Come eravamo
4 partecipanti
Pagina 1 di 1
Come eravamo
bene..
parlando del film "Come eravamo" ho deciso di aprire questo 3d per raccontarci e raccontare la nostra storia..
Non è solo illusione, un utopistico sogno: forse esiste davvero quella bolla multicolore dove tutto è sospeso... senza fine o principio in un soffice niente, mescolato tra ricordi e passato, mancanze e presente, pensieri e futuro
Forse in questo non luogo ai confini del tempo.. ti conobbi già prima d'imboccare la via
ho oltrepassato la barriera del sogno che sogno non è.. ma tempo..
E ora, ti prego, dammi la mano e riportami indietro ai confini della memoria..
parlando del film "Come eravamo" ho deciso di aprire questo 3d per raccontarci e raccontare la nostra storia..
Non è solo illusione, un utopistico sogno: forse esiste davvero quella bolla multicolore dove tutto è sospeso... senza fine o principio in un soffice niente, mescolato tra ricordi e passato, mancanze e presente, pensieri e futuro
Forse in questo non luogo ai confini del tempo.. ti conobbi già prima d'imboccare la via
ho oltrepassato la barriera del sogno che sogno non è.. ma tempo..
E ora, ti prego, dammi la mano e riportami indietro ai confini della memoria..
Ultima modifica di Guya il Mer 15 Mag 2013, 19:56 - modificato 1 volta.
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
..e quindi riporto qua uno stralcio di "vita" che scrissi qualche tempo fa...
..avevo da poco compiuto i miei 6 anni. Eravamo in pieno luglio.. ché mica si facevano ancora le ferie e le partenze intelligenti.. la villeggiatura, noi bambini, la facevamo per tutta l’estate sotto casa, formando bande numerose di tutte le età, imperversando urlanti nelle strade e nel bosco poco lontano
Amavo i giochi da “maschi”, molto più divertenti.
E quindi molto spesso mi ritrovavo a snobbare le bimbe per gettarmi a capofitto in avventure incredibili, cui alla fine partecipavano anche loro.
La battaglia a “cannette” (quella con le cerbottane e i coni di carta).. le “grette” (i tappi di bottiglia) che usavamo sulle piste disegnate a gesso sulla strada, le partite di pallone improvvisate nel mezzo della via che finivano immancabilmente a gavettoni.. o le gare con i carretti, costruiti con pezzi di legno e i cuscinetti rubati dai fratelli più grandi chissà dove..
i giochi più “tranquilli” erano la costruzione di improbabili fortini nel bosco che quando finiti usavamo come covo per inventarci avventure.. o per allevare qualche cucciolo di gatto..
Dicevo.. avevo 6 anni, quel giorno mio fratello più grande con “pazienza” mi insegnò ad andare in bicicletta. La sua pazienza era così fatta: mi stette dietro tenendomi per il sellino all’incirca una mezz’ora.. poi stufo del mio zigzagare incerto.. mi mollò al mio destino
La discesa era davanti a me.. lunga e acciottolata..
Proseguii per qualche metro urlando, contenta e felice della conquista..
Non vidi la pietra, un po’ più grossa delle altre e mi ritrovai a guardare il cielo.. e non capivo come diavolo fossi finita così.
Dopo qualche minuto di smarrimento dovuto più che altro alle urla di disappunto di mio fratello.. non accettava il fatto che io fossi caduta in maniera così maldestra, iniziai a sentire una fitta alla gamba sinistra.. mi sedetti e guardai
Rimasi imbambolata per lunghi minuti: un taglio largo e profondo, lungo una decina di centimetri sulla parte esterna della gamba, appena sotto il ginocchio. Sangue poco.. era una lacerazione che, per fortuna, non aveva toccato grossi vasi sanguigni ma, proprio per quello, si intravedeva l’osso
Sentivo le lacrime e i singulti che iniziavano con prepotenza a farsi strada, ma ero troppo orgogliosa per lasciarmi andare al pianto.
E poi che figura ci avrei fatto con “loro”, i miei amici ?
Spostavo lo sguardo dal ginocchio a mio fratello, che nel frattempo si era avvicinato insieme ad altri bambini. Dalla sua espressione capii che dovevo essermi fatta più male di quello che pensavo. E a quel punto l’orgoglio divenne anche più imperativo !
“non mi sono fatta niente ! ora però vado a casa.. il nonno..” non credo di essere riuscita a finire la frase.. scoppiai a piangere. Lo spavento si era ormai impadronito di me.
Mio fratello mi prese in braccio e mi portò a casa dal nonno, sentivo la sua preoccupazione mista al senso di colpa
Il nonno mi accolse tra le sue braccia e mi sedette sulla sua sedia in giardino, sotto il ciliegio. Un moto di stupore prese per qualche momento lo spazio della paura: la sua sedia ?
Mannaggia mi dovevo proprio esser fatta male perché lui me la cedesse così.
Mentre il nonno aspettava la mamma per decidere cosa fare, mi diede una ripulita alla ferita e poi al viso, rigato di nero per le lacrime. Lo guardavo mentre in silenzio con grande amore, mi disinfettava e io mi tormentavo i codini - a quelli non ho mai voluto rinunciare.. e che diamine ! ero pur sempre una bambina.. -
“nonno ?! ma guarirò ?” cercavo il suo sguardo.
[ Il nonno, un ragazzo del ’99, era un uomo di una tranquillità e pazienza quasi assolute. Non credo di averlo mai sentito alzare la voce verso qualcuno.
Amava noi nipoti, i figli dei suoi figli, oltre misura.. rimase vedovo abbastanza presto e noi eravamo tutta la sua vita. Inutile dire che, essendo l’unica femmina, di quella “banda di nipoti”, aveva una predilezione verso di me.. ]
Sorrise annuendo e mi prese in braccio sedendosi sulla sedia. Mi lasciai andare ad un sospiro interrotto da un profondo singhiozzo
“ti ho mai raccontato di quella volta che mi staccai quasi un tallone nel bosco ?” Mi guardava, ben sapendo che quella storia me l’aveva raccontata centinaia di volte
“no.. no.. nonno.. me la racconti ?”
“dunque.. avevo all’incirca 15/16 anni e…”
A quel punto arrivò la mamma. Mi portarono al pronto soccorso e mi “guadagnai” 10 punti di sutura che per giorni ho mostrato come un trofeo di guerra.
Come quella del nonno, che curò la sua ferita (di guerra vera) con una mistura di erbe e fango..
..avevo da poco compiuto i miei 6 anni. Eravamo in pieno luglio.. ché mica si facevano ancora le ferie e le partenze intelligenti.. la villeggiatura, noi bambini, la facevamo per tutta l’estate sotto casa, formando bande numerose di tutte le età, imperversando urlanti nelle strade e nel bosco poco lontano
Amavo i giochi da “maschi”, molto più divertenti.
E quindi molto spesso mi ritrovavo a snobbare le bimbe per gettarmi a capofitto in avventure incredibili, cui alla fine partecipavano anche loro.
La battaglia a “cannette” (quella con le cerbottane e i coni di carta).. le “grette” (i tappi di bottiglia) che usavamo sulle piste disegnate a gesso sulla strada, le partite di pallone improvvisate nel mezzo della via che finivano immancabilmente a gavettoni.. o le gare con i carretti, costruiti con pezzi di legno e i cuscinetti rubati dai fratelli più grandi chissà dove..
i giochi più “tranquilli” erano la costruzione di improbabili fortini nel bosco che quando finiti usavamo come covo per inventarci avventure.. o per allevare qualche cucciolo di gatto..
Dicevo.. avevo 6 anni, quel giorno mio fratello più grande con “pazienza” mi insegnò ad andare in bicicletta. La sua pazienza era così fatta: mi stette dietro tenendomi per il sellino all’incirca una mezz’ora.. poi stufo del mio zigzagare incerto.. mi mollò al mio destino
La discesa era davanti a me.. lunga e acciottolata..
