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Le vite di Vargas

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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:30

Il K’ari k’ari


Un giorno di primavera – era ottobre inoltrato – ci ritrovammo io e i miei amici Ingrid e Manuel a Batallas, non lontano da Pucarani, dove avevamo lasciato la nostra macchina in panne. Non lontano è un eufemismo, saranno stati dieci chilometri interminabili, lungo una carrozzabile in quel momento deserta, con il sole che ci martellava in testa, spietato e perpendicolare. Che cosa credevate, ci diceva Ingrid, furiosa, siamo a quattromila metri, non è mica una passeggiata, e allora Manuel, che era nato a Potosí, proprio ai piedi del Cerro Rico, aveva cominciato a raccontarci una storia di transumanze a piedi sull’altopiano, per dimostrarci che a lui quell’altitudine faceva un baffo, cercando anche di impressionarci con il ritratto di un k’ari k’ari che gli aveva quasi succhiato via tutto il grasso del corpo, una notte all’addiaccio, e all’improvviso senza apparente logicità disse che non lontano da lì, sulle rive del Titicaca, viveva un suo conoscente o mezzo parente, come sono tutti da quelle parti, che era capace di toglierti la sensazione di stanchezza con l’ipnosi. In realtà più che di stanchezza il suo amico – che era un medico kallawaya – parlava di samay, qualcosa di simile al susto, in castigliano, a una sensazione di paura e smarrimento che colpiva il kamaq-sonqo, ossia lo spirito, e paralizzava le membra delle persone. Vuoi dire perciò che con l’ipnosi questo tizio ti scioglie gli arti e ti fa camminare spedito a quattromila metri senza sentire né la stanchezza né lo scacco del sole sul cranio?, gli chiese Ingrid, scettica e beffarda, e Manuel: se la metti su questo piano magari la risposta è no, perché mi sa che non hai capito niente, qui parliamo di interazione tra la pachamama e lo spirito dell’uomo. Lei lo guardò con un sorriso stirato e messo di traverso che tuttavia non riusciva a deturpare la sua bellezza nordica, forse troppo slavata per il luogo e le circostanze, ma molto apprezzata dal mio compare potosino: ci avrei giurato che avresti tirato fuori la pachamama, gli disse, mi chiedevo quante ore sarebbero passate prima che l’avresti menzionata. Poi, con fare di sfida: dai, andiamo dal tuo amico curandero, vediamo che cosa riesce a fare. Io cercai di fermarli, dissi loro che la deviazione ci avrebbe fatto perdere una giornata di cammino, che eravamo diretti a Copacabana e avevamo la macchina in panne già troppo lontana dalla Ruta Nacional Número 2. La realtà era che un’inquietudine immotivata epperò violenta mi aveva afferrato da qualche parte le viscere, scavandomi come una galleria di vuoto pneumatico dal quale il sangue gocciava denso, rallentando la sua corsa. Niente da fare, i due, in una gara tra teste dure di due emisferi lontani, erano ormai decisi a portare la contesa fino alle ultime conseguenze. Che l’ipnosi abbia luogo, passi quel che passi, era il loro atteggiamento. Un sucha nero passò volando sulle nostre teste, presago, con le ali che sembravano due mani a dita divaricate, sfrangiate, e la cresta bigia inastata, aggressiva.
Scendemmo verso il lago, ben presto con gli scarponi che affondavano in una mota rossiccia e le canne di totora che ci sferzavano i polpacci. Manuel non la smetteva di parlare, magnificava le virtù della muña muña, un’erba medica che curava l’asma, la bronchite e l’insonnia, e Ingrid giù a martellarlo che in fondo la camomilla fa lo stesso e che quegli arbusti violetti a lei sembravano lavanda dell’Occitania ma con un profumo di menta, meno piacevole e inutile per conservare la biancheria lavata di fresco. Manuel non ribatteva, se la rideva sotto i baffi che non aveva, e io mi guardavo attorno con la speranza assurda che incrociassimo qualcuno disposto a offrirci un passaggio per arrivare a Batallas, dove avremmo cercato un meccanico per tornare a prendere la macchina. Finalmente arrivammo quasi rotoloni alla riva del lago, la consueta coltellata di cobalto sull’assoluto dei gialli e delle terre prese direttamente dalla tavolozza, senza impastare, con uno sfrego bianco lungo la Cordillera Real, come se un apu sbronzo di chicha avesse perso la sua dentiera a causa di un morso troppo violento e la chiostra di molari e premolari fosse rimasta infissa lungo il cornicione minerale. Zigzagando tra le polle d’acqua e gli scogli di terra friabile ci dirigemmo verso una casupola in adobe, con una sola piccola finestra in direzione del lago e una porta bassa sul lato opposto. Il kallawaya, nemmeno l’avessimo tecnologicamente evocato con uno squillo del cellulare, ci aspettava sull’uscio con le braccia penzoloni ai due lati del corpo tondo. Mai ne vidi uno a braccia conserte, dicevano che l’incrocio di qualsiasi arto avrebbe scontentato la Pachamama e offeso il padre Inti e i grandi apu, Illimani, Sajama, Wayna Potosí, Mururata e Condoriri. Io rimasi a guardare la risacca quasi priva di onde, se non quelle minuscole che provocavo lanciando dei ciottoli forse in un modo sconveniente verso qualcuna delle divinità, mentre Manuel assisteva al consulto di Ingrid da parte del medico ambulante. Ogni tanto mi affacciavo e li vedevo seri seri, lei seduta, loro in piedi: non capivo nella penombra l’età dell’anfitrione, il cui volto liscio, dalle guance gonfie ma tese come un pallone da calcio o la pelle di un tamburo, sembrava un monile di bronzo, sul quale le espressioni venivano disegnate dai riflessi del sole al tramonto piuttosto che dai movimenti dei muscoli mimici, apparentemente nulli. Un guizzo ogni tanto, come una fiamma di candela sulla pancia di una brocca etrusca, sembrava ricamare un ghigno o una smorfia di approvazione. Non c’erano pendoli né altre stupidaggini da romanzetto d’appendice: solo il passaggio a tratti delle mani, le dita che accarezzavano uno spazio vuoto a qualche centimetro dalla testa della ragazza, e magari parole bisbigliate che tuttavia a me, di fuori, non arrivavano.
La quarta volta che pensai di sporgermi dall’uscio della casetta mi resi conto che mi ero appisolato. Mi trovavo seduto su una roccia a pochi centimetri dal lago e in alto le stelle erano capocchie di chiodi enormi, mostruose, grandi e pulite come non le avevo più viste da anni – l’ultima volta forse nei campi di tè tra il Monte Kipipiri e il Lago Elmenteita, sul bordo della Rift Valley, ma era quasi un’altra vita. Ebbi un brivido, anche se ero ben coperto, e mi rialzai di colpo, o credetti di farlo, perché una forza ottusa mi mantenne incollato a terra, come se le mie cosce fossero diventate gigantesche e troppo pesanti, o se un blocco di magnetite mi costringesse a far la parte di una calamita. Il k’ari k’ari, pensai incongruamente, quasi avvertendo il soffio gelido dell’animale o uomo misterioso che percorre di notte l’altipiano suggendo il grasso dal corpo delle sue vittime, lasciandole vuote crisalidi, come le avrebbero poi ritrovate il mattino seguente i pastori: una povera pupa vuota, di pergamena trasparente, priva di vita e di peso, pronta a essere soffiata via dal vento della cordigliera. Ma non c’era nessun k’ari k’ari né alcun puma, era solo la mia immaginazione. Con uno sforzo sovrumano mi rimisi in piedi, barcollando come ebbro: eppure non sono io ad essere stato ipnotizzato, mi dissi, o invece sì? E se il kallawaya lo avesse fatto anche a me, dopo di Ingrid, e io me ne fossi semplicemente dimenticato, proprio per effetto dell’ipnosi ? In fondo è hypnos, è il sonno, non è così? Percorsi con dolorosa lentezza i venti metri che mi separavano dalla casupola, che trovai vuota. Il riflesso della luna sul lago entrava nell’unica stanza e bagnava il pavimento di terra battuta, togliendomi ogni dubbio sull’assenza dei miei amici e del medico. Provai a bagnarmi la fronte, ma l’acqua del Titicaca era un metallo gelido. Dove vado, adesso, mi dissi, e: maledetta la discussione tra quei due, che si gettino finalmente l’uno tra le braccia dell’altra e la facciano finita, che trovino la linea del diametro che taglia in due il cerchio, senza percorrere più la circonferenza inseguendosi all’infinito, senza dover indulgere sempre in battaglie futili: battaglie, batallas, mi sovvenne, e cercai di orientarmi per capire dove fosse il villaggio di Batallas. Lo scampanio di un gregge di capre mi guidò verso la strada sterrata e pensai con lucidità ritrovata che seguendo l’orlo del lago sarei arrivato forse alle propaggini del centro abitato. Se mi vede qualcuno penserà che io sia un pazzo o forse proprio il k’ari kari, e ci manca solo d’essere linciato qui in una brughiera sperduta, per colpa d’una scommessa d’altri sul potere dell’ipnosi. In quel momento vidi venirmi incontro in una nebbia di latte fuso un essere mostruoso, un corpo colossale con la testa cubica o magari cilindrica e due corna diritte, alte come torri. Non riuscii a togliermi dalla sua traiettoria, il mio corpo era diventato di piombo, non avrei mosso un muscolo nemmeno per sfuggire a un plotone d’esecuzione. Un muggito metallico mi investì, con la potenza di cento trombe. Un tipo dal faccione gioviale, con un sorriso perduto, mi chiamò dal cuore del gigante, dalla cabina del camion: ¿Se encuentra bien, señor? ¿Necesita un aventón? Mi accompagnò fino a Batallas, dove rimasi in una pensione per qualche giorno, sdraiato a letto nell’immobilità assoluta, prima di riuscire a rimettermi in cammino.
Una settimana dopo, guardando il lago dalla terrazza di un ristorante a Copacabana, Ingrid e Manuel mi confermarono che l’ipnosi aveva funzionato e che non avevano sentito più nessuna stanchezza. Avevano fatto molta attività fisica in quei giorni, e soprattutto in quelle notti, aggiunsero strizzandosi l’occhio e ridacchiando allusivi. L’unica cosa che il kallawaya si era dimenticato di spiegare, disse poi Ingrid come per scusarsi, erano gli effetti collaterali: pare che tutta la stanchezza che l’ipnosi ti tira via dal corpo entra per forza in quello di un altro. È come un k’ari k’ari al contrario, concluse scuotendo la bella testa bionda.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:38

La strega di Gaeta


Sega mulega
le streghe di Gaeta
che filano la seta


Scendendo dal castello i vicoli di Gaeta sono un dedalo sghembo, schiacciato tra pareti tirate su in diagonale, muri ocra o imbiancati che sembrano deformarsi ad altezza d'uomo generando pance e gibbe aggettanti che poi si rastremano di nuovo verso l'alto. Ponticelli e corridoi appesi da una casa all'altra e tetti che si uniscono contribuendo a cancellare il sole mediterraneo in una cappa d'ombra tiepida. Qua e là piazzette anguste, di pochi metri, scherzi piuttosto della geometria che disegna triangoli, trapezi o parallelogrammi appoggiandosi a una fontanella con la testa di leone, a un lacerto di opus reticulatum o a una colonna tronca, orfana di un palazzo degli ipati. Un ratto sguscia da una fessura tra le pietre, orecchia il suono di un flauto portato dal libeccio, inforca gli occhiali e sbuffa, prima di sparire dietro una grondaia. Tre vecchie – però no, a guardarle meglio non se ne coglie l'età, che resta indefinita – sono sedute sulla soglia di un basso, i volti sbozzati dal gioco delle ombre come un ritratto cubista su fondo beige. Filano, nemmeno fossero le Parche, attingendo il tessuto da una pezza serica che una di loro ha in grembo, la più giovane, mi vien fatto di pensare, dall'incarnato cupreo, certamente di discendenza saracena, di quando gli arabi delle coste meridionali del lago mediterraneo venivano fin qui ad anni alterni per portare morte e rapina o commercio e amori.

Non mi accorgo di loro, ahimè, se non quando strappo il filo inavvertitamente, con un movimento goffo, tradito dal barbaglio di una gibigiana sulla finestra di fronte, e la donna più scura apre la bocca armata di denti bianchi, grossi, bossoli di perla calcare, ma non dice nulla, mi guarda strabuzzando gli occhi e risucchiando l'aria fino a incavare le guance, e a me sembra di ghiacciare, e allora vorrei appoggiarmi alle altre, cercare un riparo nei loro gesti, ma entrambe abbassano lo sguardo e mi oppongono l'usbergo delle capigliature spennate. Una, alla fine, mi porge un oggetto, che io palleggio nel cavo della mano, assaporandone con il tatto la consistenza solida e al contempo granulosa: una lucerna romana, sbeccata sul davanti, dove una minuscola testa maschile appare smangiucchiata, ferita sulle tempie e quasi priva di mento.

