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Le vite di Vargas

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Le vite di Vargas - Pagina 2 Empty Re: Le vite di Vargas

Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:57

Luomo che guarda





La ragazza è piccola di statura ma slanciata e ben fatta: gambe lunghe, in proporzione, inguainate in una tuta nera aderente che disegna il sedere rotondo e lascia scoperte le spalle, che sono larghe. La pelle dei deltoidi è abbronzata e fa un contrasto gradevole con i capelli raccolti in una coda bionda.

Resta a lungo in piedi, scuotendo gli omeri, muovendo le gambe senza quasi staccarle da terra, i polsi delicati che si strofinano contro gli adduttori, le dita sottili che navigano nel vuoto alla ricerca – si direbbe – di una nota o di una sequenza di consonanti e vocali sulla tastiera di un computer.

L’uomo accanto a lei, pantaloncini azzurri, maglietta bianca e berrettino con la visiera, le dice qualcosa. La ragazza si inginocchia, lentamente, la coda bionda ha un guizzo di ribellione, sbatte per un attimo come quella di un baio o invece come il sartiame in balia di una raffica tra il fiocco e il boma. Sistema le punte delle scarpette dentro i carrelli di metallo, tocca terra con la rotula destra, tende la gamba sinistra, espande le dita sul tartan color mattone.

Il braccio dell’uomo scende come la corda di una ghigliottina, tutti i muscoli della ragazza schioccano, percorsi da un tremito elettrico, e la proiettano in avanti. Vista di spalle, le gambe vanno stranamente a destra e a sinistra, si smarrisce la componente verticale del movimento e sembra che quella orizzontale prevalga, finché non ci si rende conto che è già arrivata in fondo al rettilineo e si sta fermando di colpo, scaricando l’energia residua in un caracollare buffo, proprio da puledra spenta.

L’allenatore scuote la testa, osserva l’oggettino che ha nel polso, poi sorride.

Dodici e ventitré, dice con voce piana. La ragazza, che sta tornando indietro lungo la stessa corsia, lo guarda in tralice, come se volesse rubare alla sua espressione quello che le parole non dicono.

Non va male, aggiunge lui, per sciogliere la tensione. Ma potrebbe andare meglio e lo sai.

Quante volte lo ha ripetuto in questi mesi. Quante volte. Ormai la routine è la stessa. Una gara juniores con avversarie che – lei lo sa bene – non contano nulla come punto di riferimento. La vittoria a mani basse, rallentando negli ultimi metri perché le manca lo stimolo. La mancanza di esultanza, sua ma soprattutto dell’allenatore, che quei risultati li dà per scontati. Ci vediamo dopodomani in pista per gli allenamenti, che contano molto più di queste gare – sembra voler aggiungere. La speranza che i risultati decollino da un giorno all’altro come per incanto, e invece la lancetta che segna progressi minimi, prevedibili e forse proprio per questo difficili da digerire. Dodici e quaranta, dodici e trentotto, dodici e trentasette, e via di seguito. Dodici e ventiquattro, dodici e ventidue, dodici e ventuno, dodici e diciannove, il suo personale. Dodici e ventitré, adesso, quattro centesimi più su di ieri. Che cosa vuoi che siano, non vi passa in mezzo nemmeno un battito di quelle ciglia lunghe e scure che a chi la incontra fanno pensare che non sia una vera bionda, anche perché è così abbronzata, e invece lei non si è mai tinta, il contrasto ce l’ha dalla nascita, iridi nere, ciglia scure, pelle mediterranea, coda cinerea.

Io so che ti manca qualcosa, le dice l’allenatore, ma devo ancora capire che cosa. Non lì, e le indica le belle cosce, senza sfiorarle, hai visto mai qualcuno dovesse mal interpretare. Non lì, e fa un cenno verso i piedi piuttosto lunghi, rispetto alla statura, chiusi nelle scarpette da pista. Non so ancora se qui – e questa volta, a scanso di equivoci, poggia la mano sul proprio petto, all’altezza del cuore – o qui, con l’indice destro puntato alla tempia, sotto la visiera del berrettino. Del resto l’allenatore non dev’essere per forza un intellettuale, gli si potrà perdonare la mimica banale, tutto questo ambaradàn di gambe piedi cuore e cervello, che a un altro, per esempio all’autore di questo racconto, verrebbe rimproverato come un capoverso kitsch e scontato, da cassare al primo vaglio dell’editing.





L’uomo che ha guardato tutta la scena resta immobile a sua volta, oltre il recinto del piccolo stadio, sul marciapiedi. Visto di spalle sembra anche lui sul punto di inginocchiarsi ai blocchi di partenza. Si alza e si abbassa sui talloni, allunga le braccia lungo i fianchi e muove le dita come se stesse cercando una nota o una sequenza di lettere sulla tastiera di un computer.