Proseguii per qualche metro urlando, contenta e felice della conquista..
Non vidi la pietra, un po’ più grossa delle altre e mi ritrovai a guardare il cielo.. e non capivo come diavolo fossi finita così.
Dopo qualche minuto di smarrimento dovuto più che altro alle urla di disappunto di mio fratello.. non accettava il fatto che io fossi caduta in maniera così maldestra, iniziai a sentire una fitta alla gamba sinistra.. mi sedetti e guardai
Rimasi imbambolata per lunghi minuti: un taglio largo e profondo, lungo una decina di centimetri sulla parte esterna della gamba, appena sotto il ginocchio. Sangue poco.. era una lacerazione che, per fortuna, non aveva toccato grossi vasi sanguigni ma, proprio per quello, si intravedeva l’osso
Sentivo le lacrime e i singulti che iniziavano con prepotenza a farsi strada, ma ero troppo orgogliosa per lasciarmi andare al pianto.
E poi che figura ci avrei fatto con “loro”, i miei amici ?
Spostavo lo sguardo dal ginocchio a mio fratello, che nel frattempo si era avvicinato insieme ad altri bambini. Dalla sua espressione capii che dovevo essermi fatta più male di quello che pensavo. E a quel punto l’orgoglio divenne anche più imperativo !
“non mi sono fatta niente ! ora però vado a casa.. il nonno..” non credo di essere riuscita a finire la frase.. scoppiai a piangere. Lo spavento si era ormai impadronito di me.
Mio fratello mi prese in braccio e mi portò a casa dal nonno, sentivo la sua preoccupazione mista al senso di colpa
Il nonno mi accolse tra le sue braccia e mi sedette sulla sua sedia in giardino, sotto il ciliegio. Un moto di stupore prese per qualche momento lo spazio della paura: la sua sedia ?
Mannaggia mi dovevo proprio esser fatta male perché lui me la cedesse così.
Mentre il nonno aspettava la mamma per decidere cosa fare, mi diede una ripulita alla ferita e poi al viso, rigato di nero per le lacrime. Lo guardavo mentre in silenzio con grande amore, mi disinfettava e io mi tormentavo i codini - a quelli non ho mai voluto rinunciare.. e che diamine ! ero pur sempre una bambina.. -
“nonno ?! ma guarirò ?” cercavo il suo sguardo.
[ Il nonno, un ragazzo del ’99, era un uomo di una tranquillità e pazienza quasi assolute. Non credo di averlo mai sentito alzare la voce verso qualcuno.
Amava noi nipoti, i figli dei suoi figli, oltre misura.. rimase vedovo abbastanza presto e noi eravamo tutta la sua vita. Inutile dire che, essendo l’unica femmina, di quella “banda di nipoti”, aveva una predilezione verso di me.. ]
Sorrise annuendo e mi prese in braccio sedendosi sulla sedia. Mi lasciai andare ad un sospiro interrotto da un profondo singhiozzo
“ti ho mai raccontato di quella volta che mi staccai quasi un tallone nel bosco ?” Mi guardava, ben sapendo che quella storia me l’aveva raccontata centinaia di volte
“no.. no.. nonno.. me la racconti ?”
“dunque.. avevo all’incirca 15/16 anni e…”
A quel punto arrivò la mamma. Mi portarono al pronto soccorso e mi “guadagnai” 10 punti di sutura che per giorni ho mostrato come un trofeo di guerra.
Come quella del nonno, che curò la sua ferita (di guerra vera) con una mistura di erbe e fango..
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
..era l'11 luglio 1982
L'Italia di Bearzot. Una finale indimenticabile. Un 3-1 contro la Germania Ovest (strano a dirsi adesso eh ? Le due Germanie ancora divise tra Est ed Ovest, dal blocco sovietico e la cortina di ferro)
Pertini che, dopo il gol di Altobelli, si alzava in piedi ed esclamava entusiasta.. "Non ci prendono più !!" sembrava un bambino smarrito, Altobelli, incredulo di esser stato proprio lui l'autore di quello splendido gol
Quella frase, quel momento sono entrati nella storia.. la nostra
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Brava Guya, bel thread.
Arriverò anch'io.
Ma VARGAS? Dovè Vargas?
Arriverò anch'io.
Ma VARGAS? Dovè Vargas?
cireno- Messaggi : 1510
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 124
Località : Milano
Re: Come eravamo
L'Italia del secondo dopo-guerra era un paese distrutto dai bombardamenti e dalla crisi economica, ma tutti avevano voglia di fare riferimento a nuovi miti. La maggioranza del paese per varie ragioni culturali si schierò dalla parte della nascente DC e decise di sostenere Gino Bartali che si dichiarava cattolico ed aveva una famiglia che rispettava tutti i canoni che imponeva la dottrina ad un buon cristiano. Fausto Coppi invece era laico ed era amato in particolare da chi credeva nel Partito Comunista Italiano. Coppi aveva lasciato la moglie e conviveva con un'altra donna, la leggendaria Dama Bianca. Si trattava di un fatto che in quell'Italia molto bacchettona era uno scandalo. I diversi stili di vita dei due campioni quindi divisero la cultura popolare e li resero qualcosa di più di due idoli sportivi
Gino Bartali, soprannominato l'uomo di ferro, per la forza fisica e l'eccezionale resistenza alla fatica. Il grande Gino conquista due volte il Giro d'Italia e una il Tour de France, la terribile corsa a tappe che gli italiani hanno vinto soltanto due volte, negli anni Venti, con Ottavio Bottecchia. L'altro protagonista è Fausto Coppi. Vero e proprio fenomeno emergente delle due ruote, a soli venti anni si aggiudica il Giro d'Italia.
È il 9 giugno del 1940 e il giorno dopo l'Italia entra in guerra.
Il terzo protagonista è il popolo italiano. Pur stremato da una guerra crudele, ha grande voglia di reagire, di vivere e ritornare alla normalità. E soprattutto gli italiani riassaporano libertà e democrazia, venendo chiamati a scegliere, con il voto, il loro destino.
Il ciclismo ricomincia dalla Milano-Sanremo. Fausto su quella prima corsa vera scarica tutta la sua rabbia, l'energia repressa, giungendo al traguardo in perfetta solitudine, dopo una lunghissima fuga. I distacchi ai rivali sono abissali: quattordici minuti a Tessaire, diciotto a Bartali. Per Gino, una sconfitta bruciante e mai subita prima in carriera.
E la storia ricomincia proprio da quel 19 marzo del 1946, accompagnando le vicende della ricostruzione e degli albori del miracolo economico. Un cammino punteggiato dalla rivalità di due grandi campioni impegnati in una sfida perenne. Cui metterà la parola fine il ritiro dalle corse del più anziano Gino e la morte tragica e prematura di Fausto
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
e dopo quel maggio del 1989, il mondo non fu più lo stesso....
In questo caldo mese di maggio noi iniziamo lo sciopero della fame.Nei giorni migliori della giovinezza dobbiamo lasciare dietro di noi tutte le cose belle e buone e solo Dio sa quanto malvolentieri e con quanta riluttanza lo facciamo. Ma il nostro paese è arrivato ad un punto cruciale. Il potere politico domina su tutto,i burocrati sono corrotti,molte buone persone con grandi ideali sono costrette all’esilio. E’ un momento di vita o di morte per la nazione. Tutti voi compatrioti,tutti voi che avete una coscienza ascoltate le nostre grida. Questo paese è il nostro paese,questa gente è la nostra gente,questo governo è il nostro governo. Se non facciamo qualcosa chi lo farà per noi? Benchè le nostre spalle siano ancora giovani ed esili,benchè la morte sia per noi un fardello troppo pesante,noi dobbiamo andare,perchè la storia ce lo chiede.
