderazione ed un’altra, che a comando possa
dare libero sfogo alla sua volontà di potenza,
seppure secondo le regole belliche in vigore.
Non c’è da meravigliarsi che una mente capace
di tali adattamenti, possa poi costruire, intorno
a quegli scopi -società e conflitto - il substrato
di coerenza che è tale solo in quell’ambito,
secondo quel modello di cittadino e soldato. Le
altre espressioni dell’individuo nell’ordinamento
gerarchico della società seguono analoghi
percorsi di adattamento e normalizzazione. In
ciò la metafisica è essenziale, perché permette
l’esistenza di sistemi mentali certificabili senza
la necessità che essi possano avere necessariamente
altri riscontri in natura. É facile credere in
Dio attraverso i metodi della metafisica, non è
ancora possibile con gli strumenti della scienza.
Allo stesso modo è facile credere nella razza,
nella nazione, nella superiorità di una cultura,
attraverso un punto di vista soggettivo possibile
di fatto con i modelli resi disponibili dalla
metafisica.
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Messaggio Da einrix Mer 25 Giu 2014, 08:56

CAPITOLO QUARTO
 
L’ESSERE E LA SUA ENTIZZAZIONE
 
1. Il problema nasce dal fatto che conosciamo e
utilizziamo da tempo immemorabile la lingua e
la scrittura, che ne è l’espressione grafica, insieme
alle immagini. Quindi l’entizzazione dell’essere
è già avvenuta nel passato, anche se non
mancano nuove scoperte per nuove definizioni.
Prima della fondazione della lingua, all’essere
corrispondevano solo delle immagini mentali e
le sensazioni di indifferenza, interesse, bramosia,
paura, ecc., che vi venivano associate. É con
la lingua che quelle immagini e quelle sensazioni
sono divenute enti e proprietà condivise da
un determinato gruppo sociale, per esprimere e
comunicare quanto di interesse tra loro e intorno
a loro. Nei dizionari, quasi sempre i nomi si
riferiscono agli enti in senso determinato, gli
aggettivi definiscono le proprietà degli enti, e i
verbi descrivono funzioni e metodi attuati o subiti
dagli enti medesimi. Altre particelle entrano
nella lingua secondo la sintassi e l’uso. Se prima
della “lingua” l’essere fenomenico era l’ «a priori
» dell’ente, dopo la lingua, il pensiero, operando
sui concetti, ha creato degli “esseri” razionali
che non trovano riscontro nella realtà empirica e
così si danno parimenti enti che possono essere
riferiti a non-essere fenomenici. L’asino fenomenico
è stato sicuramente entizzato agli albori
della lingua, conoscendolo per la sua utilità sin
dai primordi, ma l’asino che vola, quello è di
sicuro venuto fuori soltanto dopo, quando si è
voluto prendere in giro qualcuno. E lo stesso si
può dire degli dei e di ogni figura mitologica del
presente e del passato. Se il concetto di Ente è
così semplice, come mai ne “Il sofista”, Platone,
tra lo Straniero e Teeteto la fa così lunga per
indagare sull’essere e perciò, attraverso la sua
entizzazione, sull’Ente? Era veramente l’Ente e
la sua entizzazione il problema? Oppure si voleva
discutere di logica attorno a quella supposta
doppia aporia di Parmenide che diceva: «l’essere
è ciò che non può non essere ; il non-essere è
ciò che non può non essere» Doppia aporia per
Platone forse, visto che per Democrito l’atomo
ed il vuoto esistevano entrambi e se l’atomo era
l’essere, il vuoto, secondo la definizione eleatica
– e quindi di Parmenide - era il non-essere.
Derivava da ciò quella doppia affermazione di
Parmenide, oppure Democrito stesso, pur non
essendo un sofista, contribuisce a confondere
il significato della discussione? Gli intenti di
Parmenide, Democrito e Platone, incrociandosi,
trovano il loro punto d’incontro o devono fare
terra bruciata, cancellando i precedenti significati,
per affermare le proprie personali idee?
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Messaggio Da einrix Mer 25 Giu 2014, 09:04