Poi si gira di centottanta gradi e si allontana pensieroso. Raggiunge una panchina libera al sole, dinanzi all’imbocco di Ponte Milvio. A pochi metri da lui, sulla destra, due signore anziane sono sedute a un’altra panchina e chiacchierano con una terza donna, imprigionata in una sedia a rotelle. Ridono e fanno battute oscene. A sinistra, quasi contro il muretto del lungotevere, altre tre donne, un po’ più giovani. Una ha una gonna troppo corta per l’età e per la stagione, si direbbe che si diverta a ostentare una coscia piuttosto lunga ma attraversata da vene bluastre. Una seconda trattiene a stento un boxer bellissimo, avvolgendo un’estremità del guinzaglio attorno al polso. La terza, in piedi alle spalle delle altre, è pronta per un giro di jogging, con una tuta non troppo diversa da quella della giovane centometrista.

‘A brutte, grida la donna in carrozzella alle tre più giovani, e si capisce che non c’è antagonismo nella sua voce, devono essere amiche, forse rese tali dalla frequentazione di quel gruppo di panchine, quando c’è abbastanza sole. Ma cche, tte vai a ffà ‘n giro per raccattà ommini, ‘a brutta? See, te piacerebbe a tte, vero, le risponde la jogger, quanno voi scenni da quella carozza e tte vieni a ffa’ ‘n giro con me, e ppoi vediamo chi è che raccatta mejo, e l’altra ride di gusto, per niente offesa, e l’uomo seduto in mezzo alle donne sente che c’è qualcosa che gli sfugge, un patto di alleanza profondo, nascosto nelle pieghe di tutta quella carne appesantita dagli anni.





Non è venuta ad allenarsi, oggi, chiede la donna all’allenatore. Certo che è venuta, risponde lui allarmato e allo stesso tempo all’erta, ponderando le parole, sentendo montare una minaccia che potrebbe afferrarlo alla gola da un momento all’altro. È venuta, ha fatto due ore come sempre, regolari, e se n’è andata. Ma perché me lo chiede, scusi?

Perché non è rientrata ancora a casa, ed è così da un mese, risponde la signora, e io sono sua madre, aggiunge, tanto per attestarsi su una posizione ben chiara.

Mi faccia capire, chiede lui adesso sull’orlo dell’angoscia, è un mese che manca da casa?

No, non ho detto questo, è un mese che rientra tardi, sistematicamente. È un mese che i conti non mi tornano. A che ora finisce l’allenamento?

Se lei è la madre lo sa benissimo, finisce alle cinque, è sempre stato così, da almeno un anno. E in questi giorni è stato lo stesso. Ma scusi, se rientra a casa più tardi ma comunque rientra, ci sarà un motivo, andrà a studiare da un’amica, o a fare una passeggiata, avrà trovato un fidanzato, non gliel’ha chiesto?

Sì, e mi ha risposto che l’allenamento dura di più, adesso.

Be’, non è vero, e del resto lei mi vede, sono qui e sua figlia non c’è. Adesso l’allenatore si sente più sicuro di sé, non dev’essere successo nulla di grave, per fortuna, solo una madre possessiva. E poi mi vede, sono qui, se la figlia va a fare chissà che cosa dopo l’allenamento sono problemi suoi, io che c’entro.

Io l’ho vista uscire sempre alla stessa ora, conferma il magazziniere. Finisce di fare allenamento, si fa la doccia molto in fretta e se ne va con il borsone in spalla, da un anno a questa parte ha fatto sempre così. Una brava ragazza, una delle più tranquille. Un po’ solitaria, questo sì, dovrebbe cercare di avere più amiche, non l’ho mai vista fare quattro chiacchiere, mai uscire dallo stadio con le altre. Più brava e più forte, questo è certo, e forse le impedisce di fare amicizie, qui dentro, anche perché le altre – le altre non sono come lei, per lo più sono delle vipere, con le dovute eccezioni, si capisce. Ma forse è meglio che non parli troppo, sa, faccia conto che non le abbia detto niente.

C’era un tipo strano, dice invece il custode del parcheggio. Uno che se ne stava sempre qua fuori a guardare gli allenamenti. Nelle ultime settimane, dico, prima non l’avevo mai visto. Un tipo distinto, non dico di no, silenzioso. Si limitava a guardare, ho pensato che fosse un appassionato di atletica, magari anche un talent scout, perché no? Sua figlia se ne andava sempre via in bicicletta, sempre da sola, anche oggi, come no. Il tipo? Se ne andava quando finiva l’allenamento, anche lui da solo. Sì, a pensarci bene i tempi coincidevano, cioè, lo sconosciuto se ne andava sempre via qualche minuto prima.