Divorato anch'io dall'angoscia scappo, percorro i gradini bassi e lunghi dei violetti a due a due, rischiando più volte di scivolare, ed esco in piazza Traniello, quasi sbattendo contro il grande leone di marmo reso camuso dal levigare degli anni che presiede al sonno del borgo, adesso che la notte è scesa (ma quando? Perché non me ne sono accorto?). Continuo la mia fuga fino al campanile e poi al mare. Una luce inattesa rimbalza sui piatti di ceramica verdecerulea incastonati nelle torrette ottagonali arabeggianti. È il faro di punta Stendardo o addirittura quello più su, di Monte Orlando, penso, eppure non mi sembrano accesi. Con terrore mi avvedo che la lucerna romana è calda tra le mie mani e che una fiammella trema sullo stoppino imbevuto d'olio.
Soffio per spegnerla, poi mi getto in un gozzo, tra le imbarcazioni alla fonda, e avvio il motore entrobordo. Il mare non è nero, come sarebbe ovvio immaginare, ma d’un verde scuro e al contempo acceso, come se milioni di scaglie risplendessero di un fuoco di sotto, come se io stessi navigando sul dorso di un unico immenso rettile che segue un moto sinusoidale. Perché io lo faccia, da chi o da che cosa scappi, ignoro.
Approdo davanti a un borgo di pescatori che sono certo di conoscere. Santa Fé, mi dico, e infatti ecco il ponticello di legno mezzo sfondato, il molo con le assi sconnesse, le case sulle palafitte che si perdono tra acacie, mangrovie, convolvoli e altri arbusti. Un fiumiciattolo sporco, coperto da uno strato oleoso sul quale scoppiettano bolle traslucide, scorre lento e silenzioso sotto il ponte.

Un uomo anziano in guayabera è in piedi accano al parapetto di cedro marcio. Il collo scuro, magro ma percorso da una nervatura vigorosa che gli gonfia lo sternocleidomastoideo, contrasta con il cotone bianco, che mi abbacina.
¿La traíste contigo?, mi chiede, quasi cantando, mangiandosi le consonanti, e capisco che allude alla lucerna di terracotta. Muy bien, compadre, entonces vamos. Ellas te esperan (muy bien, compa’e, entonces vamo’, ella’ tte eppe’an, è quello che sento). Chi è che mi aspetta, chi sono quelle?



Risalendo il Río Jaimanitas verso Siboney, dopo poche centinaia di metri si arriva a un gruppo di casupole nascoste in un fosso sulla riva sinistra, dove la vegetazione è fitta. Liane cresciute senza che nessuno vi abbia messo mano, boscaglia di fiume, e qui e lì piccoli banani, papaye, guayabe, un mango grande, carico di frutti. Le capanne hanno il colore del fango disseccato, il che probabilmente corrisponde alla loro vera condizione: le assi di legno scolorito sono ricoperte di limo depositato dalle piene che occasionalmente fanno salire di un buon paio di metri il livello altrimenti stitico dell’acqua. Loro sono lì, nel cortile di terra battuta, tra i polli, un tacchino magro e spennacchiato e due grossi maiali dalle setole corte e nere. Lattine di conserva arrugginite fanno da vasi da fiori sui gradini sconnessi e pneumatici grigi e vulcanizzati fungono da aiuole per le piantine ornamentali. Sono almeno una dozzina, tutte vestite di bianco. Il verde e l’arancio delle ciabatte di plastica ha perso ormai l’originale brillo, ricoperto da una patina terrosa.

La signora di Gaeta mi si avvicina e io le porgo la lucerna romana. Gracias, m’hijo, biascica a voce pressoché inudibile, e mi fa segno si sedermi. Mi accomodo per terra, e lo stesso fanno loro, una dopo l’altra, come tessere di un domino. E un domino è proprio quello che collocano al centro del cerchio. La prima mette per terra un doppio due, la seconda risponde con un cinque e un due, e via di seguito. Quando tocca a me non so che cosa fare, infilo la mano in tasca ed ecco che c’è una tessera dello stesso legno brunito, zuppo di acqua salata. I pallini scoloriti, quasi senza più la vernice nera, dicono che è un doppio sei. Chiudo il gioco. Muy, bien, tienes suerte, m’hijo (muy bie’, ttiene’ suette, m’hijo), commenta una delle più vecchie, con due occhi gialli febbricitanti, stretti come quelli di un gatto tra le borse pesanti di pelle che le si sono gonfiate accartocciando le palpebre e le lasciano intravedere come una sottile linea iniettata di rosso vivo. Si tocca la collanina fatta di cipree moneta, facendola scorrere veloce, poi si alza e mi invita a seguirlo, imitata dalle altre donne. Passiamo sul retro del piccolo borgo, dove si apre un cortile rettangolare incorniciato da porticati retti da colonnine di legno. Un odore dolciastro insopportabile mi afferra alle narici, confermato dai recipienti messi ovunque lungo il perimetro del patio: vecchie tinozze, vasche da bagno smaltate di bianco e perfino un abbeveratoio di pietra lavorata ripieni di sangue annacquato, di un rosso leggero.

La donna mi prende per mano e mormora qualcosa. Si rivolge a Orula, ico-fá, ico-fá, sembra dire alle altre chiamandole a raccolta. Poi mi porge un coltello brunito, dal manico insozzato. Lo accolgo con mano tremante. Una bambina uscita chissà da dove, con un vestitino di organza giallo e i piedi scalzi, mi porge il gallo, tenendolo per il collo.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:40

Uso scorretto della reputazione






Mio zio Procopio Gianni di lavoro faceva il riparatore di cassette postali. Era un lavoro umile e poco redditizio, ma lui lo faceva con passione. Quando lo chiamava una vecchietta del paesino, come la maestra in pensione Luisa De Magistris, lui accorreva subito, lasciando qualsiasi altra occupazione. Palpava la cassetta delle lettere cementata al muretto che dava sul giardino della maestra, restava con il fiato sospeso, stringendo le labbra fino a farne due fettucce sottili, gli occhi rivolti all’insù, in meditazione. Sembrava auscultare il cuore dell’oggetto metallico. Non è niente di grave, diceva poi con una voce bassa, la ruggine ha eroso una vite e perciò la linguetta che chiude la fessura non gira più bene, ma adesso sostituiamo il pezzo e la cassetta tornerà come nuova. La signora De Magistris lo ringraziava con le lacrime agli occhi: aveva un figlio che lavorava come custode di un museo in Honduras e ricevere con regolarità le lettere che le arrivavano con quei bei francobolli colorati, spesso illustrati con disegni di uccelli e fiori tropicali, era quasi tutto ciò che le restava di importante nella vita. Che cosa sarebbe successo se il postino avesse trovato una cassetta che funzionava male, con la linguetta di metallo che non girava sul suo perno? Magari si sarebbe seccato e avrebbe tirato diritto senza lasciarle la lettera. Meglio non pensarci.

Un giorno si guastarono tutte le cassette dell’ufficio postale. Il paesino era piccolo e non c’erano cassette in giro per le strade, né in piazza. C’era tuttavia un bellissimo ufficio postale, giustamente considerato l’orgoglio locale. Era stato costruito nel 1954 da un architetto di Bellinzona, Ludovico Poggio-Frühstuckling, in perfetto Jugendstil tosco-boemo. Nell’aprile 1957 una riproduzione dell’edificio in bianco e nero era apparsa nella rubrica Forse non tutti sanno che della Settimana enigmistica e non c’era famiglia del nostro paesino che non ostentasse la pagina della rivista bellamente incorniciata nel salotto buono. Nel 1962 il sottosegretario alle poste, il democristiano della corrente delle pantere bigie Marcantonio Settantasette, volle riparare al grave torto della mancata inaugurazione e organizzò una cerimonia in grande stile, facendosi perdonare gli otto anni di ritardo con uno spettacolo di majorette dell’Alabama. Numerosi uomini del paese sognarono per mesi le gambe delle ragazzotte americane, e la DC ottenne quell’anno il 74,3% dei voti alle provinciali.

Capirete dunque che il guasto in contemporanea delle quattro cassette postali in ferro battuto brunito con mascheroni raffiguranti leoni rampanti era un’autentica tragedia per il paese. Il sindaco stanziò una somma straordinaria stornandola dal bilancio comunale e mio zio Procopio Gianni lavorò come un matto per tutta la notte. Il mattino seguente le cassette erano come nuove.

Più che il conto in banca, mo zio vide crescere in modo spropositato la sua reputazione. Era diventato un eroe. Qualcuno già parlava di intestargli lo stadio comunale, dove la locale compagine aveva appena ottenuto la promozione in Seconda categoria battendo allo spareggio la Virtus Brunelleschi 4-2 dopo i tempi supplementari, sebbene in virtù di un rigore discutibile e di un gol segnato in palese fuorigioco dal centravanti, che poi ero io. Per fortuna il vice sindaco, che insegnava logica algebrica all'istituto tecnico per accordatori di clavicembalo, fece notare che non si intestano edifici né strutture pubbliche a chi sia ancora in vita, mio zio fece tutti gli scongiuri apotropaici del caso e della proposta non si parlò più.

Quando la sua reputazione ebbe raggiunto le dimensioni di un grosso palazzo, mio zio acquistò un terreno appena fuori dal paese, ce la piantò in mezzo e andò a viverci dentro. Ormai si considerava un vero signore ed era contento di vedere la sua reputazione gonfiarsi ogni giorno un po’ di più, fino a poterci ricavare un bell’attico e dare in affitto i piani bassi.

Naturalmente smise di riparare le cassette postali e divenne grasso, borioso e scostante.

I vecchi del paese, che non avevano ancora a casa il computer e dipendevano dal servizio postale, non sapevano più a chi rivolgersi.

Un giorno, mentre mio zio era a passeggio nel circondario, un uccello fece una cacchetta sull’antenna parabolica, che all’improvviso cominciò a roteare e venne giù di colpo, trascinando nella caduta i terrazzini ingentiliti da cariatidi di marmo, che rovinarono sul terzo piano provocando a cascata il crollo dell’intera struttura portante.

Della reputazione di mio zio rimasero solo le rovine fumanti.

Dicono che l’uccello fosse un tucano dell’Honduras
.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:44

Achille e il pugile



L’Eroe è sul letto, nudo, i muscoli lucidi di sudore e splendenti d’olii e di amore. Copre con il suo corpo quello dell’ancella. Forse è Briseide, ma se così fosse, perché stupirsi, o peggio, fremere di rabbia? Perché il nubiano dai bicipiti colossali e dalle cosce di quercia inarca il ciglio e digrigna i denti, quelli candidi d’avorio e quelli luccicanti di fiero metallo? Perché il disegno del labirinto sulla sua pelle, scalfito e tinto di nero e di porpora, guizza tra il gonfiore dei muscoli, scomparendo o dilatandosi a seconda che il volto si distenda o si corrughi feroce? Forse la donna non è la sacerdotessa Ippodamia, figlia di Briseo, è invece Cassandra, rapita o offerta in dote per placare l’Eroe poeta? È perfino Elena, l’origine di tutti i mali?
No, non è nessuna di loro.

Il colosso di ossidiana afferra le coste del letto e le scuote, ma il talamo non si smuove, resta incollato al suolo. No, non è questa la storia giusta, pensa Omero, il letto incardinato al suolo è quello di Ulisse, è nell’altro poema, non in questo, non c’entra nulla con gli amori del Pelide poeta e guerriero, non sarà questo stratagemma a salvare Achille, qui non c’è un letto scolpito nel tronco di un ulivo secolare. Lasciamo a Penelope i piaceri di quel talamo, riflette Omero, pensiamone un’altra.
Ecco, facciamo che Achille si alza a metà, il busto elegante e forte coperto in parte dalla chioma bionda, come un attore del cinema (che cos’è il cinema, si chiede Omero, e la Morte sorride e gli sussurra all’orecchio: vedrai, ti presenterò Joe Black, l’Atro sembiante di Thanatos), e dietro le sue spalle giace la donna nascosta tra le lenzuola, bronzea come il furioso nubiano.

L’Eroe cerca di scendere dal letto per offrirsi allo scontro con l’avversario e salvare la fanciulla, ma non può, non si riesce a varcare lo spazio che avvolge il talamo come una sfera d’aria. Ma no, Omero, sbagli ancora, quella è un’altra storia, la racconterà un poeta romano, Publio Ovidio Nasone, ed è l'episodio di Vulcano, lo storpio ferito nell’orgoglio, che costruisce una ragnatela lieve, invisibile e però impenetrabile, per esporre al ludibrio degli dei Marte e la fedifraga Venere: non c'era tessuto, non c'era ragnatela appesa a trave di soffitto che superasse quell'opera in trasparenza. E fece in modo che scattassero al più leggero tocco e al minimo movimento, e dispose il tutto opportunamente attorno al letto. Mal glie te incoglierà, povero Vulcano, povero fabbro: rideranno, gli Olimpi, ma per primo rideranno di te, che credevi di poter incatenare la bella Venere ai doveri nuziali.