Il nostro entusiasmo patriottico,il nostro spirito totalmente innocente vengono descritti come elementi che creano tumulto. Si dice che abbiamo motivi nascosti,che veniamo usati da un manipolo di persone. vorremmo rivolgere una preghiera a tutti i cittadini onesti,una preghiera ad ogni operaio,contadino,soldato,cittadino comune o all’intellettuale,funzionario di governo,al poliziotto e a tutti quelli che ci accusano di commettere crimini. Mettetevi una mano sul cuore,sulla coscienza. Quale sorta di crimine stiamo commettendo? Stiamo provocando un tumulto? Cerchaimo solo la verità,ma veniamo picchiati dalla polizia. I rappresentanti degli studenti si sono messi in ginocchio per implorare la democrazia, ma sono stati totalmente ignorati. Che altro dobbiamo fare?
La democrazia è un ideale della vita umana come la libertà e il diritto. Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite. E’ questo l’orgoglio della nazione cinese? Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. Ma siamo ancora ragazzi. Madre Cina,per favore,guarda i tuoi figli e le tue figlie. Quando lo sciopero della fame rovina totalmente la loro giovinezza, quando la morte gli si avvicina puoi rimanere indifferente? Non vogliamo morire,vogliamo vivere. Non vogliamo morire,vogliamo studiare. Caro padre,cara madre,per favore non siate tristi. Cari zii,care zie che non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza,che questo permetta a tutti di vivere in modo migliore. Abbiamo una sola preghiera:non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando. La democrazia non è un affare che riguarda poche persone. La battaglia democratica non può essere vinta da una singola generazione.
Domandiamo alcune cose: primo,che il governo cominci un dialogo diretto,sostanziale e paritario con la delegazione degli studenti dell’Università. Secondo,che il governo riabiliti questo movimento degli studenti e che faccia una giusta rivalutazione per riaffermare il suo spirito di movimento patriottico e democratico
In questo caldo mese di maggio noi iniziamo lo sciopero della fame.Nei giorni migliori della giovinezza dobbiamo lasciare dietro di noi tutte le cose belle e buone e solo Dio sa quanto malvolentieri e con quanta riluttanza lo facciamo. Ma il nostro paese è arrivato ad un punto cruciale. Il potere politico domina su tutto,i burocrati sono corrotti,molte buone persone con grandi ideali sono costrette all’esilio. E’ un momento di vita o di morte per la nazione. Tutti voi compatrioti,tutti voi che avete una coscienza ascoltate le nostre grida. Questo paese è il nostro paese,questa gente è la nostra gente,questo governo è il nostro governo. Se non facciamo qualcosa chi lo farà per noi? Benchè le nostre spalle siano ancora giovani ed esili,benchè la morte sia per noi un fardello troppo pesante,noi dobbiamo andare,perchè la storia ce lo chiede.
Il nostro entusiasmo patriottico,il nostro spirito totalmente innocente vengono descritti come elementi che creano tumulto. Si dice che abbiamo motivi nascosti,che veniamo usati da un manipolo di persone. vorremmo rivolgere una preghiera a tutti i cittadini onesti,una preghiera ad ogni operaio,contadino,soldato,cittadino comune o all’intellettuale,funzionario di governo,al poliziotto e a tutti quelli che ci accusano di commettere crimini. Mettetevi una mano sul cuore,sulla coscienza. Quale sorta di crimine stiamo commettendo? Stiamo provocando un tumulto? Cerchaimo solo la verità,ma veniamo picchiati dalla polizia. I rappresentanti degli studenti si sono messi in ginocchio per implorare la democrazia, ma sono stati totalmente ignorati. Che altro dobbiamo fare?
La democrazia è un ideale della vita umana come la libertà e il diritto. Ora per ottenerli dobbiamo sacrificare le nostre giovani vite. E’ questo l’orgoglio della nazione cinese? Lo sciopero della fame è la scelta di chi non ha scelta. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire. Ma siamo ancora ragazzi. Madre Cina,per favore,guarda i tuoi figli e le tue figlie. Quando lo sciopero della fame rovina totalmente la loro giovinezza, quando la morte gli si avvicina puoi rimanere indifferente? Non vogliamo morire,vogliamo vivere. Non vogliamo morire,vogliamo studiare. Caro padre,cara madre,per favore non siate tristi. Cari zii,care zie che non vi si spezzi il cuore mentre diciamo addio alla vita. Abbiamo una sola speranza,che questo permetta a tutti di vivere in modo migliore. Abbiamo una sola preghiera:non dimenticate che non è assolutamente la morte quello per cui stiamo lottando. La democrazia non è un affare che riguarda poche persone. La battaglia democratica non può essere vinta da una singola generazione.
Domandiamo alcune cose: primo,che il governo cominci un dialogo diretto,sostanziale e paritario con la delegazione degli studenti dell’Università. Secondo,che il governo riabiliti questo movimento degli studenti e che faccia una giusta rivalutazione per riaffermare il suo spirito di movimento patriottico e democratico
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
a proposito di appelli patriottici, bisogna sempre tener presente questo lanciato ai suoi studenti il 1° dicembre 1943, dopo l’apertura dell’anno accademico e prima di darsi alla macchia, da Concetto Marchesi, Rettore dell’Università di Padova.
Studenti dell’Università di Padova!
Sono rimasto a capo della Vostra Università finche speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio ed al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento.
Oggi il dovere mi chiama altrove.
Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell’anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell’Aula Magna, travolti sotto l’immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di venti anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l’anima vostra. Ma quelli che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il loro grido e si sono appropriata la vostra parola.
Studenti: non posso lasciare l’ufficio di Rettore dell’Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria. Traditi dalla frode, dalle violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costruire il popolo italiano.
Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.
Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina; per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignoranza, aggiungete al labaro della Vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo.
Il Rettore: Prof. Concetto Marchesi
Studenti dell’Università di Padova!
Sono rimasto a capo della Vostra Università finche speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio ed al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento.
Oggi il dovere mi chiama altrove.
Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che - per la defezione di un vecchio complice - ardisce chiamarsi repubblicano, vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori. Nel giorno inaugurale dell’anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell’Aula Magna, travolti sotto l’immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di venti anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l’anima vostra. Ma quelli che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il loro grido e si sono appropriata la vostra parola.
Studenti: non posso lasciare l’ufficio di Rettore dell’Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria. Traditi dalla frode, dalle violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costruire il popolo italiano.
Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina.
Studenti, mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina; per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignoranza, aggiungete al labaro della Vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo.
Il Rettore: Prof. Concetto Marchesi
Ospite- Ospite
Re: Come eravamo
premessa per i non genovesi: lo zerbino è una strada di genova, a cento metri dalla stazione brignole. non a nord, né a sud o ad ovest: sopra. sì, proprio in alto. il nome ufficiale è "mura dello zerbino", e non ha niente a che fare con tappeti o similari: prende il nome da un vento, il vento garbino, che lì soffia forte, ti prende in faccia e ti fa arretrare.
le grette sono i tappini delle bottigliette di birra, coca cola, fanta, chinotto e tutto quello che vi può venire in mente. le persone civili le chiamano tappi a corona, ma noi dello zerbino (e di tutta genova, a dir la verità) li chiamavamo "grette". e ci giocavamo.
ed ecco qui una storia dello zerbino. la mia, e quella dei ragazzini della mia età.
io giocavo allo zerbino.
in alto c’era la bocciofila, con i suoi campi levigati come biliardi, gli incontri ufficiali con le quadrette in divisa, gli arbitri e un’atmosfera ovattata.
scendendo più in giù, dove per tutto l’inverno e gran parte della primavera tirava un vento che portava via, c’erano i campi da bocce ai lati della strada. dove si giocava sul serio, dove bisognava fare attenzione agli ostacoli naturali, un avvallamento, un sassolino, una piccola gobba del terreno. e nella bella stagione il sole, ancora non riparato dagli alberelli striminziti che all’epoca erano stati appena piantati, picchiava crudele sui fazzoletti che i giocatori portavano in testa.