Se possano essersi messi d’accordo? Per vedersi fuori, dice? Non lo so, non li ho visti mai parlarsi, ma è possibile. Sì, lui era sempre da questa parte, in direzione del rettilineo dei cento metri. Sì.





Un maniaco, dice? Non mi sembra possibile. Io e le mie amiche lo abbiamo visto tutti i giorni, veniva e si sedeva al sole, su quella panchina. Prendeva un libro dalla tasca della giacca e leggeva per qualche minuto. Un bell’uomo, tranquillo, pensieroso ma con un sorriso strano, come se avesse, mi faccia pensare, sì, come se avesse scoperto l’America? L’America, ’a brutta, ma che dici? Ma sì, è un modo di dire: come se avesse appena capito qualcosa che stava a cerca’ da tanto tempo, capito?





I tempi? Sì, certo. È migliorata molto, all’improvviso, ha fatto il salto di qualità, quello che uno sogna di vedere, un giorno. Dodici e dieci, di colpo, poi dodici e cinque, dodici netti, adesso siamo sugli undici e cinquantacinque.

Ha fatto due gare, in questo mese, la seconda molto impegnativa, selezioni per i campionati nazionali. Guardi qui, aspetti, ecco, ho trovato i risultati: undici e cinquantasei, la seconda ha fatto dodici e ventinove, praticamente un abisso, due categorie diverse.

Agli undici e quaranta fa il record juniores. Secondo me non c’è storia, ai campionati nazionali le straccia tutte e fa il record.

Perché non gliel’ho detto? Ma santa pazienza, pensavo che lei lo sapesse, è o non è sua figlia? Che cosa? Metterlo in collegamento con queste assenze nel corso dell’ultimo mese? Ma io non lo sapevo mica, che rientrasse a casa più tardi, abbia pazienza, scusi, sa.

Antidoping? No che non l’ha fatto, ma perché, scusi? Lei è sempre stata la migliore, qui. Certo, è migliorata molto, ma anche prima vinceva a mani basse. Vengo con lei, d’accordo.





Guardi, commissario, questi sono i dati.

Mi faccia vedere, scusi, leggo io. Allora, in dodici mesi la ragazza è passata da dodici e quaranta a dodici e diciannove, fanno, fanno ventuno secondi, no?

Centesimi.

Ha ragione. Bene, allora sono ventuno centesimi in dodici mesi, vediamo, uno virgola settantacinque al mese, ci siamo? Il che vuol dire, vuol dire, vuol dire zero virgola zero cinquantotto al giorno, non è così?

Sì, ma non capisco dove voglia andare a parare.

E io glielo dico subito. Adesso abbiamo, guardi, da dodici e diciannove a undici e cinquantacinque in ventisette giorni, vero?

Sì.

Comincia a seguire il ragionamento, nevvero? Ventiquattro centesimi in ventisette giorni, zero ottantotto al giorno, praticamente un miglioramento del millecinquecentotrentadue per cento in proporzione, e questo se consideriamo che ogni centesimo vale uguale, ma io e lei sappiamo, e sottolineo io e lei sappiamo, che man mano si migliora, man mano ogni singolo centesimo pesa di più, non è così?

Diciamo di sì.

E lei, per la miseria, non si chiede come mai questa ragazza da un giorno all’altro esplode così?

Succede, è quello che speriamo sempre, che ci sia il famoso salto di qualità.

Sì, il salto della quaglia, non mi faccia ridere, per favore, se no le faccio fare io un salto, ma dalla finestra, lo sa?

Commissario, la prego.

Non faccia l’offeso, per favore. E nessuno si è chiesto che cosa ci facesse un perfetto sconosciuto ogni giorno alla stessa ora a guardare la sua bella atleta, vero?

Commissario!

Scusi, signora, ha ragione. Comunque, una bella ragazza di diciassette anni è già di per sé un rischio, siamo d’accordo? Ora, mettiamo che non siamo dinanzi a un maniaco, a un pedofilo, va bene? Ma forse peggio, diamine, la ragazza scompare per ore tutte le sere, il tizio se ne va praticamente all’unisono con lei, e la sua atleta, bum!, esplode, fra un po’ ti fa il record del mondo, e lei non si chiede come mai? Mi scusi, mi sembra francamente un cieco, lei. Nemmeno un test antidoping, le ha fatto fare?

Domani lo facciamo.

No, adesso no, mi stia a sentire. Adesso facciamo finta di nulla, io, lei e la signora. D’accordo? Cerchiamo di prenderli con le mani nel sacco.

Va bene.

Va bene anche per me, purché la mia bambina non rischi niente.