2. Se vogliamo mantenere un punto fermo consiglio
quello indicato da Democrito. Se invece si
volesse dimostrare come talvolta un costrutto logico
possa essere indeterminato, e che scegliendo
una soluzione o l’altra si cadrebbe comunque
in qualche contraddizione, allora serviamoci
di un esempio famoso, che si compendia nella
frase: «questa è una bugia» che è di per sé una
espressione indeterminata. Se fosse davvero una
bugia, allora non sarebbe una bugia e se fosse
una verità come potrebbe essere allora una
bugia? Ma questo esempio indica soltanto che
anche nel processo mentale si possono costruire
delle situazioni indeterminate di fronte alle quali
ogni scelta non appare di fatto privilegiata. Le
scienze matematiche e la Meccanica razionale,
però insegnano a risolvere i gradi di indeterminazione
di un problema, introducendo un numero
di nuove relazioni, tra loro indipendenti, tante
quanti sono di fatto i gradi di indeterminazione.
Quel problema filosofico che resta nebuloso
nella trattazione di Platone, di fatto, viene risolto
con il contributo dei metodi creati da altre scienze
e validi anche in altri ambiti. La metafisica
trova così il suo spazio nella conoscenza razionale
allo stesso modo della scienza e di ogni
altra libera espressione del pensiero, seppure su
un livello più elevato. E deve essere valutata per
il contributo che essa può dare e ha dato, al pari
delle altre espressioni del pensiero ed al progresso
della conoscenza in generale. Così possiamo
osservare che non sempre, a giudicare dai
fatti, ha arricchito la società e la cultura che ha
espresso, non bastando l’esercizio linguistico e
quello logico, per comprendere i fenomeni della
vita che rappresentano ancor oggi per l’umanità,
una sfida vitale e talvolta mortale.
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Messaggio Da einrix Gio 26 Giu 2014, 18:21

3. Anche leggendo Nietzsche appare evidente
come l’umanità, in occidente, abbia somatizzato
la propria cultura, spesso come una dottrina
legata ad un credo religioso che si fonda sul
peccato originale di Adamo ed Eva e non già
sull’aver scelto quella libertà del volere umano
e quel distacco dalla divinità che può avere un
suo prezzo. Se la religione ebraica si trova ad
un certo punto in una valle di lacrime tanto da
esserne sconvolta e salvata dal diluvio, o nel
deserto alla ricerca della terra promessa, è nelle
soluzioni che sempre riesce a trovare per quelle
sventure, la premessa ed il fondamento per una
volontà di potenza che può tutto nei confronti
della natura, con l’aiuto di Dio, naturalmente.
Così gli ebrei anticipano l’uso e la finalità che i
musulmani stessi faranno della divinità e della
religione, proprio a difesa della loro identità
ideologica e per sostenere quell’unità che diviene
così capace di amplificare il consenso e
l’espressione della loro loro stessa volontà di
potenza. Il cristianesimo vuole affrontare la sfida
per una nuova universalità, tentando di risolvere
razionalmente ciò che né l’ebraismo prima né
la dottrina musulmana poi riescono a fare e lo
fa uscendo dal rito pagano della divinità esterna
all’uomo, attraverso la creazione di quel figlio di
Dio che toglie i peccati dal mondo, caricandoli
su se medesimo nel sacrificio della croce. Una
potenza evocatrice mitologica immane che però
in poco tempo viene trasformata e depotenziata
da Roma, quando la assume come espressione
ordinaria della sua divinità, a rappresentare
l’essere ed il potere dell’impero. Da allora il
cristianesimo è rimasto ancella al servizio del
potere e dell’identità occidentale, sino a quando
quel potere non assunse la guida di quel mondo,
finendo con Costantino a Bisanzio, di ripristinare
quel potere sacrale del re sacerdote, tanto
comune in quelle terre dell’Asia dai caldei della
Mezza Luna fertile ai medi e persiani. Non si
può comprende quali espressioni possa assumere
la mente razionale nel digerire quel processo
ancestrale che passa per il potere nobiliare, dopo
aver creato quella base dei valori attraverso il
sistema metafisico, il solo in grado di elaborare
razionalmente una fede religiosa come pensiero.
La nostra storia è per larga parte ancora legata
a quella ideologia fondata sulla metafisica di
un cristianesimo tradito nelle proprie origini e
ricondotto al peccato delle sue origini ebraiche.
 