più in basso, dove la strada finiva davanti ad un muro e dove le macchine arrivavano soltanto per parcheggiare, c’eravamo noi, i ragazzini, protagonisti di interminabili partite al pallone, “ai 10”, e del gioco delle grette, praticato più o meno a partire dall’inizio del giro d’italia, e fino al mese di luglio. perché per noi le grette erano il ciclismo: si tracciava la pista con il gesso sull’asfalto, con lunghi rettifili interrotti da curve, curvette, tornanti.
c’era la regola non scritta ma rispettata come un patto d’onore, che in gara i ciclisti dovevano essere uno diverso dall’altro, il che portava a delle conseguenze che incidevano sui rapporti di quella strana società che si riuniva nei pomeriggi per la competizione. poiché tutti volevano avere anchetìl, si creavano delle priorità che erano determinate dall’età, dalla prestanza fisica, dall’autorevolezza: quelli che erano in cima alla piramide si dividevano, a giorni alterni, l’onore di gareggiare con anchetìl. che poi dovevi anche meritartelo, nel senso che anchetìl non poteva mica arrivare ultimo; non è che fossi obbligato a vincere, ma se non arrivavi almeno terzo, anche se eri grosso come una montagna, perdevi la possibilità di gareggiare con il tuo favorito per una o due settimane, a seconda dell’entità della disfatta. quando non era il tuo turno di anchetìl, potevi usare gaul, o vanlòi: vastenberghen no, perché nessuno sapeva come si scriveva. gli altri avevano nencini, baldini, e giù a scendere.
leggi dure, quelle delle grette.
e poi c’era la fabbrica.
da noi allo zerbino il metodo era standard. per la materia base avevamo due fornitori: il bar luigina, quello dove andavano “i più grandi” e roma. roma era quello che passava per i campi da bocce dello zerbino di mezzo, per vendere bottigliette di gazzosa, aranciata e chinotto. alla sera prima di tornare a casa passavamo da lui, passavamo dal bar e ci dividevamo, più o meno fraternamente, i tappi delle bottigliette. che non erano mica tutti uguali: c’erano quelli buoni che, per una particolare capacità dello stappatore, mantenevano il fondo liscio e potevano così scorrere facilmente sull’asfalto. e poi c’erano i “grammi”, quelli che, per incuria o insipienza, avevano il fondo piegato e non potevano essere utilizzati per correre. ma erano utili anch’essi (allo zerbino non si buttava via niente): da questi tappini si toglieva il sughero con un cacciavite, e il sughero veniva utilizzato per appesantire opportunamente la gretta, che alla fine del processo era così composta: dentro un involucro di célofan (si scrive così) l’immagine del corridore con uno sfondo colorato a fantasia, quindi uno o due sugheri di recupero; tra l’involucro e il fondo della gretta (conservando il sughero) si spalmava dello stucco, facendo bene attenzione a che la composizione interna non risultasse più alta del bordo del tappino.
pura arte.
e la competizione, a biccelate inferte con l’indice sui rettilinei o con il pollice, quando occorreva la precisione per posizionarsi al meglio all’inizio di una curva o di un tornante. e infine il colpo che distingueva il campione dal giocatore medio: noi lo chiamavamo riolla, o riollìn, e permetteva, con un colpo solo, il superamento dei tornanti più tortuosi. si posizionava la gretta “in piedi” tra l’indice e il medio della mano destra (io sono mancino), poi con l’indice della mano sinistra si spingeva (non trascinandola, che era proibito) la gretta: il gesto effettuato con maestria portava la gretta, attraverso un percorso curvo, a superare il tornante e a prendere un vantaggio difficilmente colmabile dai giocatori medi, quelli che – per dire – non potevano aspirare a niente di più di un nencini.
la classe.
le grette sono i tappini delle bottigliette di birra, coca cola, fanta, chinotto e tutto quello che vi può venire in mente. le persone civili le chiamano tappi a corona, ma noi dello zerbino (e di tutta genova, a dir la verità) li chiamavamo "grette". e ci giocavamo.
ed ecco qui una storia dello zerbino. la mia, e quella dei ragazzini della mia età.
io giocavo allo zerbino.
in alto c’era la bocciofila, con i suoi campi levigati come biliardi, gli incontri ufficiali con le quadrette in divisa, gli arbitri e un’atmosfera ovattata.
scendendo più in giù, dove per tutto l’inverno e gran parte della primavera tirava un vento che portava via, c’erano i campi da bocce ai lati della strada. dove si giocava sul serio, dove bisognava fare attenzione agli ostacoli naturali, un avvallamento, un sassolino, una piccola gobba del terreno. e nella bella stagione il sole, ancora non riparato dagli alberelli striminziti che all’epoca erano stati appena piantati, picchiava crudele sui fazzoletti che i giocatori portavano in testa.
più in basso, dove la strada finiva davanti ad un muro e dove le macchine arrivavano soltanto per parcheggiare, c’eravamo noi, i ragazzini, protagonisti di interminabili partite al pallone, “ai 10”, e del gioco delle grette, praticato più o meno a partire dall’inizio del giro d’italia, e fino al mese di luglio. perché per noi le grette erano il ciclismo: si tracciava la pista con il gesso sull’asfalto, con lunghi rettifili interrotti da curve, curvette, tornanti.
c’era la regola non scritta ma rispettata come un patto d’onore, che in gara i ciclisti dovevano essere uno diverso dall’altro, il che portava a delle conseguenze che incidevano sui rapporti di quella strana società che si riuniva nei pomeriggi per la competizione. poiché tutti volevano avere anchetìl, si creavano delle priorità che erano determinate dall’età, dalla prestanza fisica, dall’autorevolezza: quelli che erano in cima alla piramide si dividevano, a giorni alterni, l’onore di gareggiare con anchetìl. che poi dovevi anche meritartelo, nel senso che anchetìl non poteva mica arrivare ultimo; non è che fossi obbligato a vincere, ma se non arrivavi almeno terzo, anche se eri grosso come una montagna, perdevi la possibilità di gareggiare con il tuo favorito per una o due settimane, a seconda dell’entità della disfatta. quando non era il tuo turno di anchetìl, potevi usare gaul, o vanlòi: vastenberghen no, perché nessuno sapeva come si scriveva. gli altri avevano nencini, baldini, e giù a scendere.
leggi dure, quelle delle grette.
e poi c’era la fabbrica.
da noi allo zerbino il metodo era standard. per la materia base avevamo due fornitori: il bar luigina, quello dove andavano “i più grandi” e roma. roma era quello che passava per i campi da bocce dello zerbino di mezzo, per vendere bottigliette di gazzosa, aranciata e chinotto. alla sera prima di tornare a casa passavamo da lui, passavamo dal bar e ci dividevamo, più o meno fraternamente, i tappi delle bottigliette. che non erano mica tutti uguali: c’erano quelli buoni che, per una particolare capacità dello stappatore, mantenevano il fondo liscio e potevano così scorrere facilmente sull’asfalto. e poi c’erano i “grammi”, quelli che, per incuria o insipienza, avevano il fondo piegato e non potevano essere utilizzati per correre. ma erano utili anch’essi (allo zerbino non si buttava via niente): da questi tappini si toglieva il sughero con un cacciavite, e il sughero veniva utilizzato per appesantire opportunamente la gretta, che alla fine del processo era così composta: dentro un involucro di célofan (si scrive così) l’immagine del corridore con uno sfondo colorato a fantasia, quindi uno o due sugheri di recupero; tra l’involucro e il fondo della gretta (conservando il sughero) si spalmava dello stucco, facendo bene attenzione a che la composizione interna non risultasse più alta del bordo del tappino.
pura arte.
e la competizione, a biccelate inferte con l’indice sui rettilinei o con il pollice, quando occorreva la precisione per posizionarsi al meglio all’inizio di una curva o di un tornante. e infine il colpo che distingueva il campione dal giocatore medio: noi lo chiamavamo riolla, o riollìn, e permetteva, con un colpo solo, il superamento dei tornanti più tortuosi. si posizionava la gretta “in piedi” tra l’indice e il medio della mano destra (io sono mancino), poi con l’indice della mano sinistra si spingeva (non trascinandola, che era proibito) la gretta: il gesto effettuato con maestria portava la gretta, attraverso un percorso curvo, a superare il tornante e a prendere un vantaggio difficilmente colmabile dai giocatori medi, quelli che – per dire – non potevano aspirare a niente di più di un nencini.
la classe.
rikkitikkitavi- Messaggi : 463
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 105
Re: Come eravamo
le bicellate !