Abbiamo tutto sotto controllo, mandiamo i miei due uomini migliori, in borghese. Stia tranquilla. Lo incastriamo, lo stronzo, prima che faccia male sul serio alla sua ragazza.





La biondina percorre gli ultimi metri tesa come un pollice sul grilletto di una pistola, poi esplode in corrispondenza del traguardo e si lascia andare a un riflesso guizzante, simile al bagliore di una fiamma sulla cornea.

Undici e quarantadue, sospira l’allenatore, che vorrebbe tanto esultare ma non può, e sente l’angoscia montargli dentro, come un’ingiustizia che lo sta scalfendo crudamente.

Vado meglio, chiede la ragazza, con timidezza. Non è il tipo che si vanta di nulla, anche se si vede che qualche complimento lo vorrebbe. Sente di meritarselo. Sto trovando quella cosa che mi mancava, non pensa?

Fai finta di nulla, non devono insospettirsi, si ripete l’allenatore, che è quasi felice di essere costretto a recitare, perché in questo modo può dirglielo, alla ragazzina: sì, brava, stai trovando il quid che ti mancava. Poi se ne va, incapace di reggere oltre la tragica farsa.





Il Vargas è un tipo noto, in certi ambienti, dice uno dei due in borghese al commissario, quello grosso con le spalle di un armadio (non proprio la scelta più intelligente per pedinare qualcuno in incognito).

Ah, sì? Dunque avevamo visto bene. Bravi.

È più complicato di quanto pensa, commissario, bofonchia l’altro tipo in borghese, quello pelato con la faccia da mastino (non proprio la scelta più intelligente per pedinare qualcuno in incognito).

Perché complicata?

Primo: il Vargas risulta incensurato.

Va bene, ma questo non vuol dire ancora nulla.

Vero, commissario, ma non è questo, infatti.

E che cos’è allora, cazzo, venite al dunque? Vi siete fatti scoprire?

No, commissario, non credo, anche perché questo Vargas ha proprio l’aria di uno tra le nuvole, non si guarda attorno, se ne sta lì a leggere un libro che tira fuori dalla tasca, poi aspetta la ragazza e lei lo fa montare sul sellino, dietro di lei.

Ah, il vigliacco. Visto, ci avevo preso.

Al tempo, commissario, non è così semplice.

Se dite un’altra volta che non è così semplice vi prendo a calci nel culo, cazzo. Invece le cose mi sembrano di una semplicità lampante. Andate avanti.

Va bene, commissario, come comanda. Allora, il Vargas e la ragazza se ne vanno in motorino fino a una stradina tra il quartiere Prati e il centro, un posto molto frequentato, direi sicuro. Di solito ci arrivano quando c’è ancora luce.

Sì. Andate avanti.

I due in borghese si danno il cambio, la loro sembra una penosa staffetta.

Il Vargas apre la porta di un appartamento al primo piano.

Ah-ha.

I due entrano.

C’è un laboratorio, qualcosa del genere?

Ma no, commissario, c’è un sacco di gente.

Che cosa? Anche associazione a delinquere, dunque.

Gente tranquilla, commissario, signore, uomini di mezza età. Ci siamo intrufolati anche noi.

Pensa tu come si saranno mimetizzati bene, questi due deficienti, si dice il commissario.

E allora?

E allora, c’è uno studio, poi due stanze piene di libri, scaffali da tutte le parti. Il Vargas e la ragazza si siedono in un angolo.

Aspetta, aspetta, scaffali? Avete visto i titoli? Medicina sportiva, chimica?

Chimica e fisica, sì, qualcosa c’è, anche zoologia e astrologia.

Astronomia, lo corregge l’altro mastrino, astronomia, ma poco. Soprattutto romanzi e poesia.

Letteratura?

Letteratura.

Non capisco.

Neanche noi.

Domani spariamo l’antidoping, mi sono rotto il cazzo. Qui qualcuno ci prende per il culo, magari l’allenatore è d’accordo con questo Vargas fin dall’inizio. Ma a me non la si fa.





Il Vargas e la ragazza si siedono in un angolo della sala. Due poltrone abbastanza vecchie, un po’ lise. Una lampada a stelo con il cappello di stoffa chiara. Scaffali e scaffali.

Che cosa ti va di fare, stasera?

Simic’. Mi andrebbe di rileggere Simic’.

Va bene. Allora, Simic’ e poi un po’ di Zanzotto? Oppure Pagliarani?

Simic’ e Pagliarani.

D’accordo.

Vargas si alza e prende dei volumi da uno scaffale, a colpo sicuro.

Leggi tu. Quella che vuoi.

Sometimes walking late at night

I stop before a closed butcher shop.

There is a single light in the store.