Basta, Omero non sa più che scrivere, gli ci vorrebbe uno sceneggiatore di Hollywood: il nubiano, che nell’arte del pugilato non teme nessuno, nemmeno Ajace Telamonio, è vinto, non sa più che cosa fare, e allora non gli resta che una via d’uscita: ride. Ride del terrore che si è dipinto sul bel volto d’Achille, ride perché soltanto lui, il mostro che tutti fuggono, ha visto da vicino la paura del Pelide. Ma giura che aspetterà vent’anni prima di raccontarlo. O venti secoli.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:45

E come ti regoli con l’acqua?



Non è così che doveva essere, Serena, le dico, e intanto continuo a remare. Il legno affonda in un liquido nero e denso come la pece, però i tonfi si sentono chiari, gorgheggi di un basso pucciniano a cadenza (quasi) regolare. Un’eco altrettanto puntuale ce li restituisce da qualche parte a ovest, e io ne deduco che in quella direzione debba esserci una terra.

E come, allora?, risponde Serena, ma io ho già dimenticato che cosa le avevo detto, dev’essere passato un quarto d’ora da quando avevo parlato, quindici minuti di silenzio e di plof ottusi nel mare. D’accordo, riprendo, in fondo è Santa Lucia, ma questa notte è troppo lunga, mi sembra di essere qui da settimane. È il nord, Vargas, replica Serena, l'inverno boreale, io te l’avevo detto, e pensare che sono io quella che viene dall’equatore, non tu.

Che strana storia, ieri nella bettola del porto, a Fort William, noi due insieme a un ubriaco che diceva di essere Coleridge, e poi quell'altro vecchio enorme, che adesso nel mio ricordo deve aver misurato due metri e oltre, con una chioma bianca giallastra che sfiorava le assi della cantina e si confondeva con la barba. Mille sterline per voi se mi portate queste casse sull’isola, diecimila se mi trovate l’unicorno. Somerled, ha detto che si chiamava, dico, e Serena: a me sembra di aver sentito Ri Innse Gall, ma si sa, tu con i nomi litighi sempre, e ride. Che baggianata, Serena, gli unicorni non sono mai esistiti.

Chiamami Iyabo, insiste lei, Serena non mi piace. È l’unico nome che hai sui documenti, le dico per molestarla, ma lei non ci casca più, schiude appena la bocca e non risponde. D’accordo, Iyabo, se fossi a casa tua che cosa faresti, adesso? Non lo so, da noi l’acqua ha sempre dei confini, il delta a Port Hancourt è un labirinto ma alla fine ne esci sempre, magari in bocca a un coccodrillo ma ne esci, qui non posso aiutarti, cavatela da solo, adesso. E ride.

Water, water every where, nor any drop to drink, ci sussurra Coleridge all’orecchio, ma è un bel po’ che quel pazzo è sceso dalla barca, almeno da quando abbiamo incrociato i grandi uccelli.

Che cosa farfugli, chiede Iyabo, abbiamo dieci casse di whisky, bevi quello, e se non ti piace da solo, sei circondato dall’acqua, allungalo con un po’ di questa. Con il sale, sarai matta, Serena.

Poi cominciano i colpi. Qualcuno bussa sul fondo della barca. Toc. Toc. Toc. Cadenza doppia rispetto ai miei remi, il che significa che non riusciremo a raggiungere la terraferma. L’acqua adesso c’è, sta filtrando tra le assi e invade la barca, ma Iyabo non se ne cura, canta una nenia yoruba e lancia le bottiglie di whisky in mare, una dopo l’altra, seminando una scia dietro di noi.

Uno, due denti di narvalo emergono già tra le lacerazioni del fasciame, ma poi all’improvviso si ritirano.

Un’alba di latte sporco si spande verso oriente, cancellando gli ultimi resti di Orione. Il cacciatore affonda e noi ci salviamo. Aumento il ritmo dei remi, la spiaggia di Islay è vicina, alla fine credo che ci salveremo un’altra volta. Alle nostre spalle ci accompagna un codazzo di narvali ebbri, e l’ultimo della fila è un unicorno.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:46

Cera una volta il giallo





Mamma, mi piace il giallo, le dice la bimba, andiamo bene, a quest’età già una propensione morbosa per i polizieschi, figurati quando sarà più grande.
Lilly borbotta, preparando l’occorrente per la notte di lavoro. Osserva la borsetta aperta e buttata sul letto ancora sfatto, controlla che non manchi nulla. Si sistema l’orlo di una calza che le sembrava essersi allentato sulla coscia destra. I tacchi le danno un po’ fastidio, le scarpe nuove non aiutano, bisognerà abituarsi a camminarci un po’ e questo sarà l’ultimo dei problemi, anche questa notte ce ne saranno di chilometri da masticare sui marciapiedi della città. La gonna cade bene, una decina di centimetri sulle ginocchia, riflessa nello specchio.

Mamma, hai capito, mi piace il giallo. Ho capito, piccola, adesso però vai a dormire, la baby sitter sta arrivando e mamma deve uscire. Perché uscire, è tardi, perché non resti a casa? Non posso spiegartelo, cara, quando sarai più grande, va bene? Uffa, però le mie amichette all’asilo hanno tutte una mamma che lavora di giorno, e qualcuna non lavora proprio, hai capito, mi ascolti? La camicetta tira un po’ troppo sul seno, se non sta attenta le punte dei capezzoli finiranno per disegnarsi come musetti di animali prepotenti: non che l’effetto le dispiaccia troppo, ma insomma, vediamo di non esagerare. Senti, piccola mia, anche la tua mamma molte volte lavora di giorno, lo sai, solo che spesso le tocca essere disponibile anche di notte, la vita è fatta così, lo capirai quando sarai più grande. Speriamo che non debba mai vergognarsi di sua madre, pensa, ma questo ovviamente non lo dice ad alta voce. Indossa la giacca del tailleur, la linea è classica ma aggressiva, le è piaciuto fin dalla prima volta che l’ha visto in vetrina. Sospira, non avrebbe proprio voglia di andare in strada, questa notte, fa freddo e minaccia pioggia, ma non può più tirarsi indietro.

Però l’hai capito, che mi piace il giallo? Mamma l’ha capito, cara. E allora, posso, vero? Posso che cosa, tesoro? Niente, mamma, niente. Fai la brava, mi raccomando, ecco la baby sitter, ho sentito il campanello, mi raccomando, la mamma esce.

Non piove, per fortuna, le seccherebbe rovinare anche questo vestito, com’è successo già tante altre volte. Con questo lavoro non puoi mai sapere, finisci a volte in situazioni incresciose, non è che puoi scegliertele tu, fare troppo la schizzinosa: insomma, non frequenti certamente gente raccomandabile, e certi tipi di contatto fisico non sono proprio il massimo per mantenere il guardaroba impeccabile. Lilly è un’habituée della tintoria, dovrebbero farle uno conto speciale, anche se la signora che la gestisce, una peruviana pienotta, non le risparmia un’occhiata indiscreta quando lei le porta certi vestiti conciati che non ti dico, anzi, meglio non dire come ci sono finite sopra alcune macchie, soprattutto quelle organiche, chiamiamole così. Com’è successo la settimana scorsa quando i suoi clienti di turno sono stati i fratelli Genziana, due tipacci rudi che vanno per le spicce. Ma lei ha tenuto testa a entrambi, se n’è fatti due in una sola botta, e poi uno si chiede perché le sue notti siano così faticose, quando ha finito aveva la schiena a pezzi, dolori dappertutto e un paio di pantaloni da buttare via, se non fosse che bisogna fare economie, di questi tempi, e allora speriamo nelle qualità della tintoria.

E adesso anche questa storia, che cosa le ha detto la piccola? Mi piace il giallo, ma che c’entra il giallo, mica la ragazza le fa vedere i telefilm la sera, spero proprio di no. Qui di gialli bastano e avanzano i miei.





Ecco, è finita anche quest’altra notte di ronda nei quartieri malfamati della città. Sarà contento il commissario, quello nuovo, che le aveva detto di vestirsi bene, insomma, niente di troppo appariscente ma bene, altrimenti la copertura salta. Lei è la migliore agente che abbiamo, il questore mi ha raccontato come ha sistemato i fratelli Genziana, brava, so anche che non ha potuto evitare un po’ di spargimento di sangue. Niente di speciale, signore, le ha detto lei, il più piccolo dei Genziana se la caverà con un mese di prognosi. Mica gli ha detto dei pantaloni distrutti, che vuoi che gliene importi al commissario del sangue, dell’erba e del terriccio sui suoi vestiti, si sa che le sparatorie hanno effetti collaterali, no? Per non parlare delle scarpe, un paio quasi nuovo da buttare, per questo adesso si ritrova con queste nuove, ancora strette, e le caviglie che la fanno un male cane.

Meno male che la notte è finita e si torna a casa. La baby sitter è in piedi nell’ingresso, l’aspetta torcendosi le dita delle mani. Che cos’è successo, Carlotta, non mi faccia spaventare.

Niente, signora, cioè, insomma, alla bimba piaceva proprio il giallo, altroché: l’ho trovata che si mangiava il pastello a cera giallo, meno male che l’ho fermata in tempo. Cioè, signora, un po’ se n’è mangiato, ma proprio poco, eh?


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:46

Viaggiando con il Turing Club



Eccomi di nuovo in aereo. Sono stanco, lo ammetto, e questa volta non mi hanno dato nemmeno un posto decente. Mi hanno sbattuto in fondo, stretto tra questi due. La mia vicina di sinistra è enorme e non ha fatto altro che ronzare, in questa prima ora di volo: è come se russasse, ma quello che ne esce è un fischio sottile, che non ti aspetteresti dalla sua mole cospicua. Quello a destra invece è puntuto, tutto spigoli, mi ha piantato un gomito sul fianco e non si muove.
La nuova tappa andina è finita, troppo breve per i miei gusti, ora mi spediscono in Kenya. La scorsa settimana ero in Scozia, la prossima mi tocca – vediamo – Istanbul, se non ricordo male.


Non è facile in queste condizioni, stanco come sono, soddisfare le aspettative dei miei nuovi amici. Uno pensa che sia semplice: innesti un tema, proponi uno spunto, una parola chiave, e zac, esce una storia. Eh, magari fosse così, bisogna pensare, farlo alla svelta, prima che l'idea, sorta come un fragile germoglio, svanisca nel nulla che l'ha partorita.

Però a me piace raccontare storie, è inutile negarlo, sono fatto per questo. Voglio dire, faccio tante altre cose, come tutti, o quasi, ma raccontare è quello che mi riesce meglio. Mi piacerebbe sapere che cosa sa fare questa scocciatrice alla mia sinistra. Adesso un movimento brusco dell'aereo, forse una turbolenza, l'ha portata ad appoggiarsi con tutto il suo peso sul mio fianco destro, e mica si sposta. Lei dorme, ronfa, anzi, sibila, e chi è capace di muovere il suo peso?

Forse dovrei dormire anch'io, sognare una nuova storia, ho paura di essere in ritardo con l'elaborazione, questa volta, e non mi succede spesso: che stia invecchiando, alla fin fine? Dormirò.

Ho dormito. Devo aver dormito, e anche parecchio. Un sonno vuoto, gelido, privo di storie. Sento già che perdiamo quota, mi sa tanto che atterriamo.



Il salone del ritiro bagagli dello Yomo Kenyatta è gremito come al solito. Una famiglia estrae dal nastro girevole una quantità impensabile di colli, li sistema in bilico sul vecchio carrello arrugginito, le cui rotelline cigolano e si rifiutano di muoversi tutte nella stessa direzione, all'unisono. Un tipo magrissimo, perduto in un completo marrone tre taglie troppo grande, con il collo che sembra quello di una tartaruga raggrinzita nel tubo del colletto, se ne va verso l'uscita con un borsone a fiori. Un uomo europeo in completo elegante tiene per mano una bimba bionda, molto carina, tutta educata, e le indica la gabbietta col gattino, vispo e delinquente come l'hanno lasciato all'imbarco di Zurigo. Donne somale con il velo violaceo e donne dell’altipiano con le vesti dai colori sgargianti, su tonalità acide. Hostess in uniforme azzurra o porpora, poliziotte vestite di cachi.

Un gruppo di persone dall'aria vagamente dottorale si avvicina all'area di ritiro dei bagagli voluminosi o fragili. Eccolo, dice una donna in camice bianco con gli occhialini dalla vezzosa montatura blu elettrico, mi sembra in buone condizioni. Certamente, conferma un suo collega segaligno, un po’ curvo e con una chierica canuta, il modello Vargas dell'ultima generazione, pura intelligenza artificiale, lei inserisce una matrice e lui processa una storia originale. Meno male, interviene una signora grossa e accaldata, era finito in fondo alla stiva, mezzo schiacciato tra una lavatrice che perdeva dal tubo di scarico e un telescopio snodabile molto delicato. Temevamo che si fosse guastato.

Aspetti, chiede un giovane assistente, aspetti, volete dirmi che il test di Turing che mi avete fatto somministrare durante il volo era destinato a tre – dico, tre – macchine?


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:47

Colapesce



D’accordo, l’acqua è meno fredda di quanto avesse temuto, ma solo se ci rimani un tempo ragionevole, che a dicembre può essere un quarto d’ora – e già si rasenta l’eroismo, o almeno l’esibizionismo.