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
we are on the fucking Moon
Il 20 luglio 1969, l'Apollo 11 sbarcava il primo uomo sulla Luna, il Comandante Neil Armstrong
Fu un piccolo passo, per l'uomo.. ma un grande passo per l'umanità !
..e chi la scorda quella nottata, concessa in via del tutto eccezionale dai genitori, davanti alla TV ?
Con "Qui Ruggero Orlando.. " con quella voce squillante e nasale.. e Tito Stagno quasi nascosto dietro quell'enorme microfono che ci commentava emozionato la diretta..
Avevo appena 6 anni, ma quella diretta è uno dei ricordi più vivi che ho della mia infanzia
Ed è, ora, la consapevolezza di aver vissuto quel piccolo pezzo di Storia del secolo passato, che mette un po' i brividi...
Il 20 luglio 1969, l'Apollo 11 sbarcava il primo uomo sulla Luna, il Comandante Neil Armstrong
Fu un piccolo passo, per l'uomo.. ma un grande passo per l'umanità !
..e chi la scorda quella nottata, concessa in via del tutto eccezionale dai genitori, davanti alla TV ?
Con "Qui Ruggero Orlando.. " con quella voce squillante e nasale.. e Tito Stagno quasi nascosto dietro quell'enorme microfono che ci commentava emozionato la diretta..
Avevo appena 6 anni, ma quella diretta è uno dei ricordi più vivi che ho della mia infanzia
Ed è, ora, la consapevolezza di aver vissuto quel piccolo pezzo di Storia del secolo passato, che mette un po' i brividi...
Alle 19.28 di domenica 20 luglio 1969 inizia l’avventura più lunga della televisione italiana: la telecronaca dello storico sbarco sulla Luna.
Lo Studio Tre della Rai in via Teulada a Roma è il crocevia di attese ed emozioni provocate dalle oltre 25 ore di diretta condotta da Tito Stagno, Andrea Barbato, Piero Forcella e, in collegamento da Houston, Ruggero Orlando. Aldo Falivena coordina la regia della non-stop televisiva, l’evento mediatico che maggiormente ha lasciato un segno nella memoria degli italiani
Il capolavoro della diretta minuto per minuto, quando Neil Armstrong, il primo uomo a toccare il suolo lunare, dice una frase da libro di testo ascoltata da milioni di telespettatori incollati davanti agli schermi: «Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per tutta l’umanità».
Le immagini del “nuovo mondo” trasmesse dai centri spaziali di Houston e Cape Kennedy sono emozionanti e i presentatori nascondono a fatica l’emozione. E non manca un momento di tensione in studio: tra l’incertezza delle trasmissioni dell’epoca e il tentativo di rubare la scena, Tito Stagno anticipa di qualche secondo - con l’ormai storico «ha toccato» - il primo passo di Neil Armstrong, facendo andare su tutte le furie il corrispondente dagli Usa che poco dopo replica con un «ha toccato in questo momento». La tensione si scioglie con un applauso dallo studio di Roma, condiviso anche da Tito Stagno.
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
metà anni settanta poco prima della "liberazione" delle TV, in contrapposizione a "Domenica in.." di Corrado, Renzo Arbore s'inventa "l'Altra domenica"
che vedeva la partecipazione più o meno costante di numerosi personaggi che sarebbero diventati successivamente delle star del panorama dello spettacolo e del cinema.
Proponeva tra l'altro una galleria di improbabili, surreali ed esilaranti personaggi tra i quali Giorgio Bracardi, Andy Luotto, Mario Marenco, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Isabella Rossellini (nei panni di una seria giornalista)...
Era il 2 marzo del 1976, quando su Rai 2 andò in onda per la prima volta L'altra domenica, il programma diretto da Salvatore Baldazzi ma ideato e condotto da Renzo Arbore, cantautore, compositore, showman, attore, ma soprattutto progenitore assoluto del varietà applicato al piccolo schermo e geniale scopritore di talenti. Una data da cerchiare sul calendario, forse non abbastanza “storica” da proporre come festa nazionale, ma che segnò senza dubbio una rivoluzione nel modo di fare televisione.
Tutt’altro genere rispetto a Domenica in, il contenitore “ideale” per famiglie, il format tranquillo e rassicurante che Rai 1 iniziò a proporre dall’ottobre dello stesso anno con la conduzione di Corrado. La riforma televisiva era stata varata pochi mesi prima e l’informazione giornalista s’era fatta bipolare: così come Tg1 e Tg2 iniziavano a dividersi i telespettatori, anche sul fronte dell’intrattenimento popolare si avvertiva l’esigenza di dare spazio a quel vento libertario che dalle radio libere già aveva iniziato a soffiare nei tinelli italiani. Minando la pace domestica. Perché allora in casa c’era ancora una e una sola televisione. Difficile trovare una mediazione tra il pubblico “conservatore” che nei secoli rimarrà fedele a Domenica In e quello giovane e colto – in una parola: più esigente – dei baby boomers, di coloro che avevano fatto il Sessantotto e – per dirla con Lidia Ravera – erano stati «protagonisti della propria crescita: non subiscono il destino e per forza, impegno e rigore sono un modello per le generazioni future». Si avvertiva l’esigenza di sperimentare nuove strade, dare vita a un programma che fosse in grado di solleticarne le aspettative. Fu così che fece irruzione in tv, grazie alla creatività dirompente di Renzo Arbore, l’altra Italia, quella che non chiedeva altro che partecipare, foss’anche solo attraverso una telefonata da casa. Chi voleva concorrere ai primi quiz telefonici e vincere premi poco più che simbolici, neanche lontanamente paragonabili ai “milionari” attuali, doveva solo comporre un numero telefonico. Indovina indovinello dove sta la caramello?
Sì, perché da quella domenica la tv fece il primo passo per diventare “interattiva”: il pubblico di casa poteva irrompere in diretta, esattamente com’era stato abituato in radio. Una delle principali fonti d’ispirazione de L’Altra domenica, infatti, è proprio l’innovativa esperienza radiofonica di Alto Gradimento (condotta da Arbore con Gianni Boncompagni). Una trasmissione esilarante quanto irriverente che aveva già realizzato indici di ascolto impensabili per la radio dell’epoca, creando tormentoni comici che hanno popolato l’immaginario collettivo di quegli anni. Gags surreali e strampalate rese celebri da quelle imperdibili puntate radiofoniche in cui alla messa in onda di musica internazionale si alternava una sgangherata galleria di personaggi, interpretati per lo più da Giorgio Bracardi e Mario Marenco.