Allora? Abbiamo i risultati?

Certo, commissario.

Positivi, vero?

Negativi, commissario.

Aspetti, dottore, negativi nel senso che sono andati male?

Negativi vuol dire una sola cosa, commissario. La ragazza è pulita.

Ma non possono aver trovato un sostanza ancora sconosciuta?

Lo escludo, commissario, e poi perché? Ha idea di quanto costerebbe un’operazione del genere, e lo farebbero per avvicinarsi a un record juniores italiano? Andiamo, commissario, è fantascienza. La ragazza è migliorata da sola, è un talento naturale.





Undici e trentanove, hai capito? Hai vinto i campionati con il nuovo record juniores! Sei contenta?

Certamente, mister, sono contenta. Adesso ci crede, che ho trovato quel qualcosa?

Ci credo, ci credo. Non so ancora che cosa sia, ma ci credo.





Un altro po’ di poesia, signor Vargas. Ne ho bisogno.

Certamente, ma fino alle sette, non più tardi, sei piccola e devi andare a casa.

Va bene.

Andiamo sul classico, che ne dici? L’infinito, L’ode su un’urna greca?

Keats va bene.



When old age shall this generation waste,

Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say'st,
"Beauty is truth, truth beauty," - that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:58

Tête-à-tête





Resto a guardarla per ore, incantato.

Bella, è bella, su questo non si può dire nulla. Perfino le prime striature grigie che luccicano appena tra le ciocche brune sembrano accentuare la sua agilità, quella sensazione di guizzante snellezza che promana da ogni centimetro del suo corpo. Sai che è pronta a scattare in qualsiasi momento, anche se sembra stanca, passiva, come se fosse delusa dalla vita: non esagero, non faccio psicologia spicciola. Un tremore lieve del labbro di sopra tradisce il suo nervosismo: è un tic che ho imparato a riconoscere e che tuttavia le aggiunge un’ulteriore dose di fascino, e che soprattutto mi tiene all’erta, perché so che non è ancora davvero stanca. Ha riserve di energia straordinarie e devo impormi di diffidare di lei.

Ferocia. È l’altra parola che mi viene in mente, ovvio.

Quando dico che sono incantato lo intendo proprio nel senso più letterale – etimologico, chioserebbe un pedante. Soffro l’incantamento del suo sguardo, sono prigioniero di quella che un bardo medievale avrebbe detto una malia. È vero, cerco di andarmene, di uscire da questa situazione di stallo che dura ormai da troppo tempo, eppure se ci riuscissi sarei triste, sentirei subito la sua mancanza. Da troppo tempo ci studiamo in silenzio, seguiamo ciascuno le mosse dell’altro, abbiamo paura – questa è un’altra parola chiave – io di lei, com’è naturale, ma anche lei di me, e sappiamo che chi riuscirà ad anticipare le decisioni dell’altro godrà di un vantaggio decisivo; eppure ormai ci apparteniamo, siamo due tasselli di un paesaggio che senza l’uno o l’altra perderebbe il suo equilibrio, e questo ci condanna a rimanere insieme, anche da avversari.

Non esagero: ormai siamo prigionieri di una relazione morbosa, in cui ciascuno ha tutto da perdere.

Il fatto è che sono stanco, temo di non avere le sue forze, soprattutto la sua energia nervosa, e di essere io a cedere per primo.





Quell’uomo mi fa paura. So benissimo che lui dirà il contrario, che io sono una belva, un mostro, che qualsiasi cosa farà contro di me sarà stata inevitabile, perché è stato costretto a difendersi, ma non è così.

Ha uno sguardo obliquo, gli occhi di un uomo apparentemente buono ma in realtà, nel suo intimo, profondamente cattivo. È un uomo insincero, che porta scritti nel suo DNA i geni del cacciatore. Millenni di cultura non hanno modificato di un grammo il suo istinto aggressivo. Non so che cosa voglia farmi, ma sono terrorizzata.

Uccidere? Sì, uno così può ucciderti senza pensarci su due volte.

L’ho guardato bene, continua a portarsi la mano alla tasca della giacca. Deve avere una pistola. Lo so, vi sembrerò un’isterica, so quel che direte: chi è che se ne va in giro con una pistola in tasca come se niente fosse, e poi se davvero l’avesse con sé, l’avrebbe già tirata fuori da un bel pezzo. È vero, la logica razionale delle cose è questa, non lo metto in dubbio.

Eppure anch’io ho il mio istinto, no? Non vi sembra? Sono madre, o meglio, sono stata madre, e so bene che cosa significhi la violenza degli uomini, l’ho subita sulla mia carne, purtroppo. Nel sangue del mio sangue. Chi mi giudica una pazza visionaria dovrebbe prima perdere due figli, come è successo a me.