Ecco, sei un esibizionista, Nicola, si dice, tanto lo sapevi fin da quando sei sceso in spiaggia che avresti fatto lo scemo. Vado a fare quattro passi, a guardare l’orizzonte, ad aspettare il tramonto sul mare. Come no. Una parte del tuo cervello lo sapeva già, che non avresti resistito alla tentazione. Tutto questo, poi, prima di vedere la svedese.

Lei è a una ventina di metri, quando Nicola scende in spiaggia. E' già sul bagnasciuga e sta finendo di sfilarsi i jeans. Che gambe lunghe, Madonnuzza bedda, con quella sottile quasi impalpabile peluria bionda che in controluce sembra il velluto sulle varcoche, e l’arco della schiena che si snoda come nu sirpenti e ti minaccia con la perdizione eterna, e quel modo che ha di sollevare le braccia in alto, per annodarsi i capelli sulla nuca? O semplicemente perché così è tutto più bello, il movimento, il paesaggio, il mondo intero?

Magari non è nemmeno svedese, forse è tedesca o americana, o invece è proprio del paese, una normanna in carne ed ossa. Questo però è già più difficile: Nicola se la ricorderebbe, una così non passa mica inosservata.

La svedese, insomma, si mette a nuotare leggiadra, incurante del gelo, scomparendo e apparendo di nuovo tra le onde plumbee e placide, gonfie e allungate come dorsi di focene, percorse da velature verdastre come olio denso, disegnate dal riflesso del sole calante.

E che fai, non ti spogli anche tu? Non le fai vedere che uomo sei? Nicola si butta dietro di lei e la segue con le sue bracciate sgraziate ma vigorose.

Però a un certo punto non la vede più.

Possibile che sia sparita? Che abbia nuotato così veloce da doppiare il promontorio? O che sia uscita in un momento in cui lui era sott’acqua oppure girato dall’altra parte? Nicola guarda verso la riva, lontana già un centinaio di metri, e non vede più i vestiti della svedese. È ovvio che in qualche momento se li sia ripresi e se ne sia andata, e a questo punto è inutile continuare a mettersi in mostra.

Il problema è che non ci sono più nemmeno i suoi, di vestiti.

È per questo che Nicola resta in acqua più del previsto, ben oltre il quarto d’ora raccomandabile. La giornata è bella e ci sono alcune famigliole che si sono riunite per passeggiare sulla riva, e anche un paio di comitive di ragazzi. Che cosa accadrebbe se Nicola uscisse dall’acqua tutto nudo? Che vergogna, non se ne parla proprio. Prova a nuotare oltre il promontorio, ma è peggio che andar di notte, l’altra spiaggia è perfino più affollata.

La giovane mamma ride e la bimba la imita, felice come una Pasqua. Che bello scherzo, rubare quei vestiti che erano sulla spiaggia. Li hanno nascosti dietro un tronco trascinato a riva dalla mareggiata della scorsa settimana, quella che ha pulito il cielo e ha reso così belle queste giornate di dicembre, tutta una festa di magenta e di cobalto, con nuvole lontane che sembrano i cornicioni scolpiti sulla facciata di Palazzo Cavarretta.

Tanto poi quelli che nuotano vengono a riprenderseli.

A notte inoltrata ci sono luci bellissime, sotto il mare, e più si va in profondità più sembrano brillare. Fantasie di smeraldo e cinabro, scie attorcigliate che sfilano come le fiancate di quel transatlantico in un film che Nicola ha visto da bambino in piazza, e le esplosioni indaco e violetta in una specie di piazza, sul fondale.

Un ragazzo molto bello, con la coda di pesce tutta squame metalliche come la moto di Ninuzzu, il cugino grande di Nicola, gli fa cenno di avvicinarsi. Ci sono delle colonne enormi, Madonnuzza bedda, tutte ricoperte di alghe e muschi morbidi, di un cilestrino latteo, e il ragazzo gli spiega che sorreggono l’isola intera e che esistono dal principio dei tempi. Vieni con me, gli dice poi, c’è una festa, attraversiamo l’isola da sotto, si fa in un attimo, vedrai che belli i fuochi d’artificio sotto l’Etna.

Più avanti c’è una sirena che nuota veloce, con l’arco flessuoso della schiena bellissimo da toglierti il fiato, che pari nu sirpenti.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:48



Tempo di uccidere. Uccidere il tempo





All'improvviso un luporso di Wiggins gli venne addosso con la violenza dei suoi tre quintali e dei canini ed unghie duri come l'acciaio temperato di prima dell'Esplosione e taglienti come le lame di Toledo, di cui Kantor aveva letto in certi vecchi racconti raccolti sul primo visore giugulare che aveva avuto in regalo, da bambino. Non ebbe molto tempo per pensare, in effetti, ma abbastanza per rivivere il terrore: il luporso, ormai lo sapeva a memoria, lo strinse in un morso all'altezza della nuca ma affondò i denti troppo su, sfondando la calotta cranica ma senza spezzargli l'osso del collo e perciò senza concedergli una morte immediata, indolore e pietosa. Intanto gli unghioni delle zampe anteriori gli avevano squarciato di nuovo la cassa toracica perforandogli un polmone e devastandogli lo stomaco. Già sapeva che sarebbe morto per il sangue che avrebbe inondato la trachea, ma la faccenda durò di nuovo troppo a lungo e ancora maledisse quella razza stolta, la mutazione dei lupi e degli orsi che aveva fatto perdere all'animale la freddezza dei primi e la sapienza dei secondi, generando mostri potentissimi ma goffi.

Dopo venti minuti si ritrovò intero, tastò il torace e si passò una mano sulla nuca. Era vivo e vegeto.

Le pareti della caverna erano in penombra, illuminate appena dalle lampadine nutrite attraverso cavi scoperti collegati a un antico generatore a litio.
La sua tribù era riunita sotto la Terza Stalattite, dove era riuscita ad accatastare una madia bavarese, una cucina da campo a raggi omega di quinta generazione e tre lettoni scompagnati: uno veniva da quel posto leggendario, Schönbrunn, tutto volute dorate e velluti azzurri, sporchi, sdruciti, eppure ancora di una bellezza nostalgica e lacerante. Un altro era un modello Bill Qualcosa che raccontava di un altro luogo della mitologia del Mondo della Rete, l'Ikea, a quanto pare un antico impero scandinavo che si era esteso nel momento del suo massimo splendore fino alla penisola iberica. Il terzo era il più buffo, era gonfio d'acqua, con uno specchio rotto sospeso al di sopra e disegni osceni accompagnati dalla pubblicità di un motel di Amsterdam, su cui Kantor tuttavia non era mai riuscito a scoprire nulla, per quanto avesse frugato nella memoria della sua biblioteca sottocutanea.


Hai portato qualcosa, gli chiese Tania. Due lepri cornute, rispose, recitando a memoria, estraendo gli animali da sotto la palandrana di zirconio. Tutte osso e poca carme, brontolò Jakob, se non avessi una gamba spezzata andrei a caccia io. Lo sai bene che tra poche ore finirai maciullato dal crollo della Quarta Stalattite, lo irrise Winnie sbadigliando e stirando quelle gambe chilometriche che facevano sbavare mezza caverna. Peccato per il brutto sfregio sul volto, ogni volta glielo procurava la matta del Settore Zeta, l'ex suora con le forbici sul naso.

Sono stanco, esclamò Kantor, stanco di questo girone infernale, di questo tormento di Sisifo.

Chi è Sisifo, papi, gli chiese sua figlia, e lui, intenerito: meglio che tu non lo sappia.

Lo sai bene, gli disse Winnie, che a parte le gambe lunghe e il panettoncino delizioso del sedere era stata ordinaria di cattedra in Storia della Fisica di Derivazione Post-termodinamica a Chisinau, la migliore università del Vecchio Mondo, almeno nell'Era del Collegamento Asintotico: lo sai bene che questa è la nostra salvezza.
Salvezza essere divorato ogni volta in quel modo orribile dal luporso inetto?
Salvezza, riprese lei con voce saggia, essere finiti in bilico sull'orlo del buco nero, proprio nel punto in cui il nostro senso del tempo risulta compromesso e rimaniamo sospesi in prossimità della forza gravitazionale che altrimenti ci lacererebbe.
Si, ma in un buco nero non c'è ossigeno, lo dimostrò perfettamente Tessa von Bülow, ottenne anche un Nobel per questo, ribatté per puro gusto di polemica Tania, scuotendo la testa.


Dimentichi l'equazione di KillingTime, la corresse Winnie con pazienza, è tutto lì il segreto. KillingTime, l'ultimo Nobel concesso, l'anno prima dello Spostamento dell'Asse Magnetico.

KillingTime, borbottò a sua volta Kantor, basta, non è più il tempo di uccidere, adesso avremmo bisogno semmai del contrario, di uccidere il tempo.
E come? Lo interruppe Winnie, come? Guai se ciò accadesse, adesso abbiamo l'unico fastidio di rivivere sempre le stesse cose, come il tuo Sisifo, ma pensa se uccidessi il tempo: la storia riprenderebbe a scorrere e finiremmo nel buco nero.
Meglio finirla una volta per tutte con quel buco nero che continuare ad essere divorato dal luporso, pensò Kantor, ma non lo disse ad alta voce.
Alcuni però sostengono che esista un modo per far scorrere il tempo a ritroso, si intromise una ragazza del Settore Medio, che aveva ascoltato avidamente. Ah, si, e chi? Le chiese Winnie scettica. Non so, fu la risposta, dicono che qualcuno ci sia riuscito sui monti della Moravia. La Moravia? Domandò Kantor, non è dalla Moravia che sono venuti fin qui quei maledetti luporsi di Wiggins?


A proposito, se riusciva ancora a leggere bene il movimento delle ombre sulla Stalattite Maestra, mancava poco all'assalto del luporso. Sentiva l'angoscia afferrarlo al petto. Già arrivava l'ex suora matta con le forbici sul naso e la Quarta Stalattite tremava minacciosa sulla testa di Jakob. Per quanto tempo ancora? Per l'eternità, probabilmente. Guardò sua figlia e decise che non ne poteva più, la bimba aveva diritto di vivere il suo tempo, sia che tutto andasse bene e potesse arrivare all'età adulta, sia che tutto finisse in pochi istanti dentro il buco nero. Meglio di questa farsa.
Sentì i passi pesanti del luporso rimbombare sotto la volta, l'urlo della bimba, un vaso che cadeva al suolo fracassandosi, si lanciò sulla pazza, le strappò le forbici dal volto, incurante del sangue che sgorgava a fiotti, e sorprese l'animale, che evidentemente non si attendeva la sua reazione. È tempo di uccidere, di uccidere il tempo, quasi gridò, sgozzando il luporso di Wiggins e interrompendo la catena degli eventi.
Ancora pochi secondi e poi avrebbe saputo che cosa li attendeva nel futuro. Finalmente.


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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 15:50

Ma le galline non volano?



Di tutte, quella fu la nostra impresa migliore. Di certo, quella di cui vado più fiero.

Immaginatevi la situazione in cui ci trovavamo. Il nostro villaggio era a pochi chilometri dalla frontiera, sulle colline. Da un lato, terrazzamenti di tè e caffè che digradavano verso il lago. Dall’altra, montagne che arrivavano facilmente a tremila metri, ricoperte di una foresta fitta popolata di gorilla dal dorso argentato ed elefanti nani. Spesso la nebbia nascondeva le vette rocciose e gli anziani raccontavano storie egualmente paurose di fantasmi che scendevano a valle di notte e di miliziani che massacravano al filo dei panga.

Il confine era ancora controllato dai militari. Anche se le cose erano migliorate, soprattutto con il vicino del nord, la tensione restava palpabile. Certe cose non si dimenticano nello spazio di una generazione, e poi ad ovest continuavano i movimenti delle truppe, gli sconfinamenti degli eserciti e dei mercenari, il via vai di gente che cercava il modo di guadagnarsi da vivere e mettere un pezzo di pane sotto i denti.

Per questo una gallina non è una cosa da nulla, qui da noi. E se la famiglia della mia housekeeper, dall’altra parte della frontiera, me ne aveva regalata una, voleva dire molto. Pazienza se poi la ragazza l’aveva lasciata oltre confine.

Vuol dire che lei è proprietario di una gallina espatriata, mi aveva detto ridendo, con gli occhi che si riducevano a due fessure, dietro le quali le pupille non smettevano di muoversi vivaci. Potrà raccontare di aver fatto un’adozione a distanza, bwana, perché lei è un bianco buono, mzuri musungu. Già, o di essere titolare di una gallina virtuale, aggiunsi io.

Hapana! Questo no, rispose lei, adontandosi un poco, questo no: la gallina non è affatto virtuale, esiste eccome.

Poi andò a preparare una zuppa di gombo.

Me ne dispiacqui un po’, non era certo mia intenzione offenderla, pensavo che stesse di più allo scherzo, ma, insomma, non è che si possa prevedere tutto. In fondo, era una storia divertente e triste allo stesso tempo, come tante.