Ad affiancare l’inesauribile verve di Renzo Arbore, nel cast di L’altra domenica, venne (ri)chiamato proprio Mario Marenco, conterraneo di Arbore – come lui foggiano – e papà di una comicità consapevolmente demenziale. Senza di lui, sarebbe difficile anche solo immaginare un programma come Zelig. Architetto e designer di fama, oltre che umorista, vestiva i panni dello svagato cronista parlamentare Ramengo. Anzi, di Mister Ramengo, con le sue cronache grottesche e ricche di paradossi e con il richiamo “Carmine!” urlato di continuo. Intendiamoci: la sua comicità surreale era solo apparentemente stupida: Federico Fellini, non certo l’ultimo arrivato, lo definì “troppo intelligente per essere un vero attore”. Accanto ad Arbore, padrone della scena e gran burattinaio, il compianto Maurizio Barendson, già coautore con Paolo Valenti di 90° minuto, al quale vennero affidate le notizie sportive. Attorno a loro, partecipavano al programma personaggi vocati all’improvvisazione: Andy Luotto, nei panni di uno strano cugino italoamericano, e Roberto Benigni che, nelle inconsuete vesti di critico cinematografico, fece i suoi primi passi verso la fama mondiale. E ancora: l’appena ventenne Milly Carlucci, il duo di uomini-orchestra Otto e Barnelli, Fabrizio Zampa e Michael Pergolani. Gli inviati: Isabella Rossellini, in collegamento da New York, Francoise Riviere da Parigi, Michel Pergolani da Londra e Silvia Annichiarico da Milano.
Un cast talmente strepitoso da diventare protagonista nel film Il pap’occhio, pellicola che nel 1980 segnò l’esordio di Arbore alla regia. Girato per intero nella reggia di Caserta, venne sequestrato (per un certo periodo) per vilipendo alla religione cattolica: troppo irriverente nei confronti di Papa Giovanni Paolo II, raccontato come insolitamente patito della modernità. Tanto che, preoccupato per l’avanzata dei buddisti e per il diffondersi delle droghe tra i giovani delle e vedendo un famoso spot pubblicitario della birra di cui Arbore è testimonial, si convince a ingaggiarlo come conduttore della televisione di Stato Vaticana. E il conduttore, nei panni di se stesso, per lanciare la nuova evangelizzazione conierà lo slogan “Fedeli di tutto il mondo, unitevi!”, accompagnato dal suono di una originale Internazionale in adattamento cattolico. Uno sberleffo alle due grandi e potenti chiese di quegli anni: quelle cattolica e quella comunista. Una rivalsa a nome di quelle generazioni degli anni Cinquanta che, per dirla con Ennio Flaiano, «l'hanno preso in culo due volte. I preti da una parte, i comunisti dall'altra».
Nel film – recentemente restaurato e distribuito in Dvd – come nelle trasmissioni, non c’è copione che tenga. La professionalità di Renzo Arbore e dei suoi stravaganti collaboratori faceva sì che gli eventuali errori commessi durante le riprese diventassero d’incanto parte integrante e caratterizzante dello sketch.
«Non abbiamo mai tenuto in considerazione la forma, forse perché proveniamo dalla radio – ha spiegato Arbore tempo fa – mentre abbiamo sempre privilegiato i contenuti, l’essenzialità, l’audio, piuttosto che il taglio dell’immagine. Questo ci permetteva di recuperare eventuali errori come elementi di spettacolo. Ad esempio, durante la registrazione del numero di Benigni, io controllavo tutto sul monitor. Se per caso Benigni usciva fuori campo, lo sgridavo denunciando l'errore ma recuperandolo come spettacolo. Insomma sembrava fatto apposta».
Naturalmente non mancano i giornalisti, giovani ma promettenti – Gianni Minà, Fabrizio Zampa, Fiorella Gentile, Irene Bignardi e Patrizia Schisa – e neanche i cartoni animati, firmati “GASAD” (la cui sigla era essa stessa tutto un programma: gruppi a Sinistra dell’Altra Domenica, la parodia di un gruppo terroristico con il dichiarato scopo di “sabotare” la trasmissione). A realizzarli due artisti del calibro di Guido Manuli, collaboratore storico del grande Bruno Bozzetto, e Maurizio Nichetti, che anni dopo si misurerà con successo con il cinema.
Strepitosa la sigla finale: Fatti più in là, interpretata da Tito Le Duc, Mauro Bronchi e Neil Hansen, meglio noti come le Sorelle Bandiera. Un motivetto, il loro, che oggi potrebbe suonare semplicemente buffo ma che, in un’epoca in cui l’omosessualità era ancora un tabù, rappresentò un vero e proprio trauma per il comune senso del pudore.
L’informazione viene sapientemente mescolata con la musica – al modo di Arbore: di buon livello, ma rivolta al pubblico e senza ammiccare necessariamente agli addetti ai lavori – e le numerose rubriche alternative restituiscono un clima scanzonato quanto immediato che conquista da subito il pubblico. Al termine della messa in onda de L’altra domenica, Rai 2 perdeva oltre un milione di spettatori, malgrado l’appeal di Diretta sport in epoca pre-Sky.
«Facemmo davvero di tutto – ha ricordato recentemente Arbore – dagli asini in studio (si chiamava “Andonio”) al balletto muto (con Andy Luotto), dal primo umorismo con travestiti (erano le sorelle Bandiera e, allora, era rivoluzionario) alla prima pernacchia, dalla prima parolaccia al primo capezzolo visto in televisione. Tutto l’impianto era nuovo e forse potrebbe essere ancora ripreso».
Tuttavia, l’esperienza si chiuse nel luglio 1979, con la vittoria definitiva del “domenicainismo” – com’ebbe a definirlo Franca Valeri – giunto con quella del 2010/2011, per l’appunto, alla trentacinquesima edizione. Un “modello” efficace quanto contagioso che, dal contenitore domenicale, s’è spalmato su tutto il palinsesto, non solo della Rai. Perdendo di genuinità e diventando irrimediabilmente una fabbrica di pubblicità. Una ricetta ormai collaudata e adattabile a ogni orario con leggeri modifiche delle dosi: una spruzzata (minima) di informazione, tanta cronaca gettata alla rinfusa e accompagnata da una morbosa attenzione per il più pruriginoso dei dettagli, il tutto affidato agli illuminanti commenti di ospiti più o meno urlanti, dall’intellettuale postmoderno agli ex del grande fratello o delle altre decine di reality e il gioco è fatto. Se poi ci scappa la rissa, tanto meglio.
«Io, per dirlo elegantemente – ha detto in un’intervista Arbore – la chiamo la televisione degli espedienti, poi c’è un termine romano, che uso sulla stampa ma non in televisione. Mi ricordo che mio padre, quando doveva parlare male di qualcuno, diceva “Quello vive di espedienti”, cioè trucchetti, furbizie, quelle alchimie macchinose usate in televisione per strappare una manciata di telespettatori in più. Adesso molta televisione vive di espedienti, che qualche volta pagano, in termini di ascolto. Ma l'ascolto non è tutto secondo me». Vallo a spiegare agli sponsor, che ironia e intelligenza sono più importanti una tetta di plastica sventolata a favore di telecamera.
Arbore, da parte sua, ha tirato dritto, ben contento di far parte di una nicchia. Con Quelli della notte, trasmissione cult degli anni Ottanta s’è divertito a prendere in giro la moda dilagante dei salotti televisivi. Nel decennio successivo, con Indietro tutta, ha ridicolizzato la deriva cialtronesca della tv commerciale, lanciando la finta pubblicità del “cacao meravigliao”. Tanto credibile che c’è stato persino chi s’è precipitato a cercarlo nelle torrefazioni. Non solo: con le "ragazze coccodè" Arbore ha anticipato il malvezzo di usare i corpi femminili come coreografia inervte ponendo le basi di quell'uso delle veline che tante polemiche suscita ancora oggi. Con la sua tv irriverente, dunque, ha lanciato segnali culturali importanti, che avrebbero meritato una riflessione più attenta, visto che abbiamo assistito poi alla commercializzazione del servizio pubblico, alla dittatura dell'audience, alla tv urlata e caciarona, alla volgarità, all'esibizionismo delle varie "pupe". Aveva previsto tutto con le sue parodie. E va detto che a volte la finzione è meno orribile della realtà.
Roberto Alfatti Appetiti (a secolo, forumistico, Valentino Pupetta - n.d.r.)