Che c’entra, lo so che non è stato lui, non lo conoscevo nemmeno, quando è successo, ma so che gli uomini sono tutti uguali, sotto le diverse apparenze. Ti accarezzano con lo sguardo, quando non possono farlo con le mani, ti sorridono, ti ammirano, sono pronti a levare al cielo un’ode alla tua bellezza, al tuo fiero portamento, alla tua nobiltà d’animo, a quell’indipendenza che fa di te un modello di fascino senza eguali: sì, va bene, ma poi?

Poi ve lo dico io che cosa fanno: alla prima occasione ti sparano.

Non sto esagerando.

E so benissimo che cosa diranno. Che non volevano, che la loro è stata una reazione, una legittima difesa, che se sei stata tu a metterli in un angolo, con le spalle al muro – come adesso, letteralmente, guardatelo, con le spalle contro quel bellissimo frassino, in questo giardino delle delizie, in un paesaggio così romantico, guardatelo, come mi osserva, come soppesa ogni curva del mio corpo, come tenta di blandirmi con la sua ostentata ammirazione.

Vuole la mia pelle, ecco la verità.





Non ce la faccio più, è una tensione insopportabile. Io e lei da soli, qui, a giocare una partita a scacchi senza vie d’uscita.

È adorabile, come potrei negarlo? Ma non ce la faccio più, sento un gelo mortale penetrarmi nelle ossa e più passa il tempo più capisco che la odio. Ma non è colpa mia, è lei che mi porta a questo.

Io vorrei solo che mi lasciasse andare, che mi lasciasse in pace. Non chiedo altro.

So che non lo farà.





Parliamo due lingue diverse, è questo il problema.

Se solo riuscissimo a comunicare con gli uomini, a comunicare davvero, voglio dire, a fargli capire che anche noi abbiamo bisogno di maggiori spazi, di più libertà.

È ridicolo, se ci pensate. Vogliamo le stesse cose e non ci capiamo.

Ma loro sono più forti e violenti, questa è la verità.

A noi non resta che difenderci, e pregare il cielo di avere le forze per farlo.





Una cosa straziante, guardi.

Certo, faccia venire pure un’ambulanza, ma non serve a niente, ormai.

Sangue dappertutto, orribile. Orribile.

Deve farla parcheggiare a fondo valle, dove finisce la strada, e poi faccia salire su i barellieri lungo il crinale. Che facciano attenzione, però, la neve è molto alta ed è ancora fresca.

La colpa è proprio della neve, alla fin fine. I lupi sono scesi a valle e si sono avvicinati ai centri abitati. Alcuni paesini restano isolati, ci sono i soliti imprudenti che si incamminano nei boschi senza pensarci e succedono queste cose. Certo, ci vuole pure una bella sfortuna, non discuto: vai a pensare in pieno ventunesimo secolo che ti trovi su un crinale isolato a tu per tu con una lupa, un bell’esemplare, molto forte, probabilmente terrorizzato. No, i lupi non attaccano gli uomini, specie se sono isolati, dottore, gliel’assicuro, non quelli europei, almeno. Se vuole il mio parere, il tipo aveva una paura del diavolo, la lupa non sapeva quali reazioni avrebbe avuto l’uomo, temeva di essere in trappola, e soprattutto abbiamo scoperto che era incinta. L'istinto in questi casi gioca brutti scherzi, su tutto prevale il terrore che possano portarti via i figli, anche quando sono ancora là dentro. Ed ecco che tutto è finito in tragedia. Lui ha tirato fuori una pistola, la lupa ha fatto in tempo ad azzannarlo al collo, giusto alla giugulare, ma non ha potuto impedirgli di sparare tre colpi a distanza ravvicinata, tutti andati a bersaglio tra testa e petto.

Morti tutti e due, quasi sul colpo.

Pazzesco, no?
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 13:00

Leremita e limperatrice





La cosa che mi colpì di più, curiosamente, fu la copertina di un vecchio libro, un’edizione degli anni Cinquanta di Eugénie Grandet, che sotto il riflesso rossastro della candela sembrava stillare sangue, una macchia che si estendeva di minuto in minuto a forma di ragno, coprendo quasi per intero l’immagine di un uomo in divisa, o almeno a me sembrava tale, salvo scoprire più tardi che si trattava di una bambina con in braccio un cane.

Sulla parete opposta c’era un ritratto a olio della maga. Era bella, con i capelli neri tirati indietro e chiusi in una crocchia, gli occhi scuri illiquiditi, malinconici nonostante il sorriso un po’ timido cui erano atteggiate le labbra piene e tinte di ciliegia. La sua versione in carne ed ossa, davanti a me, era molto fedele ma più sbattuta, con le occhiaie profonde, plumbee, e la chioma disordinata, sciolta, attraversata ogni tanto da un ribelle filo argentato. Sembrava una che non dormisse da una settimana.