4. Il potere imperiale crea una subordinazione
diretta e drastica tra i nobili ed il popolo,
cos’altro meglio di una religione che infligge il
peccato come condizione permanente di «cattiva
coscienza» e che lo riscatta per grazia di Dio
può dare una rappresentazione così completa
e convincente di quello stato? La longevità del
cristianesimo dipende proprio da questo suo
essere tutore della coscienza nel suddito che così
trova il suo ruolo nello stato titolare della chiesa.
Ben diversa era la vita nelle comunità cristiane
al tempo delle persecuzioni, altra era la forza
della rivendicazione morale di una uguaglianza
di fronte a Dio che superava le condizioni servili
e quelle della schiavitù come nient’altro avrebbe
potuto. Ora che tutti erano divenuti cittadini
dell’Impero non potevano che obbedire ad esso
come alla propria religione che ne era ormai divenuta
l’espressione più coerente e forte. Quando
seguono gli scismi tra oriente ed occidente, si
frantumano gli imperi. ma resta quel valore che
assegna all’imperatore quel ruolo di testimone
e custode della fede. Ed anche quando Martin
Lutero genera la sua riforma, non sono le ragioni
dottrinali che presiedono a quelle scelte, ma solo
la ragione di stato legata alla nazionalità che si
sostiene e si legittima proprio in quella identità
tra potere e fede. E se in Germania quella difesa
della propria identità nazionale viene sviluppata
dalla chiesa, in Inghilterra è il re, che volendosi
separare dalla tutela del Papa di Roma, crea una
chiesa nazionale di cui lui si nomina il capo.
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Messaggio Da afam Gio 26 Giu 2014, 19:51

einrix ha scritto:3. Anche leggendo Nietzsche appare evidente
come l’umanità, in occidente, abbia somatizzato
la propria cultura, spesso come una dottrina
legata ad un credo religioso che si fonda sul
peccato originale di Adamo ed Eva e non già
sull’aver scelto quella libertà del volere umano
e quel distacco dalla divinità che può avere un
suo prezzo. Se la religione ebraica si trova ad
un certo punto in una valle di lacrime tanto da
esserne sconvolta e salvata dal diluvio, o nel
deserto alla ricerca della terra promessa, è nelle
soluzioni che sempre riesce a trovare per quelle
sventure, la premessa ed il fondamento per una
volontà di potenza che può tutto nei confronti
della natura, con l’aiuto di Dio, naturalmente.
Così gli ebrei anticipano l’uso e la finalità che i
musulmani stessi faranno della divinità e della
religione, proprio a difesa della loro identità
ideologica e per sostenere quell’unità che diviene
così capace di amplificare il consenso e
l’espressione della loro loro stessa volontà di
potenza. Il cristianesimo vuole affrontare la sfida
per una nuova universalità, tentando di risolvere
razionalmente ciò che né l’ebraismo prima né
la dottrina musulmana poi riescono a fare e lo
fa uscendo dal rito pagano della divinità esterna
all’uomo, attraverso la creazione di quel figlio di
Dio che toglie i peccati dal mondo, caricandoli
su se medesimo nel sacrificio della croce. Una
potenza evocatrice mitologica immane che però
in poco tempo viene trasformata e depotenziata
da Roma, quando la assume come espressione
ordinaria della sua divinità, a rappresentare
l’essere ed il potere dell’impero. Da allora il
cristianesimo è rimasto ancella al servizio del
potere e dell’identità occidentale, sino a quando
quel potere non assunse la guida di quel mondo,
finendo con Costantino a Bisanzio, di ripristinare
quel potere sacrale del re sacerdote, tanto
comune in quelle terre dell’Asia dai caldei della
Mezza Luna fertile ai medi e persiani. Non si
può comprende quali espressioni possa assumere
la mente razionale nel digerire quel processo
ancestrale che passa per il potere nobiliare, dopo
aver creato quella base dei valori attraverso il
sistema metafisico, il solo in grado di elaborare
razionalmente una fede religiosa come pensiero.
La nostra storia è per larga parte ancora legata
a quella ideologia fondata sulla metafisica di
un cristianesimo tradito nelle proprie origini e
ricondotto al peccato delle sue origini ebraiche.
 
4. Il potere imperiale crea una subordinazione
diretta e drastica tra i nobili ed il popolo,
cos’altro meglio di una religione che infligge il
peccato come condizione permanente di «cattiva
coscienza» e che lo riscatta per grazia di Dio
può dare una rappresentazione così completa
e convincente di quello stato? La longevità del
cristianesimo dipende proprio da questo suo
essere tutore della coscienza nel suddito che così
trova il suo ruolo nello stato titolare della chiesa.
Ben diversa era la vita nelle comunità cristiane
al tempo delle persecuzioni, altra era la forza
della rivendicazione morale di una uguaglianza
di fronte a Dio che superava le condizioni servili
e quelle della schiavitù come nient’altro avrebbe
potuto. Ora che tutti erano divenuti cittadini
dell’Impero non potevano che obbedire ad esso
come alla propria religione che ne era ormai divenuta
l’espressione più coerente e forte. Quando
seguono gli scismi tra oriente ed occidente, si
frantumano gli imperi. ma resta quel valore che
assegna all’imperatore quel ruolo di testimone
e custode della fede. Ed anche quando Martin
Lutero genera la sua riforma, non sono le ragioni
dottrinali che presiedono a quelle scelte, ma solo
la ragione di stato legata alla nazionalità che si
sostiene e si legittima proprio in quella identità
tra potere e fede. E se in Germania quella difesa
della propria identità nazionale viene sviluppata
dalla chiesa, in Inghilterra è il re, che volendosi
separare dalla tutela del Papa di Roma, crea una
chiesa nazionale di cui lui si nomina il capo.