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Il "Gelosino"
Alla vigilia del boom degli anni '60, nel 1956, fu immesso sul mercato il magnetofono Geloso G255 che divenne presto un oggetto presente in molte case, per la sua semplicità d'uso e il prezzo relativamente abbordabile.(1)
La tecnologia fa oggi sorridere, ma per l'epoca si trattava di un oggetto di avanguardia in relazione al rapporto prezzo/prestazioni.
Alimentato da rete (110-220V) e dotato di due valvole (i transistor erano ancora sconosciuti nella componentistica di consumo), la registrazione sul nastro poteva avvenire alla velocità di 4,75 cm/sec o 9,0 cm/sec, con banda passante rispettivamente di 100-4500Hz e 80-6000Hz.
A forma di parallelepipedo (cm. 24x13x14) con angoli stondati di colore crema, era caratterizzato dai quattro pulsanti colorati che comandavano le funzioni principali (riproduzione, registrazione, stop, avanzamento veloce). Un coperchio incernierato trasparente consentiva il controllo visuale del corretto avanzamento del nastro e l'accesso per la sostituzione delle bobine. Era fornito di microfono separato e, volendo, di borsa per il trasporto.
Interessante è la storia della casa produttrice.
La Geloso nasce nel 1931 per volontà di John Geloso, figlio di emigranti in Argentina dove nasce nel gennaio del 1901 e che a quattro anni rientra in Italia per poi, a venti, trasferirsi negli Stati Uniti, dove consegue una laurea e dove compie importanti studi di elettronica che culminano con la prima trasmissione di immagini: sembra fosse la foto della moglie Franca.
John Geloso rientra in Italia nel 1931 e fonda la sua società. Iniziò a produrre non solo radioricevitori ma anche, per scelta di John Geloso stesso, gran parte dei componenti elettronici con cui questi erano costruiti, e nel tempo sviluppandone e brevettandone anche molti altri. Alla Geloso si producevano praticamente tutti i componenti, escluse le valvole, per assemblare un apparecchio. Dalla vite alla plastica della mascherina, dalle griglie degli altoparlanti agli avvolgimenti fino alla falegnameria, che era a Lodivecchio, dove si costruivano gli chassis che poi ospitavano i vari apparecchi. Per fabbricare i vari componenti John Geloso, che era un grande creativo, progettava lui stesso le macchine per produrle.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Geloso si espanse e ampliò la sua produzione divenendo dal 1950 in poi un vero e proprio punto di riferimento dell'industria nazionale e degli appassionati e hobbysti di elettronica.
I tanti prodotti con il marchio Geloso erano conosciuti in tutta Italia e molto apprezzati anche all'estero. Si trattava di prodotti innovativi, di ottima qualità, ben realizzati e dal prezzo contenuto. La produzione imponente spaziava dai radioricevitori, amplificatori, registratori a nastro, televisori, scatole di montaggio, strumentistica professionale da laboratorio ecc, ma anche componenti come condensatori, resistenze, potenziometri, deviatori, connettori, trasformatori, microfoni, filofoni, ecc.
Noto tra gli specialisti e hobbysti del settore il "Bollettino Geloso", una pubblicazione trimestrale che oltre a dare consigli di manutenzione permetteva, anche a chi non aveva dimestichezza con la materia, di costruirsi un prodotto Geloso. Si iniziava con la specifica dei pezzi, ognuno con il riferimento di catalogo, e le istruzione, chiarissime, per portare a termine il lavoro.
La fabbrica era all'avanguardia non solo sul piano tecnico, ma anche in quello sociale. Vi era il servizio medico interno, l’attenzione per il lavoratore era significativa. Geloso aveva una grande apertura sociale, prima l’uomo e poi la macchina come alla Olivetti, e questo è dimostrato dal fatto che le donne che vi lavoravano (l’80 per cento delle ottocento persone che erano impiegate alla Geloso) potevano addirittura portarsi il figlio in quanto era stato creato un asilo per i bambini con tanto di medico e infermiere. Una ditta che l’8 marzo chiudeva ed era festa per tutti. Vi era la mensa interna quando ancora alla Fiat gli operai si portavano da casa la famosa “schiscetta”. La mensa restava aperta anche nel pomeriggio per consentire ai dipendenti che facevano le scuole serali di poter andare a scuola avendo già cenato.
Nel 1968 il fondatore muore e la fabbrica non gli sopravvive molto. Quattro anni più tardi il marchio Geloso scompare dalla scena.
(1) Il prezzo nel 1956 era di L. 46.000, cifra non modesta per l'epoca, ma inferiore rispetto ad apparecchiature di pari caratteristiche di altre marche
Alla vigilia del boom degli anni '60, nel 1956, fu immesso sul mercato il magnetofono Geloso G255 che divenne presto un oggetto presente in molte case, per la sua semplicità d'uso e il prezzo relativamente abbordabile.(1)
La tecnologia fa oggi sorridere, ma per l'epoca si trattava di un oggetto di avanguardia in relazione al rapporto prezzo/prestazioni.
Alimentato da rete (110-220V) e dotato di due valvole (i transistor erano ancora sconosciuti nella componentistica di consumo), la registrazione sul nastro poteva avvenire alla velocità di 4,75 cm/sec o 9,0 cm/sec, con banda passante rispettivamente di 100-4500Hz e 80-6000Hz.
A forma di parallelepipedo (cm. 24x13x14) con angoli stondati di colore crema, era caratterizzato dai quattro pulsanti colorati che comandavano le funzioni principali (riproduzione, registrazione, stop, avanzamento veloce). Un coperchio incernierato trasparente consentiva il controllo visuale del corretto avanzamento del nastro e l'accesso per la sostituzione delle bobine. Era fornito di microfono separato e, volendo, di borsa per il trasporto.
Interessante è la storia della casa produttrice.
La Geloso nasce nel 1931 per volontà di John Geloso, figlio di emigranti in Argentina dove nasce nel gennaio del 1901 e che a quattro anni rientra in Italia per poi, a venti, trasferirsi negli Stati Uniti, dove consegue una laurea e dove compie importanti studi di elettronica che culminano con la prima trasmissione di immagini: sembra fosse la foto della moglie Franca.
John Geloso rientra in Italia nel 1931 e fonda la sua società. Iniziò a produrre non solo radioricevitori ma anche, per scelta di John Geloso stesso, gran parte dei componenti elettronici con cui questi erano costruiti, e nel tempo sviluppandone e brevettandone anche molti altri. Alla Geloso si producevano praticamente tutti i componenti, escluse le valvole, per assemblare un apparecchio. Dalla vite alla plastica della mascherina, dalle griglie degli altoparlanti agli avvolgimenti fino alla falegnameria, che era a Lodivecchio, dove si costruivano gli chassis che poi ospitavano i vari apparecchi. Per fabbricare i vari componenti John Geloso, che era un grande creativo, progettava lui stesso le macchine per produrle.
Dopo la seconda guerra mondiale, la Geloso si espanse e ampliò la sua produzione divenendo dal 1950 in poi un vero e proprio punto di riferimento dell'industria nazionale e degli appassionati e hobbysti di elettronica.
I tanti prodotti con il marchio Geloso erano conosciuti in tutta Italia e molto apprezzati anche all'estero. Si trattava di prodotti innovativi, di ottima qualità, ben realizzati e dal prezzo contenuto. La produzione imponente spaziava dai radioricevitori, amplificatori, registratori a nastro, televisori, scatole di montaggio, strumentistica professionale da laboratorio ecc, ma anche componenti come condensatori, resistenze, potenziometri, deviatori, connettori, trasformatori, microfoni, filofoni, ecc.
Noto tra gli specialisti e hobbysti del settore il "Bollettino Geloso", una pubblicazione trimestrale che oltre a dare consigli di manutenzione permetteva, anche a chi non aveva dimestichezza con la materia, di costruirsi un prodotto Geloso. Si iniziava con la specifica dei pezzi, ognuno con il riferimento di catalogo, e le istruzione, chiarissime, per portare a termine il lavoro.