Tu che ne dici?, chiesi quella era a una mia amica in Europa, via chat. Non lo so, rispose lei, io galline non ne ho mai avute, ho quattro merli e un gatto, in giardino, se vuoi posso chiedere a loro. Anzi, anche quattro tartarughe provvisorie, ora che ci penso. Perché non vendi la gallina e non ti metti anche tu quattro merli in giardino?

Sì, si vede che non se mai stata qui, dissi, qui al massimo ci sono i buceri in giardino, finché non viene un leopardo a cacciarli, e le tartarughe sono grandi come bufali, e i bufali sembrano carri armati.

Fu il mio falegname, mentre mi montava un’imposta della finestra che era venuta via dai cardini, a raccontarmelo, due giorni dopo. La ragazza, mi disse, ha provato davvero a portarle la gallina, ma le guardie di frontiera non l’hanno fatta passare. Volevano sequestrargliela, insomma, mangiarla loro, e lei l’ha riconsegnata alla sua famiglia. Quella gallina è sacra, per la ragazza, perché appartiene a lei, capisce?

Ci ho riflettuto a lungo, finché è capitato qui un mio amico che era venuto a trovarmi. In realtà doveva fare un servizio fotografico sui gorilla di montagna, ma ne aveva approfittato per fermarsi una settimana a casa mia.

Ne abbiamo parlato per molte sere, sorseggiando whisky al tavolo della cucina o nel giardino, sotto le stelle, che qui sono enormi e brillano come in nessun altro posto.

Abbiamo finito per ubriacarci e per ricordarci di una storia di tanto tempo fa, che non sapevamo nemmeno se fosse vera, ma insomma, alla fine quella storia ci ha spinti a mettere in piedi la nostra impresa.

Il fotografo è passato dal’altra parte, con i documenti in regola, insieme alla mia housekeeper. Si è fermato a casa della sua famiglia per un paio di giorni, ha messo a punto alcune cose e poi è tornato da me. La ragazza si è fermata dall’altra parte della frontiera.

Abbiamo lavorato ancora qualche ora, da questa parte. Tutto doveva essere fatto alla perfezione.



Be’, credo che se ne parlerà a lungo. La faccenda rischia perfino di diventare una leggenda, qui nel villaggio, e ci credo: tutti gli abitanti sono stati testimoni dell’evento miracoloso.

Le galline non volano, insegna il maestro nella piccola scuola elementare in piazza, sotto l’ombra del grande albero della febbre.

Dipende.

Quella sera la mia gallina transfrontaliera ha volato, eccome. Con una carrucola ben assicurata sotto la pancia, stretta con un elastico di gomma, perfettamente infilata nella cordicella trasparente che avevamo teso tra due pali, su un lato e sull’altro del confine, uno più in alto, di là, l’altro più in basso, di qua. Via, velocissima, a dieci metri di altezza, passando sulle teste delle guardie di frontiera, ma anche, metaforicamente, sotto il loro naso, velocissima, velocissima. Starnazzava un poco, per la paura, e del resto è vero che le galline di solito non volano.

Tranne questa.

Karibu, my chicken, benvenuta a casa.

La ragazza, dall’altra parte, rideva con gli occhi ancora più stretti.


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Messaggio Da Guya Ven 19 Apr 2013, 16:18

mi mancavano i tuoi racconti, Vargas Le vite di Vargas 780668378
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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 16:23

Si, ma, aiuto, non riesco a ingrandirli!
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Messaggio Da Guya Ven 19 Apr 2013, 16:45

Vargas ha scritto:Si, ma, aiuto, non riesco a ingrandirli!

evidenzia tutto il testo e poi premi la doppia A che si trova a sinistra della tabella colori: lì troverai le opzioni che vanno dal piccolo all'enorme

Oppure fai a mano: inizio testo apri la parentesi quadra [ con scritto all'interno size=16 e poi chiudila - il numero dopo l'uguale è un esempio alla fine del testo rimetti le due parentesi quadre con questa stringa ---> /size

[size=16 ] testo [/size ] (ho dato spazio altrimenti non saresti riuscito a vederla)
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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 17:14

Ho fatto entrambe le cose, niente.
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Messaggio Da Guya Ven 19 Apr 2013, 17:19

Vargas ha scritto:Il K’ari k’ari



Un giorno di primavera – era ottobre inoltrato – ci ritrovammo io e i miei amici Ingrid e Manuel a Batallas, non lontano da Pucarani, dove avevamo lasciato la nostra macchina in panne. Non lontano è un eufemismo, saranno stati dieci chilometri interminabili, lungo una carrozzabile in quel momento deserta, con il sole che ci martellava in testa, spietato e perpendicolare. Che cosa credevate, ci diceva Ingrid, furiosa, siamo a quattromila metri, non è mica una passeggiata, e allora Manuel, che era nato a Potosí, proprio ai piedi del Cerro Rico, aveva cominciato a raccontarci una storia di transumanze a piedi sull’altopiano, per dimostrarci che a lui quell’altitudine faceva un baffo, cercando anche di impressionarci con il ritratto di un k’ari k’ari che gli aveva quasi succhiato via tutto il grasso del corpo, una notte all’addiaccio, e all’improvviso senza apparente logicità disse che non lontano da lì, sulle rive del Titicaca, viveva un suo conoscente o mezzo parente, come sono tutti da quelle parti, che era capace di toglierti la sensazione di stanchezza con l’ipnosi. In realtà più che di stanchezza il suo amico – che era un medico kallawaya – parlava di samay, qualcosa di simile al susto, in castigliano, a una sensazione di paura e smarrimento che colpiva il kamaq-sonqo, ossia lo spirito, e paralizzava le membra delle persone. Vuoi dire perciò che con l’ipnosi questo tizio ti scioglie gli arti e ti fa camminare spedito a quattromila metri senza sentire né la stanchezza né lo scacco del sole sul cranio?, gli chiese Ingrid, scettica e beffarda, e Manuel: se la metti su questo piano magari la risposta è no, perché mi sa che non hai capito niente, qui parliamo di interazione tra la pachamama e lo spirito dell’uomo. Lei lo guardò con un sorriso stirato e messo di traverso che tuttavia non riusciva a deturpare la sua bellezza nordica, forse troppo slavata per il luogo e le circostanze, ma molto apprezzata dal mio compare potosino: ci avrei giurato che avresti tirato fuori la pachamama, gli disse, mi chiedevo quante ore sarebbero passate prima che l’avresti menzionata. Poi, con fare di sfida: dai, andiamo dal tuo amico curandero, vediamo che cosa riesce a fare. Io cercai di fermarli, dissi loro che la deviazione ci avrebbe fatto perdere una giornata di cammino, che eravamo diretti a Copacabana e avevamo la macchina in panne già troppo lontana dalla Ruta Nacional Número 2. La realtà era che un’inquietudine immotivata epperò violenta mi aveva afferrato da qualche parte le viscere, scavandomi come una galleria di vuoto pneumatico dal quale il sangue gocciava denso, rallentando la sua corsa. Niente da fare, i due, in una gara tra teste dure di due emisferi lontani, erano ormai decisi a portare la contesa fino alle ultime conseguenze. Che l’ipnosi abbia luogo, passi quel che passi, era il loro atteggiamento. Un sucha nero passò volando sulle nostre teste, presago, con le ali che sembravano due mani a dita divaricate, sfrangiate, e la cresta bigia inastata, aggressiva.



Scendemmo verso il lago, ben presto con gli scarponi che affondavano in una mota rossiccia e le canne di totora che ci sferzavano i polpacci. Manuel non la smetteva di parlare, magnificava le virtù della muña muña, un’erba medica che curava l’asma, la bronchite e l’insonnia, e Ingrid giù a martellarlo che in fondo la camomilla fa lo stesso e che quegli arbusti violetti a lei sembravano lavanda dell’Occitania ma con un profumo di menta, meno piacevole e inutile per conservare la biancheria lavata di fresco. Manuel non ribatteva, se la rideva sotto i baffi che non aveva, e io mi guardavo attorno con la speranza assurda che incrociassimo qualcuno disposto a offrirci un passaggio per arrivare a Batallas, dove avremmo cercato un meccanico per tornare a prendere la macchina. Finalmente arrivammo quasi rotoloni alla riva del lago, la consueta coltellata di cobalto sull’assoluto dei gialli e delle terre prese direttamente dalla tavolozza, senza impastare, con uno sfrego bianco lungo la Cordillera Real, come se un apu sbronzo di chicha avesse perso la sua dentiera a causa di un morso troppo violento e la chiostra di molari e premolari fosse rimasta infissa lungo il cornicione minerale. Zigzagando tra le polle d’acqua e gli scogli di terra friabile ci dirigemmo verso una casupola in adobe, con una sola piccola finestra in direzione del lago e una porta bassa sul lato opposto. Il kallawaya, nemmeno l’avessimo tecnologicamente evocato con uno squillo del cellulare, ci aspettava sull’uscio con le braccia penzoloni ai due lati del corpo tondo. Mai ne vidi uno a braccia conserte, dicevano che l’incrocio di qualsiasi arto avrebbe scontentato la Pachamama e offeso il padre Inti e i grandi apu, Illimani, Sajama, Wayna Potosí, Mururata e Condoriri. Io rimasi a guardare la risacca quasi priva di onde, se non quelle minuscole che provocavo lanciando dei ciottoli forse in un modo sconveniente verso qualcuna delle divinità, mentre Manuel assisteva al consulto di Ingrid da parte del medico ambulante. Ogni tanto mi affacciavo e li vedevo seri seri, lei seduta, loro in piedi: non capivo nella penombra l’età dell’anfitrione, il cui volto liscio, dalle guance gonfie ma tese come un pallone da calcio o la pelle di un tamburo, sembrava un monile di bronzo, sul quale le espressioni venivano disegnate dai riflessi del sole al tramonto piuttosto che dai movimenti dei muscoli mimici, apparentemente nulli. Un guizzo ogni tanto, come una fiamma di candela sulla pancia di una brocca etrusca, sembrava ricamare un ghigno o una smorfia di approvazione. Non c’erano pendoli né altre stupidaggini da romanzetto d’appendice: solo il passaggio a tratti delle mani, le dita che accarezzavano uno spazio vuoto a qualche centimetro dalla testa della ragazza, e magari parole bisbigliate che tuttavia a me, di fuori, non arrivavano.



La quarta volta che pensai di sporgermi dall’uscio della casetta mi resi conto che mi ero appisolato. Mi trovavo seduto su una roccia a pochi centimetri dal lago e in alto le stelle erano capocchie di chiodi enormi, mostruose, grandi e pulite come non le avevo più viste da anni – l’ultima volta forse nei campi di tè tra il Monte Kipipiri e il Lago Elmenteita, sul bordo della Rift Valley, ma era quasi un’altra vita. Ebbi un brivido, anche se ero ben coperto, e mi rialzai di colpo, o credetti di farlo, perché una forza ottusa mi mantenne incollato a terra, come se le mie cosce fossero diventate gigantesche e troppo pesanti, o se un blocco di magnetite mi costringesse a far la parte di una calamita. Il k’ari k’ari, pensai incongruamente, quasi avvertendo il soffio gelido dell’animale o uomo misterioso che percorre di notte l’altipiano suggendo il grasso dal corpo delle sue vittime, lasciandole vuote crisalidi, come le avrebbero poi ritrovate il mattino seguente i pastori: una povera pupa vuota, di pergamena trasparente, priva di vita e di peso, pronta a essere soffiata via dal vento della cordigliera. Ma non c’era nessun k’ari k’ari né alcun puma, era solo la mia immaginazione. Con uno sforzo sovrumano mi rimisi in piedi, barcollando come ebbro: eppure non sono io ad essere stato ipnotizzato, mi dissi, o invece sì? E se il kallawaya lo avesse fatto anche a me, dopo di Ingrid, e io me ne fossi semplicemente dimenticato, proprio per effetto dell’ipnosi ? In fondo è hypnos, è il sonno, non è così? Percorsi con dolorosa lentezza i venti metri che mi separavano dalla casupola, che trovai vuota. Il riflesso della luna sul lago entrava nell’unica stanza e bagnava il pavimento di terra battuta, togliendomi ogni dubbio sull’assenza dei miei amici e del medico. Provai a bagnarmi la fronte, ma l’acqua del Titicaca era un metallo gelido. Dove vado, adesso, mi dissi, e: maledetta la discussione tra quei due, che si gettino finalmente l’uno tra le braccia dell’altra e la facciano finita, che trovino la linea del diametro che taglia in due il cerchio, senza percorrere più la circonferenza inseguendosi all’infinito, senza dover indulgere sempre in battaglie futili: battaglie, batallas, mi sovvenne, e cercai di orientarmi per capire dove fosse il villaggio di Batallas. Lo scampanio di un gregge di capre mi guidò verso la strada sterrata e pensai con lucidità ritrovata che seguendo l’orlo del lago sarei arrivato forse alle propaggini del centro abitato. Se mi vede qualcuno penserà che io sia un pazzo o forse proprio il k’ari kari, e ci manca solo d’essere linciato qui in una brughiera sperduta, per colpa d’una scommessa d’altri sul potere dell’ipnosi. In quel momento vidi venirmi incontro in una nebbia di latte fuso un essere mostruoso, un corpo colossale con la testa cubica o magari cilindrica e due corna diritte, alte come torri. Non riuscii a togliermi dalla sua traiettoria, il mio corpo era diventato di piombo, non avrei mosso un muscolo nemmeno per sfuggire a un plotone d’esecuzione. Un muggito metallico mi investì, con la potenza di cento trombe. Un tipo dal faccione gioviale, con un sorriso perduto, mi chiamò dal cuore del gigante, dalla cabina del camion: ¿Se encuentra bien, señor? ¿Necesita un aventón? Mi accompagnò fino a Batallas, dove rimasi in una pensione per qualche giorno, sdraiato a letto nell’immobilità assoluta, prima di riuscire a rimettermi in cammino.
Una settimana dopo, guardando il lago dalla terrazza di un ristorante a Copacabana, Ingrid e Manuel mi confermarono che l’ipnosi aveva funzionato e che non avevano sentito più nessuna stanchezza. Avevano fatto molta attività fisica in quei giorni, e soprattutto in quelle notti, aggiunsero strizzandosi l’occhio e ridacchiando allusivi. L’unica cosa che il kallawaya si era dimenticato di spiegare, disse poi Ingrid come per scusarsi, erano gli effetti collaterali: pare che tutta la stanchezza che l’ipnosi ti tira via dal corpo entra per forza in quello di un altro. È come un k’ari k’ari al contrario, concluse scuotendo la bella testa bionda.