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Messaggio Da einrix Ven 27 Giu 2014, 08:10

Cara Afam, a leggere il tuo commento mi sono commosso.
Alla fine, questo è un po il succo della storia, per cui la filosofia può insegnare grammatica e sintassi dell'essere e dello spirito. Può, dico, perché può anche confondere tutto per trascendere la realtà oltre i limiti che alla ragione possono essere concessi, se si vuole restare aderenti alla umana verità.

Col capitolo quinto che aggiungerò tra breve, dove tratterò in qualche modo il tema dell'obiettivismo e trascendentalismo va (quasi) a concludersi questo lavoro di riflessione. Un sesto capitolo su Logica e libertà è appena abbozzato, e non so quando e come lo porterò a termine, avendo in parte già scritto su questi argomenti, e in parte essendo ancora alla ricerca di concetti e teoremi su cui lavorare.
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Messaggio Da einrix Ven 27 Giu 2014, 10:42

CAPITOLO QUINTO
 
OBIETTIVISMO E TRASCENDENTALISMO
 
1. L’obiettivismo secondo Husserl persegue la
verità obiettiva utilizzando le capacità razionali
ed applicandole a quel terreno dell’esperienza,
anch’esso definito razionalmente dagli uomini
che lo vogliano. Ed in un quadro generale,
universale, questa ricerca spetta proprio all’episteme,
alla ragione, alla filosofia. Ma se questo
è il compito degli obiettivisti, esso è visto
proprio come limite dai trascendentalisti che
contestano la legittimità della scienza obiettiva
in quanto filosofia, e pretendono di fondare una
scientificità di tipo completamente nuovo, trascendentale
appunto. E questo è lo stesso punto
in cui Aristotele definisce implicitamente per la
prima volta la metafisica, passando dalla fisica
e dalle scienze del comportamento e dell’animo
a quella scienza che pareva non avesse le stesse
basi salde come ciò che aveva già trattato, ma
che possedesse comunque quella potenzialità di
sviluppo della conoscenza razionale che poteva
essere premessa ad ulteriori conquiste del
sapere. L’unica differenza è che le scienze che
si devono superare, oltre le quali si deve andare,
non sono più le scienze di quel tempo, ma quelle
moderne che oggi conosciamo e su cui confidiamo
che siano vere.
 
2. Se Husserl propone la sua fenomenologia
come sviluppo della metafisica nella sua forma
finale, è perché pensa che essa possa contenere
anche una forma finale della psicologia e che
insieme acquistino quella forza di metodo e di
verità che altrimenti non avrebbero. Ma abbiamo
visto che il progresso della filosofia e delle
scienze la si può avere anche se le varie forme di
obiettivismo del passato o quelle della metafisica
restano separate, purché si lasci la libertà a chi
voglia comprendere il mondo, di formulare il
proprio pensiero e di confrontarlo sottoponendolo
alla critica, senza difenderlo ad oltranza, magari
con la forza di una fede armata. Lo si è visto
quanto l’intromissione della fede abbia nuociuto
alle scoperte ed alla conoscenza del vero e come
gli scienziati abbiano sempre dovuto premettere
la fede in dio, per argomentare sviluppi della
scienza che portavano un nuovo contributo alla
conoscenza non previsto dalle sacre scritture. 
 