La fabbrica era all'avanguardia non solo sul piano tecnico, ma anche in quello sociale. Vi era il servizio medico interno, l’attenzione per il lavoratore era significativa. Geloso aveva una grande apertura sociale, prima l’uomo e poi la macchina come alla Olivetti, e questo è dimostrato dal fatto che le donne che vi lavoravano (l’80 per cento delle ottocento persone che erano impiegate alla Geloso) potevano addirittura portarsi il figlio in quanto era stato creato un asilo per i bambini con tanto di medico e infermiere. Una ditta che l’8 marzo chiudeva ed era festa per tutti. Vi era la mensa interna quando ancora alla Fiat gli operai si portavano da casa la famosa “schiscetta”. La mensa restava aperta anche nel pomeriggio per consentire ai dipendenti che facevano le scuole serali di poter andare a scuola avendo già cenato.
Nel 1968 il fondatore muore e la fabbrica non gli sopravvive molto. Quattro anni più tardi il marchio Geloso scompare dalla scena.
(1) Il prezzo nel 1956 era di L. 46.000, cifra non modesta per l'epoca, ma inferiore rispetto ad apparecchiature di pari caratteristiche di altre marche
Ospite- Ospite
Re: Come eravamo
e come dimenticare la bellissima Monica Vitti ? (chissà se Cciappas passa da qua )
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Le Olimpiadi di Mosca nel 1980, furono boicottate da Stati Uniti e altri 65 nazioni, ciò che fece nascere la protesta, fu l'invasione sovietica dell’Afghanistan
L’URSS, come prevedibile, fece incetta di medaglie.. ci fu il netto prevalere dell’Europa orientale, con l'allora DDR Germania Ovest divisa dal muro.. la Bulgaria e altre nazioni del blocco sovietico, Cuba compresa.
A soffrire maggiormente del boicottaggio furono sport come atletica e nuoto, che non a caso fecero segnare alcune clamorose sorprese: come il podio dei 100m, composto dallo scozzese Allan Wells, il cubano Silvio Leonard e il bulgaro Petar Petrov.. oppure il trionfo delle tedesche orientali nel nuoto, con 11 medaglie d’oro sulle 13 in palio, mentre le gare maschili, prive dei campioni americani, furono deprivate di quasi ogni significato.
Non fu una sorpresa, invece, il trionfo di Pietro Mennea nei 200m.. superando per pochissimi centesimi di secondo Allan Wells e Oro anche per Sara Simeoni nel salto in alto e per Damilano nella 20km di marcia, oltre che per Patrizio Oliva nei superleggeri (boxe).
Furono in tutto 8 le medaglie d’oro per la squadra azzurra, che si dimostrò la migliore tra quelle occidentali in gara
L’URSS, come prevedibile, fece incetta di medaglie.. ci fu il netto prevalere dell’Europa orientale, con l'allora DDR Germania Ovest divisa dal muro.. la Bulgaria e altre nazioni del blocco sovietico, Cuba compresa.
A soffrire maggiormente del boicottaggio furono sport come atletica e nuoto, che non a caso fecero segnare alcune clamorose sorprese: come il podio dei 100m, composto dallo scozzese Allan Wells, il cubano Silvio Leonard e il bulgaro Petar Petrov.. oppure il trionfo delle tedesche orientali nel nuoto, con 11 medaglie d’oro sulle 13 in palio, mentre le gare maschili, prive dei campioni americani, furono deprivate di quasi ogni significato.
Non fu una sorpresa, invece, il trionfo di Pietro Mennea nei 200m.. superando per pochissimi centesimi di secondo Allan Wells e Oro anche per Sara Simeoni nel salto in alto e per Damilano nella 20km di marcia, oltre che per Patrizio Oliva nei superleggeri (boxe).
Furono in tutto 8 le medaglie d’oro per la squadra azzurra, che si dimostrò la migliore tra quelle occidentali in gara
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Antonio de Curtis, più comunemente conosciuto con il nome d'arte: Totò, encomiabile artista di indiscussa fama, racconta - nel video proposto- la semplicità della morte quale "livellaltrice" di ranghi sociali.
Antonio de Curtis, così come Eduardo De Filippo, sono stati grandi artisti di un'Italia talvolta rimpianta, che hanno saputo cogliere l'essenza del valore della vita, per raccontarla, tra il serio ed il faceto, con i giusti toni espressivi da immergere noi fruitori del loro pensiero, con spontanea naturalezza, in quel mondo vissuto, talvolta rimpianto, per ricordarci come eravamo.
Antonio de Curtis, così come Eduardo De Filippo, sono stati grandi artisti di un'Italia talvolta rimpianta, che hanno saputo cogliere l'essenza del valore della vita, per raccontarla, tra il serio ed il faceto, con i giusti toni espressivi da immergere noi fruitori del loro pensiero, con spontanea naturalezza, in quel mondo vissuto, talvolta rimpianto, per ricordarci come eravamo.
Condor- Messaggi : 132
Data d'iscrizione : 11.04.13
Re: Come eravamo
Condor ha scritto:Antonio de Curtis, più comunemente conosciuto con il nome d'arte: Totò, encomiabile artista di indiscussa fama, racconta - nel video proposto- la semplicità della morte quale "livellaltrice" di ranghi sociali.
Antonio de Curtis, così come Eduardo De Filippo, sono stati grandi artisti di un'Italia talvolta rimpianta, che hanno saputo cogliere l'essenza del valore della vita, per raccontarla, tra il serio ed il faceto, con i giusti toni espressivi da immergere noi fruitori del loro pensiero, con spontanea naturalezza, in quel mondo vissuto, talvolta rimpianto, per ricordarci come eravamo.video postato
ciao Condor è un piacere vederti anche su questo 3D
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Guya ha scritto:
ciao Condor è un piacere vederti anche su questo 3D
Ave, Guya, morituri te salutant
Condor- Messaggi : 132
Data d'iscrizione : 11.04.13
Re: Come eravamo
Condor ha scritto:
Ave, Guya, morituri te salutant
urka... pure in chiave guerriera
Ave Condor
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Re: Come eravamo
Guya ha scritto:
urka... pure in chiave guerriera
Ave Condor
In chiave gueriera, io? No, carissima Guya, mai potrò "permettermi" di essere in guerra con te, per tre motivi:
1) la guerra non mi piace; mi è venuta la nausea fin da bambino trascorrendo interminabili ore a giocarci (maschile istinto infantile, non farci caso),
2) fare la guerra ad una donna se ne uscirebbe sempre perdenti,
3) e l'empatia? Come la mettiamo con la nostra empatia?
Quella forma di saluto - nel mio posto di cui sopra - è stato indotto, probabilmente, dal tema della morte livellatrice di ranghi sociali, niente di più.
Se permetti, pongo rimedio con un abbraccio. :marghe:
Condor- Messaggi : 132
Data d'iscrizione : 11.04.13
Re: Come eravamo
Condor ha scritto:
In chiave gueriera, io? No, carissima Guya, mai potrò "permettermi" di essere in guerra con te, per tre motivi:
1) la guerra non mi piace; mi è venuta la nausea fin da bambino trascorrendo interminabili ore a giocarci (maschile istinto infantile, non farci caso),
2) fare la guerra ad una donna se ne uscirebbe sempre perdenti,
3) e l'empatia? Come la mettiamo con la nostra empatia?
Quella forma di saluto - nel mio posto di cui sopra - è stato indotto, probabilmente, dal tema della morte livellatrice di ranghi sociali, niente di più.
Se permetti, pongo rimedio con un abbraccio. :marghe:
:marghe:
Guya- La Pasionaria
- Messaggi : 2071
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 110
Località : Genova
Pagina 1 di 1
Permessi in questa sezione del forum:
Non puoi rispondere agli argomenti in questo forum.