così ti va bene, come dimensione ?
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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 17:26

Si. Grazie!
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Messaggio Da Guya Ven 19 Apr 2013, 17:34

Vargas ha scritto:Si. Grazie!

ottimo ! prova a fare quote del mio post e copia tutto senza i due quote iniziali. Questi (ho tolto le due parentesi quadre a chiusura per fartelo visualizzare) --> [quote="Guya"[quote="Vargas"
Poi clicca su modifica del primo post ed incolla. Prima di dare l'invio fai l'anteprima Le vite di Vargas 780668378
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Messaggio Da Guya Ven 19 Apr 2013, 17:36

sennò, dammi due minuti di tempo che te lo copio e incollo su documento word e te lo invio via mail
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Messaggio Da cireno Ven 19 Apr 2013, 18:58

Vargas, carissimo amico, ho letto i primi cinque post-racconti che, al solito, sono bellissimi.
Una cosa: il primo racconto inizia con "un giorno di primavera-era ottobre inoltrato".....e uno che legge e non afferra immediatamente che nel continente dove i fatti si svolgono, la primavera inizia al rovescio che non da noi, rimane un po' perplesso. come la primavera in ottobre?
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Messaggio Da Vargas Ven 19 Apr 2013, 20:52

È così, Cireno, amico mio: spero che quel lettore avverta uno spaesamento, si senta forse sconcertato, e prosegua la lettura per scoprire altro.
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Messaggio Da Admin Sab 20 Apr 2013, 22:14

Guya ha scritto:Oppure fai a mano: inizio testo apri la parentesi quadra [ con scritto all'interno size=16 e poi chiudila - il numero dopo l'uguale è un esempio alla fine del testo rimetti le due parentesi quadre con questa stringa ---> /size

[size=16 ] testo [/size ] (ho dato spazio altrimenti non saresti riuscito a vederla)[/size][/color]
Scusate il disturbo. Piccola nota tecnica. Per scrivere parti di messaggio con i caratteri di formattazione in chiaro, come era nelle intenzioni di Guya, non c'è bisogno di quegli espedienti. Basta evidenziare il testo e clikkare la casellina code <>
Esempio:
Codice:
[size=16]testo[/size]
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Messaggio Da Guya Sab 20 Apr 2013, 23:27

Arzak ha scritto:
Scusate il disturbo. Piccola nota tecnica. Per scrivere parti di messaggio con i caratteri di formattazione in chiaro, come era nelle intenzioni di Guya, non c'è bisogno di quegli espedienti. Basta evidenziare il testo e clikkare la casellina code <>
Esempio:
Codice:
[size=16]testo[/size]

grazie Arzak, non lo sapevo Le vite di Vargas 780668378
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:45

Nakuru per due





In fondo è stato bello, le dice guardando davanti, evitando di girarsi dalla sua parte. Una magnifica avventura. Peccato che stia per finire, ma è così, no, le cose belle durano poco - non è nemmeno vero: durano quanto devono durare, il giusto.
Ma già, tu te ne stai zitta, e lo capisco.




Sono arrivati sulle sponde del lago una settimana fa.
È lei che insiste, usciamo dalla pista, dai, avviciniamoci alla riva. L'aria è secca, il sole sbriciola la terra rossa, disegna un opus reticulatum sul cammino, sugge via dalle gramigne la linfa, lasciando gli steli come scheletri di paglia che crepitano al minimo soffio del vento, o al passaggio della Range Rover. I termitai restano eretti, silenziosi, come idoli estranei al dramma che si ripete ogni giorno e soprattutto ogni notte, lì attorno.


Il lago è una lama piatta, a tratti appena increspata da minuscole onde che si muovono in orizzontale. Gruppi di fenicotteri lo punteggiano sulla riva opposta, come una varicella rosa. Pellicani che planano pigramente, anatre, aironi, spatole, una coppia di marabù sui rami spogli di un'acacia, ingobbiti, appesi al loro becco massiccio e al gozzo orrendo, con quella palandrana bianconera che penzola sporca sui fianchi.
E gli ippopotami, falsamente rassicuranti, in acqua fino alle frogie e agli occhietti rossi e cisposi, o sul fango della riva, trotterellando sulle gambette tozze. Loro sanno bene, al sicuro nell'abitacolo della jeep, che i pachidermi arrivano facilmente a fare quaranta all'ora, con quel passo goffo, e che se ti trovassi sul loro cammino, occludendogli senza volere la via verso il lago, saresti spacciato, carne già morta, fossi pure Usain Bolt.
E i leoni, naturalmente, i leoni sono in agguato nell'erba alta, dove si vedono le macchie ocra degli impala e degli alcelafi e i camicioni tesi sui ventri delle zebre. Bisognerà pazientare un po', starsene fermi con il binocolo e il teleobiettivo, e prima o poi usciranno allo scoperto e potranno ammirarli.


Insomma, lei insiste, e allora lui sterza in un punto sicuro, dove la pista descrive uno slargo naturale e poi segue il declivio verso la riva, dolcemente. Due solchi come binari ben marcati indicano che la stessa manovra l'hanno fatta già tanti altri, prima di loro. E poi l'aria è secca, il terreno sembra bello asciutto. Le impronte degli pneumatici muoiono verso la spiaggia, noi naturalmente ci fermiamo prima, è troppo rischioso arrivare sulla sabbia, non ne conosciamo la consistenza.

Percorrono una cinquantina di metri a venti all'ora. Sulle loro teste una famiglia di cercopitechi passa tra i rami delle acacie spinose e degli alberi della febbre. Poi la macchina si abbassa di colpo, pochi centimetri, ma il contraccolpo si sente. Che è successo, dice lei. Non lo so, non preoccuparti. Accelera ma le ruote girano a vuoto, ci dev'essere ancora uno strato di fango umido, il problema è che i solchi hanno proprio le dimensioni delle ruote, ci siamo finiti dentro. Oddio, e ora? Tranquilla, ne usciamo fuori. Invece immagina già il risultato: accelera e le ruote girano a vuoto, il motore ruggisce con un tono di disperazione, il fuoristrada resta immobile. Lei gli si appende al braccio e grida isterica, trasmettendogli parte della sua ansia, che più tardi lui giudicherà immotivata. Pensano ai leoni e agli altri animali là fuori, si sentono inscatolati, bloccati in quei pochi metri cubici, che li proteggono ma sono anche già una prigione. E ora? Non lo so, fammi ragionare, bisognerebbe mettere delle assi di legno sotto le ruote, ma dove le trovo, qui, quattro della giusta forma e dimensione, e come faccio a sistemarle, da solo, con quelle bestie che ci mettono pochi secondi a percorre le decine di metri che ci separano da loro? Poi forse non sarebbe nemmeno sufficiente, temo che occorra mettere un cavo nel gancio del paraurti e farlo passare attorno a un perno robusto, un tronco, una roccia. Non se ne parla.

Apre prudentemente una portiera, si sporge appena. La pista è qualche decina di metri più su, nascosta dai cespugli di rovi, dalle acacie tortilis, dalle spine fischianti. Ecco, si vede una macchia colorata, un'auto che passa lentamente. Grida, Help, ma non lo sentono. Lei si unisce, ehi, ehi, help, here! down here! Help! Si sgolano per un'ora, finché la gola secca fa male come se sanguinasse, ma le quattro o cinque macchine che credono di aver intravisto non si sono fermate. Probabilmente siamo sottovento, riflette.

Bevono un po' d'acqua, hanno solo due borracce e una scatola di biscotti, ma si spera che questa storia duri poche ore.

Non dovrei nemmeno essere qui, si lamenta lei, che cosa dico a mio marito? Dipende, che cosa sa, lui? Dovrei essere a un congresso allo Stanley di Nairobi. Be', che c'è di male, una gita a Nakuru non è un delitto. Non con te, ride lei, nervosa. Comunque qui non c'è linea per i cellulari, non ti serve nemmeno mentire, e nessuno ci ha visti, nessuno sa che sei con me, non è così?

Ne riparliamo domani? Domani? Certo, amore mio, domani: sta scendendo il tramonto, veloce come sempre all'equatore, ormai per oggi non possiamo fare più nulla. Magari al gate del parco si accorgono che una delle macchine registrate in entrata non risulta uscita e vengono a cercarci. Dici? No. Non credo che lo faranno, e sorride. E allora? E allora, non ci può vedere nessuno e abbiamo molte ore da impiegare, perciò vieni qua, diamoci da fare. Questa volta ride anche lei, mordendosi un labbro maliziosa.



I leoni sono venuti tre volte, una perfino di giorno, due femmine curiose più che aggressive, ma l'ampiezza delle loro zampe adagiate sul vetro del finestrino fa paura lo stesso. Anche se la cosa peggiore è forse il grido stridulo della iena, accompagnato dallo stridore dei suoi denti che tritano fino al midollo le ossa di una zebra, dopo aver estratto una coscia lasciata a frollare sotto terra, quasi in acqua.
Adesso il solco degli pneumatici si è seccato del tutto. Che fortuna che non abbia mai piovuto, se no sarebbe perduto.


Mette in moto con qualche timore, come se stesse puntando tutto su un solo numero, alla roulette dello Stanley. Il motore ruggisce, le ruote davanti slittano due, tre volte, poi si afferrano al terreno e lentamente, troppo lentamente, si muovono all'indietro. È fatta, basta uscire dal buco, nemmeno mezzo metro, poi si va veloci verso la pista e la salvezza.

Non è stata una gita così brutta, soprattutto le prime due notti, non ti sembra, amore mio?

Lei non risponde, è ovvio, e lui la guarda perfino con tenerezza. In fondo è grazie a lei che è sopravvissuto una settimana.

C'è dunque pietà nel suo cuore quando apre la portiera del viaggiatore e la lascia scivolare giù verso il lago. Lei rotola sull'altro fianco, mostrando per un momento il segno sulla guancia scarnificata fino all'osso, uno dei punti dove la carne era più morbida.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:51

Il monile di Sintasha



È un monile fantastico, dice Jurij Vasil’evic. Dici?, risponde Alekseia Alexandrova, A me ha dato un po’ d’inquietudine, non hai notato niente? A che cosa ti riferisci? La figura al centro, dalla quale poi si dipartono tutti gli altri elementi decorativi: non ti sembra una svastica? Va bene, Alekseia Alexandrova, ma questo è un gioiello antichissimo, non devi pensare a quello che è successo nel Ventesimo secolo. E poi la nostra è una svastica strana, infilata in un labirinto.

Da quant’è che siamo in viaggio?, chiede Aman, facendosi schermo con la mano sulla fronte senza allentare la presa sulla barra del timone. Non lo so, saranno giorni, il fatto è che non riesco a vedere le stelle e c’è questa nebbia permanente che nasconde anche il sole. Che cosa stai facendo, Alekseia Alexandrova, ancora a pensare al monile?

No, sto guardando queste monete svizzere, c’è ancora qualcosa che non mi torna. Soprattutto questa del 1908.

Pensa piuttosto alla rotta, Alekseia Alexandrova, stiamo andando bene? Credo di sì, risponde la ragazza, passandosi tra le dita lunghissime il panno infeltrito con la traccia ancora ben visibile dell’arcipelago, credo di sì. Che cosa è successo nel 1908? Non lo so, ride Dmitrij, con la pappagorgia sotto il mento che trema tutta, le prime olimpiadi di Londra? No, Alekseia Alexandrova sembra ignorare qualsiasi traccia di ironia, no, sto pensando a qualcosa che ci riguarda e che suona nella mia testa come un campanello.

Ve la suono io una campana, irrompe Ekaterina Pavlovna da sottocoperta, venite a mangiare qualcosa, ci pensiamo dopo.

Il piccolo museo di Sintashta è un cubo di metallo e vetro illuminato, non lontano dai tumuli conici di terra e dai circoli incisi nella roccia.