3.In fondo cosa sappiamo della fede di Cartesio
o Spinosa se non fosse davvero un paravento per
godere di quella libertà che gli era necessaria ad
esercitare la loro mente razionale nella logica e
nella scienza, visto che l’alternativa era l’indice
ed il rogo delle opere se non degli stessi autori.
Cos’è una lode come questa di Cartesio scritta
nel discorso sul metodo: «Come è ben certo che
l’ordinamento della vera religione, le cui leggi
sono dovute a Dio soltanto, deve essere incomparabilmente
migliore di ogni altro.» Così che
da una parte loda il signore, ma dall’altra si sta
esercitando a cogliere il vero, proprio con «Discorso
sul metodo». Nel paragrafo dei “Principi
della conoscenza umana”, Cartesio scrive: «Chi
cerca la verità, deve una volta nella vita, dubitare
di tutto». Vi pare che senza premettere la
fede in dio e senza dichiarare che la religione e
la fede sono emanazioni dirette di dio, sarebbe
passata inosservata una frase come quella?
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Messaggio Da einrix Sab 28 Giu 2014, 11:21

4. Quindi non sappiamo davvero se la scienza
non abbia dovuto millantare una fede per potersi
sviluppare nell’intorno di essa, anche se comprendiamo
benissimo come con la rivoluzione
illuminista e la caduta del potere temporale della
chiesa, la libertà del pensiero si sia dispiegata
a tutto campo, alimentando come una sorgente
tutti i rami della scienza e del sapere umano.
Adesso siamo al punto in cui la religione, quasi
privata di quella razionalità che il pensiero
filosofico religioso nel tempo aveva costruito intorno
ad essa, e lasciata sola in balia della fede,
cerchi di rivendicare quel ruolo della conoscenza
che porta a dio, e lo fa con un papa professore
di filosofia quale è Benedetto XVI. Non che non
ve ne siano altri di filosofi credenti in Cristo,
ma è sempre forte il rischio che reinterpretando
gli antichi testi pervengano a nuove forme
di religiosità che non sono ritenute appropriate
dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Oggi con il cardinale William Joseph Levada, le
cose potrebbero anche non cambiare se nella sua
prolusione all’ «Indirizzo di omaggio al Santo
Padre», Venerdì, 24 marzo 2006, il giorno della
sua nomina a responsabile della Congregazione
dice: « Noi oggi in modo speciale invochiamo lo
Spirito Santo perché sostenga con la sua luce
e la sua forza il Ministero Apostolico di Vostra
Santità e doni a tutti noi, chiamati a cooperare
al servizio del Successore di Pietro, e a quanti ci
accompagnano con la loro presenza, con le loro
preghiere e il loro affetto, la generosità nell’impegno
cristiano e la gioia di sentirci e rimanere
servitori del Vangelo ». Così apprendiamo
dell’esistenza dello Spirito Santo che possiede
luce e forza capace di sostenere il Papa nel suo
ministero. Un bell’esempio di come possa essere
usata la razionalità quando si tratti di fede.
 
5. Torniamo ad Aristotele. Nella Metafisica,
trattando dell’oggetto della metafisica sostiene:
«nessun’altra scienza, se non la filosofia ha il
compito di studiare le proprietà (...) dell’essere in-
quanto-essere (...), alla fisica (...) si può assegnare
lo studio degli enti non in-quanto-enti, ma
piuttosto in-quanto-partecipi-del-movimento».
Aristotele inoltre intende per ente tutto ciò che
è, tutto ciò che esiste: sarà perciò ente un uomo,
così come sarà ente il suo colore di pelle. E così
se l’essere è uno stato, l’ente è la rappresentazione
che vi corrisponde e che consente una identifi-
cazione altrimenti impossibile. Se l’essere è un
«a priori», la sua entizzazione comunque venga
espressa, vi corrisponde, purché in una data
comunità vi sia l’accordo su quella convenzione.
L’entizzazione è un avvenimento che si applica
ad un essere ed è relativo alla comunità che
definisce tale convenzione e la fa propria. Per
ogni essere vi potranno essere più entizzazioni e
tante quante saranno le comunità che attueranno
quella identificazione con un processo linguistico
di codifica delle parole che avranno quel dato
significato. Poiché l’essere-in-quanto-essere può
essere uno o un altro o combinazioni di questi,
non sarà così semplice risolvere le corrispondenze
linguistiche quando risultino indeterminate
rispetto all’essere-in-quanto-essere. Da ciò derivano
le difficoltà che si incontrano nelle traduzioni
da una lingua all’altra di componimenti o
informazioni. Per risolvere le indeterminazioni
linguistiche, occorrerebbe creare in qualche
modo un catalogo degli esseri-in-se e da quelli
risalire agli enti relativi nelle diverse lingue.
Se si pensa che gli esseri-in-se si presentano
spesso come aggregati di esseri-in-se, si può
comprendere quale sia la difficoltà di disporre di
un catalogo di esseri-in-se e delle corrispondenti
entizzazioni relative. Proprio da questa difficoltà
deriva quella incomprensione sul contenuto e
sul significato delle parole, specie se derivano
da traduzioni di lingue diverse. Gli ideogrammi,
seppure con qualche approssimazione, permettono
di creare quel catalogo di enti che risolve la
trasformazione linguistica. Ovviamente il limite
è nella instabilità che vi è tra essere-in-quanto essere
e l’ideogramma che ne rappresenta l’entizzazione
grafica.
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Messaggio Da einrix Lun 30 Giu 2014, 11:57