Sul tavolino, oltre alla candela, c’era un recipiente di bronzo, i cui bordi erano percorsi da incisioni che avrei detto indiane, e dentro bruciava lentamente una corteccia profumata.

Scelga quattro carte, mi disse: le deve sentire sue, capirle con gli occhi, anche se sono rovesciate, e poi prenderle con la sinistra e mettermele davanti sempre coperte, una dopo l’altra, in modo che io sappia qual è la prima, quale la seconda, e così via.





Me l’aveva consigliata una collega. Vedrai, mi disse, è una cartomante straordinaria, oltre che affascinante, e qui la mia amica aveva fatto un cenno allusivo, come a dire che si sa come siete voi uomini, quando c’è anche di mezzo una bella ragazza è sempre tutto più interessante, no? A me importava poco, dirigevo la sede locale di una florida società di assicurazioni, avevo una moglie bella, magari un po’ rompiscatole, ma non più del normale, e due figli. Mi sentivo in pace con il mondo e soprattutto non credevo – non ho mai creduto – a nessuna favola sul soprannaturale. Maghi, fattucchiere, indovini: tutti ciarlatani, siamo esseri razionali – emotivi, certamente, e per fortuna, fatti anche di musica e poesia, ma soprattutto di atomi di carbonio.

Ma perché no, pensai, tanto più che ero incuriosito intellettualmente dal meccanismo, volevo vedere una presunta maga all’opera, studiare l’apparecchiatura del luogo, l’atmosfera, la panoplia di oggetti e trucchi visivi.

Scoprire che cosa avrebbe mai detto di me. Questo magari non l’avrei mai confessato, nemmeno a me stesso, ma era parte del gioco.





Salii quattro rampe di scale ripide e strette, in una vecchia casa del rione Monti, tra bar alla moda, trattorie romane, ristoranti di sushi, forni tradizionali e negozietti di cianfrusaglie etniche. Il portone dabbasso si apriva a fatica, il legno si era ingrossato e i cardini cedevano contro le pareti gonfiate dall’umidità.

All’ultimo piano la cartomante mi aspettava sull’uscio. L’attico non doveva essere grande, ma ci si perdeva in una sequenza di stanzine piccole, tutte piene di librerie e di quadri alle pareti.

Sì, era bella, aveva ragione la mia collega. Una bellezza sofferta, come se fosse sempre sfinita da una battaglia che le avesse prosciugato via forze e linfa vitale. Mi scusi il disordine, disse con una voce bassa, sa, ogni sessione è un dispendio di energie, poi me ne restano poche per dedicarmi alle faccende di casa. Senza contare l’ufficio, che mi porta via più metà della giornata. La mia amica mi aveva detto che la maga lavorava come segretaria, da qualche tempo, dopo aver perso un lavoro molto migliore, ma non mi disse quale.





Mi raccomando, con la mano sinistra, e non sollevi le carte, non le guardi, è molto importante.

Le scoperchiò lei, una per una, mettendole a croce. Aveva uno sguardo stanco, avrei detto deluso. Rimase in silenzio per un bel pezzo, poi mi guardò con un sorriso stirato: non sono buone, lo sa? Guardi, questa è la luna, non va bene, non va bene, al lavoro c’è un problema grave, che lei però non conosce ancora, forse glielo tengono nascosto, o più probabilmente cova ancora nell’oscurità, non è ancora venuto a maturazione, ma prima o poi uscirà fuori. Avrebbe bisogno di dialogare di più, vede, in opposizione abbiamo il sole, la luce, lei non è solito venire allo scoperto, non è così? Tende a tenere tutto per sé, ma non è la scelta giusta. E infatti ecco qui, il matto e l’appeso, da un lato lei è sospeso in un vuoto che non percepisce, dall’altro ha bisogno di una mossa folle, che sparigli le carte, è proprio il caso di dire.

Poi si mise a contare i numeri dei tarocchi: dodici, trenta, quarantanove, quattro e nove, tredici. Rimase in silenzio, a metà tra un’espressione di trionfo e di terrore. E infatti, riprese, e infatti, che cosa le dicevo, la quinta carta è la tredicesima, ovvero. Resto ancora a metà del gesto di metter giù il tarocco. Ovvero la morte.