Dove lo avete trovato?, dice il direttore del museo, professor Vladmir Pavlovic Petrov, accarezzando la catena dell’orologio da panciotto come se stesse giocherellando con la punta della sua stessa barba, mentre con l’altra mano soppesa il monile di bronzo.

È una lunga storia, risponde Jurij Vasil’evic, diciamo che è riemerso dal passato, in una scatola di pastiglie. Ma il fatto è che si tratta di un passato al quale nessuno di noi ha preso parte, e perciò brancoliamo nel buio. Letteralmente, pensa poi fra sé, ricordandosi delle nebbie straordinarie che li hanno accompagnati sul Mar Caspio, dove è rimasto il solo Dmitrij, a guardia della barca ormeggiata in una caletta nascosta.

Voi siete liberi di non crederci, ma questo coso potrebbe avere più di tremila anni, dice infine il direttore del museo, guidandoli attraverso corridoi illuminati pieni di teche che conservano alcune raffigurazioni della svastica e altri monili, statuette e recipienti di terracotta.

Il gruppetto esce all’aperto, sotto una fitta pioggia, e raggiunge un gigantesco tumulo, alto decine di metri. Una serie di gradini di pietra, consunti e sdrucciolevoli, li porta all’imbocco di un corridoio oscuro, che sa di muffa e terriccio smosso. In silenzio, Petrov li guida fino a una celletta grande appena un paio di metri per due. Sul pavimento, mezzo metro più in basso, si indovinano otto scheletri di quadrupedi, con la cassa toracica che pare enorme rispetto alle ossa delle zampe e un muso oblungo che culmina in un naso che unisce il comico al macabro, come un piccolo corno o un’appendice di pinocchio.

Cavalli, spiega Petrov, siete dinanzi alla più antica prova dell’addomesticazione di cavalli al mondo. C’è una punta di orgoglio nel suo tono altrimenti pacato e quasi trattenuto. E adesso, guardate con più attenzione: non vi sembra che la disposizione delle ossa ripeta esattamente il disegno del vostro monile?

Jurij Vasil’evic, Alekseia Alexandrova, Aman ed Ekaterina Pavlovna restano a bocca aperta. È così, non c’è il minimo dubbio. Jurij Vasil’evic afferra l’oggetto, lo confronta con il disegno della tomba e sbianca.

Sul fango, lungo il viottolo che porta al’insenatura nascosta, luccicano tracce di ruote sottili, o forse degli sci, scie parallele come binari in miniatura. Una mezza dozzina nella stessa direzione, un po’ ondeggianti, tant’è che ogni tanto si sovrappongono e si divaricano come qualcuno si fosse divertito a disegnare le spire di un serpente con un mazzo di pennini stretti in pugno.

I tre amici – Alekseia Alexandrova è rimasta a parlare con Petrov – percorrono l’ultimo tratta di corsa, pervasi da un presentimento oscuro. Mucchi di neve impastata al terriccio segnano i bordi della strada e qua e là i solchi delle ruote, se sono ruote, hanno spaccato lastre di ghiaccio sottile, producendo coltelli dalla lame effimere quanto letali.

La barca è sottosopra, le cabine sono state rovistate e sventrate, la barra del timone giace spezzata in due in coperta, le vele lacere in più punti. Il corpo di Dmitrij è già freddo, il sangue uscito copioso dalla gola squarciata si è rappreso in continenti di grumo nerastro, sulla mappa del piancito di cedro.

Chi si è macchiato dell’atroce gesto non ha neanche avuto la prudenza di far sparire il coltello di bronzo, dalla lama consunta ma ancora tagliente, e con l’impugnatura istoriata da un motivo serpentiforme, o forse composto da un ripetersi di svastiche.

Quando Alekseia ritorna, due giorni dopo, la barca è stata riparata e il corpo di Dmitrij ha ricevuto una sepoltura degna più del mare aperto che di questo, enorme ma pur sempre chiuso, che segna il passaggio tra due continenti. Gli altri tre l’accolgono con il muso lungo e con poca voglia di parlare. È una zoccola, pensa senza mezzi termini Ekaterina Pavlovna. Perché ogni volta così?, si chiede Jurij Vasil’evic, che da anni muore dietro le sue ossa lunghe, tutte, quelle delle gambe come quelle delle dita affusolate, le vertebre del collo e gli zigomi alti che le allungano l’ovale del volto. Perché con tutti, anche con un vecchio barilotto che dirige un museo in Asia centrale? È una ninfomane o che cosa?

Alekseia Alexandrova resta seduta a prua, immersa per tutto il tempo nella lettura di un fascicolo sgualcito e ingiallito. Gli altri non le parlano. Anche a cena, in silenzio, la ragazza sfoglia il quaderno.

Ecco, lo sapevo, esclama infine tre giorni dopo, eccitata e vivace di nuovo, come per incanto. È tutto scritto qui. Ma si può sapere che cos’è, sbotta Ekaterina Pavlovna. L’ho preso dall’appartamento di Vladimir Pavlovic, risponde lei senza arrossire, ovviamente l’ho portato via di nascosto, sapevo che c’era qualcosa, e sapevo che le monete svizzere c’entravano in qualche modo.

Adesso ci spieghi o ti buttiamo in acqua, ringhia Aman, mollando di colpo il timone. Calma, calma: dunque, ascoltate, nel 1908 c’è stata un’esplosione misteriosa in Siberia. Nessuno sa che cosa sia accaduto, sono sorte leggende di ogni tipo, chi ha detto che i russi avevano prodotto l’atomica quarant’anni prima degli americani, chi ha parlato di extraterrestri. L’ipotesi più accreditata si riferisce a un asteroide simile a quello che provocò l’estinzione dei dinosauri, anche se di proporzioni ridotte.

Sì, sì, qualcosa so, bofonchia Jurij Vasil’evic, che in fondo è invidioso dell’amica, non solo così bella ma anche il tipo che sa sempre trovare la spiegazione di tutto prima degli altri.

Aspetta, Jurij, ne sono certa, ma quello che né tu né io né altri potevano immaginare è che uno scienziato di Basilea che lavorava ad alcune ricerche archeologiche nel distretto di Chelyabinsk, quello di Sintashta, era presente sul posto e ha lasciato un rapporto dettagliato, prima di morire per gli effetti delle radiazioni. Il documento – Alekseia Alexandrova sventola i fogli – è rimasto secretato per tutti questi decenni, anche perché la scienza ufficiale, zarista, sovietica e ora russa, non vi ha mai dato alcun valore. E ci credo: qui si parla di un corridoio spaziotemporale che si sarebbe aperto a causa dell’esplosione e di misteriose genti che ne sarebbero venute fuori su carri trainati da cavallo.

Voi sapete naturalmente dell’arma segreta degli Ittiti, continua Alekseia Alexandrova quasi in preda all’orgasmo – il carro con i cavalli, che diede loro un potere militare assoluto per decenni, prima che gli egizi riuscissero a copiarli? Gli Ittiti venivano da nord-est, prima di stabilirsi tra la Turchia e la Siria, e sembra che l’origine del carro trainato sai cavalli risalga all’area di Sintasha, giusto nell’era del bronzo. E anche la svastica è scesa fino all’Asia Minore, per poi riemergere nelle tombe etrusche, portatavi forse dai troiani, ma questa è un’altra storia.

Lo scienziato dice che il popolo di Sintasha aveva altre armi segrete, ma che non le ha mai usate, non si sa perché, e che lui – lo svizzero – sapeva dove rintracciarle, e ha lasciato una mappa insieme al monile e a pochi spiccioli che si era portato con sé da Basilea. Ma poi non è sopravvissuto alle conseguenze dell’esplosione e non ha mai usato la mappa.

Ecco che cosa cercavano i misteriosi aggressori di Dmitrij, ecco perché c’erano le tracce di carri molto stretti, esclama Jurij Vasil’evic, che sa di amarla, quella ragazza.

Andiamo, aggiunge poi, dobbiamo arrivare alle isole della mappa, prima che gli ittiti ci raggiungano.

Non sono ittiti, Jurij Vasil’evic. Non importa, andiamo.

Se non ci fosse questa nebbia, quest’oscurità metallica, forse saremmo già arrivati, commenta Aman.

Ce la faremo, lo tranquillizza Jurij Vasil’evic, adesso lo dobbiamo anche a Dmitrij.

Ma tu lo fai per lei, non è così? Ribatte Aman sorridendo, e fa un cenno con la barra del timone verso la bella Alekseia.

Se non la smetti ti getto fuori bordo, lo minaccia Jurij Vasil’evic.

Se non venite a pranzare getto fuori bordo la zuppa, grida da sottocoperta Ekaterina Pavlovna.

Ma che cos’è questo?

Al grido di Alekseia Alexandrova sono accorsi tutti a prua.

La nebbia è ancora fitta, ma non c’è molto da indovinare. Un muro invalicabile, alto centinaia di metri, liscio e rilucente come metallo, si para dinanzi all’imbarcazione e prosegue a babordo e a tribordo, apparentemente per chilometri.

È impossibile andare avanti.

Ma che razza di magia è questa, che follia?

È come…
È come essere imprigionati dentro una scatolina di latta, di quella delle pastiglie di gemme di pino.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:52

Dark morning



La mia sveglia parlava troppo.

Ogni mattina mi toccava lo stesso. Zittirla con le spicce e girarmi dall’altra parte. È una cosa che non fa mai piacere, insomma, non è che si nasca con la vocazione. Anzi, di solito lo si fa controvoglia, ma qualcuno certi lavori sporchi deve pur farli, eccetera, la faccenda è nota.

Quella sveglia però esagerava. Faceva i nomi, si dilungava sugli episodi, era arrivata perfino a coinvolgere degli insospettabili: la caffettiera, rivelò, fuma come un turco, quando tu non ci sei, e il tostapane balla il tip tap con il microonde, fanno uscire scemi tutti quanti, meno il frigorifero: si sa, quello lì è un pezzo di ghiaccio, se non l’ha sciolto nemmeno quella gran sventola della televisione flat screen, quella gnocca taglia trentotto che sfila ogni giorno con la sua linea elegante da morire, be’, non riuscirà a riscaldarlo nessuno.

Non è stato piacevole. Lo spremiagrumi, l’unico di cui posso fidarmi per certi servizi sporchi, l’ha spremuta a dovere, ma non c’è stato niente da fare.

Ho dovuto farla tacere per sempre.

Vediamo se la prossima saprà stare al posto suo.

Che poi è il comodino.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:53

Faber est suae quisque fortunae



Una sventola da paura, fratelli. L’ho beccata su facebook, mi sono gettato subito a capofitto nella chat, l’ho guidata come una macchinina telecomandata o come una bambola, tú me haces girar, tú me haces girar como si fuera una muñeca, era una canzone dei tempi di mia nonna, credo.

Insomma, questa mi sembra una tipa a posto, io non sono proprio uno sprovveduto e ho alle spalle una discreta carriera di conquistador in rete, credetemi, per farmi fesso ci vuole un vero maestro. Ho i miei sistemi, non sperate che ve li sveli. Vi basterà sapere che ho incrociato informazioni diverse su vari social network, ho assunto più di un’identità per avere riscontri inequivocabili con chat parallele, ho anche contattato alcuni amici fidati che avevano già avuto modo di avvicinarla.

Insomma, me la sono cucinata come si deve, e adesso è il momento di raccogliere i frutti.

Auguratemi buona fortuna, anche se, modestamente, non ne ho bisogno. Faber est suae quisque fortunae, ognuno è artefice della propria sorte, questo lo ha scritto Sallustio. Che? Non pensavate che un energumeno come me sapesse il latino, dite la verità? Vi ho stupito, lo so, sono un metro e novantacinque, peso centodieci chili, spacco le facce per lavoro e ogni tanto rileggo i classici. E allora? Non vi sta bene? Venite a dirmelo di persona.

Oggi però non vado mica a spaccare nessuna faccia, non temete. Magari, se mi va bene, spaccherei qualcos’altro, ma non mi fate essere volgare.

Vado all’appuntamento con la tipa.



Cerebro y Nocaut, un bel nickname. Sei tu?

Miguel si volta, ci mette qualche secondo a spostare il suo metro e novantacinque e i suoi centodieci chili, ma lo fa volentieri. La tipa sembra avere una bella voce profonda, come piacciono a lui. La cosa promette bene.

Flor de Durazno, vero?

Sì, sono io.

La ragazza è una ragazza, su questo non ci piove, ancora una volta i controlli incrociati che Miguel ha fatto in rete sono stati corretti, però c’è qualcosa che non quadra: questa si presenta all’appuntamento tutta intabarrata in un cappottone lungo, con il bavero alzato, occhiali scuri e un cappuccio di lana che le copre gran parte del volto.

Miguel non fa nemmeno in tempo a elaborare l’informazione visiva. Fior di pesco o come diavolo si chiama gli spara un hook al fegato, ben mirato e calcolato, che gli toglie il respiro per un istante fatale, perché non passa nemmeno una frazione di secondo che la ragazza se ne viene con un jab alla mandibola.