6. Se non vi fosse stata la lingua parlata e poi
quella scritta, la nostra mente avrebbe percepito
ed elaborato nel limite dei sensi la realtà,
costruendo le immagini mentali che ciascuno di
noi conosce, udendo i suoni, sentendo i profumi,
cogliendo il gusto, avvertendo col tatto una parte
delle proprietà fisiche della materia: la temperatura,
lo stato (liquido, solido), la rugosità, il
movimento, la forma. Senza andare a pensare ad
altri animali, quella è la condizione di un uomo
muto che viva tra muti che non conoscano la
scrittura. O più verosimilmente, la situazione è
quella di una comunità di esseri umani che siano
privi della conoscenza del linguaggio così come
deve essere stato nella preistoria. Se dell’esserein-
quanto -essere, compreso se stesso, l’uomo
debba averne avuta la percezione, insieme alla
conoscenza dei rapporti fondamentali per la socializzazione
ai fini della riproduzione, di mano
in mano che si fissavano nuovi rapporti o fosse
necessario fissare nuove esperienze, scoprendo
di essere in grado di modulare ed articolare
con la voce una serie di suoni, sono quelli oltre
alla gestualità legata all’azione che divengono
il mezzo per comunicare quegli atti di volontà
prima e poi gli altri relativi a rendere l’esempio
come conseguenza dell’esperienza, del vissuto.
Gli “a priori” della conoscenza dell’essere in-
quanto-essere sono già formati con l’uomo
prima ancora che impari a parlare. Derivano dal
modo in cui il cervello elabora sotto forma di
immagini, suoni, odori, sapori e senso del tatto
le informazioni che acquisisce attraverso i sensi.
Ed impara così bene a sviluppare quelle capacità
di rappresentazione, o si dovrebbe dire che le
acquisisce, proprio per soddisfare le sue esigenze
vitali, quanto meno come conseguenza di una
selezione naturale se si vuole dare il giusto peso
alla trasmissione dei geni nella riproduzione.
L’uomo è “quello che sa” anche se ancora non
parla, perché il sapere che deriva dall’esserein-
quanto-essere contiene tutto ciò di cui ha
bisogno per la sua sopravvivenza fino a quel
momento. Se la filosofia è una pre-condizione
essenziale della esistenza-conoscenza, ogni
essere che sia in grado di sopravvivere contiene
“quanti” di quel sapere, indipendentemente dal
fatto che viva nel terzo millennio o agli albori
della civiltà. Anzi, pare che oggi la maggiore
complessità della conoscenza porti a divergere
dai principi tanto che vi è chi si domanda se la
filosofia esista davvero. Per l’uomo di oggi che
si rivolge al passato, invece, la filosofia non ha
dubbi che esistesse al tempo in cui non aveva
neppure un nome, in bilico tra doxa ed epistéme.
Semmai nell’uomo primitivo l’incontro con la
natura viene vissuto in maniera diretta e mediato
dalla formazione solo per l’essenziale, intorno
alla vita ed alla morte. Devono passare molte
generazioni perché si creino quei comportamenti
orientati a consolidare i ricordi che hanno un
senso facilitatore o che rappresentano le condizioni
di massimo pericolo. Proprio per l’esigenza
di specificare quei ricordi in insegnamenti che
si sviluppa la lingua, anzi la lingua è tra i ricordi
quella che consente quelle astrazioni che vanno
oltre le capacità topologiche dei sensi. Ad ogni
evento che si deve attuare o che si manifesti si
associano suoni distinti e quando essi vengono
emulati dopo essere stati compresi, diventano
quel linguaggio convenzionale che viene
usato nelle circostanze di cui essi sono di fatto
l’espressione.
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Messaggio Da einrix Mar 01 Lug 2014, 20:30