Sottili perline di sudore le ornavano la fronte ampia. Mi invitò a rimescolare le carte e a ripetere la scelta di quattro di loro, con la mano sinistra, mi raccomando. L’eremita, vede, anche in famiglia le cose non sono proprio come sembrano, lei ha bisogno di un periodo di solitudine, per ripensare alla sua vita, e infatti in opposizione che cosa c’è, vede, ci sono le stelle, una carta nella quale una donna versa dell’acqua in un fiume, disperdendola nella moltitudine, e ancora, le stelle del firmamento sono tante, sono il disordine o la creazione di qualcosa di nuovo. È vero, qui abbiamo il carro del trionfo, è possibile che tutto questo la porti a risorgere, di nuovo con l’appeso, vede?

Contò di nuovo a bassa voce, dodici, ventuno, ventotto, quarantacinque, quattro e cinque, nove, nove, nove, torniamo all’eremita, la quinta carta non c’è, o meglio, è la prima. Scosse la testa e mi guardò con tenerezza e pietà.

Mi chiese di rimescolare le carte. Con la sinistra, mi raccomando. Non è possibile, balbettò, guardi, la torre, lo vede, un fulmine la scoperchia e addirittura la spezza in due, vicino alla sommità. Qualcosa che può avere a che fare forse anche con la salute, o con la sua stabilità, e dall’altra parte c’è la temperanza, c’è bisogno di saggezza, ed ecco infatti che se a destra c’è di nuovo l’eremita – di nuovo! – a sinistra c’è l’imperatrice, una donna, una donna di potere o forse ricca, o che comunque può avere in mano i mezzi per aiutarla, vede, ha come uno scettro in mano, e un globo. Vediamo, tre, dodici, ventisei, quarantadue, quattro e due, sei, ecco, la quinta carta è migliore, è l’innamorato, ma vede, c’è un contratto, un accordo che viene stipulato, può essere un nuovo legame ma anche solo un nuovo patto che può aiutarla. Attraverso una donna che avrà i mezzi per venirle incontro.





Alla fine aveva uno sguardo febbrile, gli occhi arrossati, le tremavano le labbra, un velo di sudore le faceva brillare il volto ma anche, come nasconderlo, il collo e la scollatura nella camicetta, dove il petto forte e pieno era mosso dalla respirazione affannata. Le sorridevo impacciato, come se le brutte notizie che aveva continuato a rovesciarmi addosso per oltre un’ora fossero reali e riguardassero lei, più che me. Misi sul tavolo più di quanto mi aveva chiesto per telefono e continuai a guardarla senza sapere che fare.

Mi alzai per andarmene, lei rimase seduta guardando nel vuoto. Sta bene, le chiesi, e senza accorgermene le misi una mano sulla spalla, molto vicino all’attaccatura del collo. I suoi capelli erano madidi, davvero come se stesse emergendo da un’intensa sessione amatoria.

Mi prese la mano tra le sue, si alzò e mi portò nella stanza accanto.





Ha uno scettro in mano, o una specie. Forse è un bastone, o un giornale arrotolato, non vedo bene, devo avere problemi agli occhi, una congiuntivite, con questo vento fastidioso e un riparo insufficiente, qua sotto, e tutte queste sterpaglie sull’argine del fiume con un miscuglio di polvere, terra e polline. E un globo, lo vedo, una cosa rotonda, non so se una ciotola, magari, magari ha qualcosa da mangiare, devono essere due giorni che non mangio e mi sento debole.

È una donna certamente bella, con i capelli neri un po’ disordinati, anche per colpa del vento che soffia troppo forte, sotto questo ponte, ogni tanto un ribelle filo argentato. Gli occhi scuri illiquiditi, malinconici, con le occhiaie plumbee. Un sorriso timido, appena accennato, sulle labbra piene e tinte di ciliegia. Sembra una che non dorme da una settimana. Io almeno non faccio altro che dormire.

Sorride, mi porge una ciotola, in effetti. Dev’essere cibo, ma io non riesco a staccare gli occhi dal bastone o quello che è, un simbolo di potere, come di un’imperatrice. Colei che mi salverà.





Poveraccio, una storia brutta, dotto’, brutta.

Era un assicuratore, uno a posto, ricco, bella famiglia, poi gli è andato tutto a rotoli in poco tempo.

Fino a ridursi a dormire sotto i ponti, si rende conto.

E quella che abbiamo fermato?

Pochi dubbi, dottore, abbiamo anche l’arma del delitto, un bastone, ci sono ancora le tracce di sangue, e poi questo strano affare.

Sembra un recipiente di bronzo, con queste strane incisioni sui bordi, arabe, forse, o indiane, va’ a capire.

Ma perché?

Questa è la cosa più semplice, dottore, la donna lavorava nell’impresa diretta dalla vittima, ma a un certo punto fu licenziata. Lui magari manco lo sapeva, è una società grande, con decine e decine di dipendenti.

Una brutta storia, dotto’.
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