7. La nostra fortuna è oggi quella di poter ripercorrere
la fase dello sviluppo di quelle capacità
che poi divengono innate, in un ambiente ideale:
quello dei computer di processo. Anche in quel
caso, dopo aver superato le prime fasi dello sviluppo
con la creazione delle macchine cibernetiche
che possono compiere operazioni logiche,
acquisizioni e memorizzazioni, si può giungere a
quella fase avanzata in cui si digitalizzano suoni,
immagini, odori, forse anche sapori e molti altri
paramentri fisici. Per molti di quei sensori si è
riusciti a riprodurre quelle immagini che viste
su un monitor o viste direttamente sulla scena, si
corrispondono con elevata fedeltà. In pochi decenni
abbiamo creato sistemi hardware-software
del tutto simili a quelli che la natura ha impiegato
forse milioni di anni per costruirli insieme
a noi. Si comprende allora cosa sia la capacità
di astrazione della mente umana, quando si
escogita un criterio efficiente di riconoscimento
visuale. Gli elementi necessari a determinare
quei riconoscimenti possono essere strutture
elementari e componibili generate da precedenti
ricordi e memorizzate come tratti comuni, adatti
per riconoscere proprio ciò che stiamo cercando,
perché alcuni di quei tratti sono associati a parti
di ciò che vogliamo riconoscere ed una combinazione
di una serie di tali tratti, insieme alle
corrispondenze cui si riferiscono, permette con
una certa probabilità di identificare l’oggetto che
vogliamo riconoscere. Il riconoscimento di una
impronta può essere fatto misurando la coerenza
che vi è tra l’immagine memorizzata ed una
esistente in memoria, ma per capire che si tratti
dell’impronta di un dito o di un piede, sono altri
riferimenti più generali, quelli che servono per
le decisioni. E scoperto che si tratti di un piede,
soltanto dopo si potrebbe cercare di risalire ad
una persona specifica o ad una classificazione
più generale. Altezza, peso, ecc.

8. Se il modello della macchina cibernetica può
essere utilizzato come base per il controllo di
un umanoide in grado di muoversi ed agire per
compiere attività per le quali deve essere programmato,
tra quelle attività vi può essere anche
una qualche forma di auto-apprendimento. Seppure
internamente di tipo deterministico, quel
comportamento diventa esternamente casuale,
quando le condizioni di ciò che dovrà apprendere,
saranno casuali, quanto meno per l’osservatore.
Ecco che così possiamo comprendere come
individui o macchine, programmati per auto apprendere,
seppure dotati alla base di strutture
deterministiche, alla fine del loro autoapprendimento,
che sarà vario tanto quanto il caso vuole,
appariranno come non più prevedibili. Di fatto
avranno cambiato quei parametri che nei loro
circuiti di memoria faranno propendere verso
una scelta piuttosto che su di un’altra sulla base
del vantaggio che hanno acquisito in precedenza.
Dovremmo aver memorizzato anche noi, in
parallelo, quelle condizioni e immediatamente
ogni futuro comportamento parrebbe di nuovo
determinato dal loro processo deterministico
interno. Se non fosse così anche per l’uomo, non
si capirebbe l’utilità di un insegnamento scolastico
che crea delle condizioni deterministiche
di comportamento in relazione alla conoscenza
acquisita, ma il cui comportamento talvolta
risulta imprevedibile perché sottoposto ad altre
considerazioni e volontà di potenza non previste
da quel corso di formazione. Proprio nella
programmazione ad oggetti, vi sono gli oggetti
appunto, che rappresentano una determinata funzione,
entità, cosa, una espressione dell’essere,
l’ente, di cui è possibile dimensionare tutta una
serie di proprietà che la definiscono meglio e che
hanno come duale l’entizzazione di quell’ente,
appunto. Ma se quella è la costruzione geometrica
dell’ente, poi esso agisce in rapporto agli
eventi che si sviluppano in successione o pos-
sono giungere casualmente ad un certo tempo.
I modelli che rappresentano la realtà non sono
la realtà, come una storia raccontata a teatro
non è che una rappresentazione di fatti che
possono essere accaduti, che potranno accadere
per senso di emulazione oppure siano di fatto
immaginari. Ma come un modello cibernetico è
un modello, un computer è di fatto un essere-inquanto-
essere. Poco importa se riproduca azioni
umane, resta distinto dall’uomo nella misura in
cui possa prendere delle iniziative sia di azione
che di formazione. Di sicuro, come si sta già
facendo con le macchine, l’uomo stabilirà dei
criteri e delle regole se non addirittura delle leggi,
per stabilire quali siano i limiti di una macchina
cibernetica. In parte è così anche adesso
quando per legge, alcuni paesi hanno limitato
la complessità della criptografia per impedire
che privati possano trasmettere dati relativi a
qualche delitto senza che quella trasmissione
possa costituire una prova. Se questo è un caso
limite, possiamo ben comprendere che anche
per i robot nasceranno una serie di prescrizioni
che ne definiscano il ruolo ed i limiti e si stabiliranno
dei gradi di responsabilità per chi risulti
il proprietario o il responsabile dell’uso e del
controllo di quella macchina cibernetica. Come
per le auto si devono certificare centinaia di
comportamenti per ridurne la pericolosità, anche
per un robot si faranno normazioni per certifi-
cazioni relative alla sicurezza, al corretto uso,
ai problemi connessi con l’ambiente, ecc. Queste
macchine che stanno nascendo e si stanno
diffondendo e che accrescono sempre di più le
loro capacità intellettive e che acquistano anche
quell’aspetto antropomorfo, sono di sicuro una
evoluzione cibernetica della vita organica con la
quale finiremo per esserne i simbionti, e proprio
per questo nascono come modelli dell’uomo,
non solo in rapporto alle membra, riproducendo
le lavorazioni e le attività che tradizionalmente
e storicamente abbiamo fatto, ma anche sotto
l’aspetto psicologico in rapporto alle circostanze
in cui devono operare. E infine, proprio per questo
spiegano tutte quelle cose che solo di recente
con la psichiatria, la psicologia, la genetica, la
cibernetica e tutte le altre scienze stiamo iniziando
non solo a comprendere, ma a dimostrare.
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Messaggio Da einrix Mar 01 Lug 2014, 20:56

CAPITOLO SESTO
LOGICA E LIBERTÁ

1. Cartesio apre le sue meditazioni con un
titolo dichiarativo: «Meditazioni metafisiche
sulla filosofia prima, nelle quali sono dimostrate
l’esistenza di Dio e la distinzione reale tra
l’anima ed il corpo dell’uomo». Non è il solo
in quei tempi che volendo portare la propria
conoscenza a contributo della verità, soprattutto
in rapporto al metodo, escogita una maniera che
lo metta al riparo da quelle accuse di eresia così
frequenti allora. Lo dice lui stesso che vuole far
compiere alla filosofia un balzo altrettanto grande
di quello compiuto due millenni prima, con la
scienza dei numeri e con la geometria. E infatti
scrive: « Non è lo stesso nella filosofia, dove,
credendo ciascuno che tutte le proposizioni
siano problematiche, pochi si danno alla ricerca
della verità». Prima di scrivere quella frase scrive
diverse pagine per affermare senza ombra di
dubbio che lui non solo crede in Dio, come deve
fare ogni buon cristiano, ma che spera di onorarlo
proprio con quelle meditazioni che si appresta
a scrivere. Ora, poiché sino ad oggi Cartesio non
è divenuto né beato né santo, ma è tra gli uomini
di ingegno che più si sono distinti nello sviluppare
una teoria dell’intelletto o della ragione che
ha portato a quella conoscenza del mondo che
oggi è diffusa, di sicuro non ha servito principalmente,
come prometteva, quella causa prima
relativa alla dimostrazione dell’Esistenza di Dio,
oppure a spiegare se vi fosse o meno una distinzione
tra anima e corpo.
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Messaggio Da einrix Mar 01 Lug 2014, 21:10

Questo lungo discorso si interrompe, ma non finisce qui, anche se a questo punto sono incerto su che strada prendere per andare avanti. La libertà è un concetto molto delicato per l'essere, e credo che dovrò fare vari approfondimenti, prima di poter esprimere qualche parere o formulare qualche congettura. Non resterà che avere pazienza, e attendere.

Grazie per la vostra pazienza nel leggermi. Capisco d'aver costruito ragionamenti complessi, e non essendo uno specialista di queste materie devo essere caduto più di una volta nei tranelli che io desso devo aver inconsapevolmente costruito. Ma erano cose sulle quali riflettevo da tempo e che sentivo la necessità di fermare sulla carta.

Su tutto questo rifletterò ancora, aiutandomi con la lettura di chi nel presente e nel passato ha mostrato la mia stessa passione e di sicuro una superiore competenza. Spesso anche i più grandi hanno detto cose non condivisibili, ed è proprio da quella constatazione che ho tratto coraggio per mettere assieme i miei pensieri. Vi è poi il problema di contribuire in qualche modo alla conoscenza ed alla riflessione di tutti.

Buona notte.

Enrico.
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