Miguel crolla di schianto, perde i sensi, questa volta il nocaut tocca a lui, ma il brutto è che non siamo sul ring e la ragazza approfitta della situazione per riempirlo di calci con un paio di stivaletti dal tacco a spillo e la punta pronunciata – questi davvero sexy, non c’è dubbio, ma lui non può accorgersene. Si accorgerà delle costole fratturate, della mandibola spezzata e di altri danni minori quando i medici del pronto soccorso, chiamati da una vecchina che portava a spasso il cane, avranno terminato di predisporre la prognosi.



Sei in ritardo, Chris, si va al peso tra dieci minuti, si può sapere dove diavolo ti eri cacciata?

Mi spiace, boss. Ascolta, dobbiamo rinviare il combattimento.

Sei pazza o che? Ci sono diecimila spettatori già seduti, metti in palio il titolo mondiale dei welter leggeri e hai la vittoria in tasca.

Non posso, mi sono fratturata la mano. Microfratture, ma non posso combattere.

Hai fatto a botte di nuovo? A mani nude? Ma sarai scema?

Capo, lo sai, è più forte di me, mica per niente mi chiamano El bonbón asesino.

Adesso ci proviamo, chiamo il medico legale e ci facciamo fare un referto, ma scoppierà un casino, ti avviso, ci saranno da rimborsare migliaia di biglietti e i diritti televisivi. Almeno ne è valsa la pena?

Altroché.

Adesso il prossimo ci penserà due volte, prima di caricare su internet le nostre sessioni amatorie. Faber est suae quisque fortunae, non si dice così?

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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:53

Il mio amore arriva in taxi



Oggi ripenso a quando avevo cinquant’anni. Lei ne aveva venti o poco più.

La prima volta che la vidi ero alle prese con un professore di etica dell’università di Firenze, confinato in un letto del nostro reparto da mesi, intubato e straziato dalla sofferenza, che però non spegneva quella fiamma invece quasi violenta in fondo alla sua retina. La vedo crepitare ancora oggi, eruttare schiocchi e miniature di lapilli come un ciocco nel camino; mi penetra con ossessione nelle notti solitarie, brucia come il tripode di un tempio smarrito.

Che cosa ci fa qui, le chiesi. Ero stanco, non credevo già più molto nella mia missione: non pensavo di avere ormai alcun ruolo salvifico, tutto era pura meccanica, o forse anche chimica, e nient’altro, e mi chiedevo se ogni nuovo rantolo, ogni respiro che ingolfava le anse di un tubicino di gomma non fosse piuttosto il colpo di martello di un giudice. Sei colpevole, tu più degli altri, questo sentivo.

Che cosa ci fa, qui? Lavoro nel laboratorio di analisi, rispose, arrossendo come non avevo più visto fare una donna forse dalla mia infanzia, o magari tra le pagine di un romanzo del secolo scorso. Cioè, non è che sia proprio un lavoro. È un lavoro o non lo è, le chiesi, pensando di essere duro, e invece ne uscì fuori qualcosa tra la stanchezza e un sorriso. È un tirocinio, rispose, una specie. Lei non può immaginare l’emozione di essere al suo servizio, lei è una leggenda, per tutti noi.

Ma quale leggenda. Va bene, diamoci da fare, tagliai corto.

Il professore di etica non sopravvisse a quell’inverno, ma io ero già passato dall’altra parte, ero già andato oltre la foresta di tubi e mi ero perso scivolando come un sauro sulla pelle della ragazza, sotto l’orlo di seta della biancheria che portava e che mi sembrava – anch’essa – un’eredità di altre letterature, come le calze nere e i tacchi troppo lunghi, troppo sottili, pugnali o stiletti taglienti che mi laceravano dentro ad ogni amplesso, e che sembravano altra cosa, altra materia dall’assistente rigorosa, puntuale e silenziosa che mi aiutava ogni tanto, a intervalli irregolari, quasi sempre nei casi più disperati.

Adesso guardo il pavimento di cotto di questo salone deserto e penso che sono mattonelle vecchie di secoli, che gli avvallamenti appena percettibili controluce siano la trama di storie che ormai nessuno racconterà. Il lino bianco delle tovaglie è un insulto inutile, come la gibigiana prodotta dalle candele sulla superficie convessa degli argenti e dei cristalli.

Il cameriere in piedi vestito come un pinguino attende un ordine, ma so che la sua mente – anche la sua – non è qui. Anche lui sa che questa recita non serve a nessuno. Eppure mi è fedele, e la sua dedizione mi opprime, perché ormai non dipende più da alcuna remunerazione.

Verrà, gli dico comunque, verrà in ritardo come al solito ma verrà.

Girano ancora i taxi, mormora il cameriere, e non afferro il punto interrogativo in fondo alla sua frase. Credo di sì, rispondo, non avrebbe senso smettere, al punto in cui siamo. A che pro?

A che pro, le chiesi un giorno con una scelta di linguaggio infelice, quasi burocratica. Erano passati cinque anni e non era più una ragazza né ancora una donna, ma sempre con quegli abiti un po’ demodé eppure così sensuali, sempre con i tacchi troppo lunghi (ma non sono mai troppo lunghi, mai troppo acuminati). A che pro, le chiesi, davanti al letto di una donna che era stata madre e nonna, capo politico e detenuta, scrittrice e bandiera di cause perse.

A che pro che cosa, rispose con una domanda mentre studiava i dati di un monitor, tutta questa sofferenza? No, dissi io, a che pro la nostra scienza.

È lo stesso che accade a noi, professore – mi diede sempre del lei, anche quando ci eravamo esplorati e posseduti quasi dieci volte – a che pro, eppure io ci ricado sempre, ogni volta che lei me lo chiede. Giuro che è l’ultima, dico: e invece, non vede?

Vedevo. Vidi anche quella volta, il taxi, un albergo, la seta, la scollatura sulla schiena flessuosa, i tacchi troppo lunghi.

L’ultima volta. Oggi, non quella, perché ve ne furono altre, in questi anni. Oggi però è l’ultima.



Eccola. Sento il taxi che si ferma nel vicolo. Mi alzo a fatica, sto invecchiando troppo in fretta, anche se ormai, a che pro? È uno spreco perfino la vecchiaia.

Arrivo alla porta. Non ho mai voluto rinunciare allo spettacolo della portiera che si apre, della sua caviglia sottile che scende, seguendo la linea del tacco affilato e precedendo quella altrettanto lunga della gamba avvolta nella seta scura. A volte ho pensato di vivere solo per quell’istante. Anche oggi, ma oggi è diverso, viviamo tutti per un unico istante, aggrappati ciascuno a quello che avrà scelto. Io scelgo questo. Il cameriere forse ha scelto il silenzio, il lino, i cristalli, il lusso e i barbagli di questo ristorante. Forse non ha altro, non ha di meglio, ma poi, che cosa cambia?



Le offro il braccio. Come sta, professore, mi dice. È una donna adesso. Sei sempre bellissima, le rispondo.

Non c’è nessuno, il ristorante è vuoto, osserva con una punta di dispiacere.

Vieni, sediamoci, le dico spostando la sedia alle sue spalle per farle spazio.

Che vino preferisci?

Quello che vuole lei, professore, come sempre.
Il rosso rubino, o rosso sangue, rotola nel cristallo come una marea fattasi fossile e intrappolata dentro un quarzo, come il tintinnare degli argenti, come il silenzio che annuncia l’asteroide, tra le fiamme che si avvicinano e rendono bellissimo il vicolo, rivelando le proporzioni auree del Pantheon, eterne, duemila anni fa come in questo 21 dicembre 2012.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:54

Non erano le Grazie, erano le Sirene


Eravamo lì che facevamo snorkeling in una caletta nascosta, dove si arrivava dopo aver lasciato i tre scooter addossati a un muretto a secco e attraversando la macchia mediterranea per due o trecento metri, tra mirti e lentischi che ti sferzavano i polpacci fino a riempirli di losanghe sanguinanti, mentre dai tamerici le cicale suonavano ossessive, finché il loro frinire si confondeva con il barbaglio del sole, si faceva paesaggio, luce e colore più che suono, e non te ne accorgevi più. Era un commento nascosto nelle tue tempie, sottolineava la fiamma del sole sulla lama del coltello, null'altro. Forse febbre.

Poi bisognava scendere per una falesia ripida, abitata solo dalle agavi e dalle palme nane, stando attenti che i piedi non scivolassero su una cengia resa viscida dalla salsedine o, più giù, da un pomodoro di mare arrampicatosi chissà come e chissà quando oltre la linea della marea.

Lasciammo i nostri vestiti all’ombra di un carrubo e ci immergemmo. Il mare era gelido, nonostante fosse agosto, e trasparente come un bacino artificiale. Le marezzature di verde e cobalto attraversavano come un sistema linfatico la velatura incolore dell’acqua. Il fondale era un altro oceano, rovesciato, con un brulicare di esseri minuscoli che frugavano nella sabbia e tra le rocce, nascondendosi se solo l’ombra di un’occhiata o di un quintetto di marmore faceva capolino scivolando senza peso, prima di cambiare idea e guizzar via, impudenti.

Bagno, un po’ di sole, poco, bagno, sole, bagno.
Poi ci venne fame. Girando il promontorio, oltre uno scoglio che ricordava la forma di un rospo o quella di un presagio, si apriva una caletta più ampia e piatta, con un baracchino di legno seminascosto tra i cespugli.


Potevamo scendere di qui, disse Abele, ci saremmo risparmiati tutta questa sfacchinata. E avremmo potuto controllare i motorini, aggiunse Brenno, che non aveva ancora imparato a fidarsi degli isolani. Smettetela con queste fisime da celti ignoranti, li rimproverai, ma loro: Calibano, lascia perdere, andiamo a vedere se c’è del pane.
Il tramonto aveva già allagato il cielo alle nostre spalle, prefigurando il dissanguamento atroce del mondo, l’esplosione di cinabri e malachite sulla tavolozza violacea dell’orizzonte.


C’era il pane, anche a quell’ora, caldo, appena sfornato.
C’erano le melanzane che probabilmente Circe aveva offerto a Ulisse, tre millenni prima, calde anch’esse, e c’era l’olio d’oliva, quasi verde, denso e puro.
C’erano le Grazie, tre come noi, ma impossibili. Le gambe troppo lunghe, i fianchi troppo dolci, i ventri troppo piatti se messi accanto alla curva soffice e allo stesso tempo dura delle natiche. Gli occhi troppo scuri, nell’ambra calda dei volti.
«Siete forestieri?», chiese la prima, ali corvine fino alle spalle. Il petto era nudo, i nostri occhi erano preda di un'insaziabile follia.


«Vi piace u pani cunzatu?», aggiunse la seconda, fuoco arricciato attorno alle gote e al lungo collo, ed era nuda anche di sotto, e non capimmo più nulla.
«O non sarete mica spittati?», domandò la terza, girasole sul capo, sorriso di sfida spietata.


L’appetito c’era, ed era proprio quello che si attendevano da noi le Grazie.

Non pensammo che fosse strano, un baracchino senza padroni.

Con il pane caldo già servito.

Con il calore di altri luoghi, non meno impastati di farina.

Con il gelo dei tre coltelli, che sapevano adoperare come le lingue.

Non ci troveranno mai.

Non siamo reperti da snorkeling.
Per trovarci bisognerebbe scendere molto più in fondo.
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Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:55

Poi allimprovviso hanno smesso di far rumore





Samira ride e si guarda allo specchio e quel che vede le piace come sempre: riccioli neri un po’ spessi per quanto docili e sopracciglia forti, arcuate, che proteggono più in basso le ciglia scure e le iridi color di miele, il naso dritto e le labbra piene, il mento pronunciato. Ha la pelle come una terracotta etrusca o una scultura cretese, o forse quelle mandorle portate dai saraceni e appena appena scottate.

Afferra una spazzola con il manico d’osso di balena, spezzato nel punto esatto in cui una canoa di esploratori viene rovesciata dal colpo di coda di un cetaceo irriconoscibile, spinoso e velludo, con la bocca che sembra quella di un leone sproporzionato. È come se l’urto violento dell’animale si fosse scaricato, anni addietro, sull’oggettino che adesso Samira tiene ben forte con la mano sinistra, mentre canta una canzone che le ha insegnato la bisnonna:



Corre la spola e gira l'arcolaio,

apri i tuoi occhi, che hai così grandi,

e guarda la notte, l’amante nemica,

le stelle distanti e l’uomo che tu ami.



Sorridi con tutti i denti del mondo,

i tuoi come quelli del lupo e del gatto,

rovescia la testa all’indietro sul collo

e ridi e poi canta, e bevi quel buio.



Ravvia capelli, raccoglie dalla mensola del bagno una collana di lapislazzuli probabilmente falsi, guarda fuori dalla finestra e vede le balze dei tetti, i rami dei mandorli e dei limoni, la striscia di mare in fondo, lontana, e pensa all’uomo che ha avuto nel letto stanotte e a quello della mattina, ma anche alla vecchia che ha curato a mezzogiorno e ai gemelli della vicina, la maestra della scuola, che ha liberato dal mal di gola.

Pensa anche agli aerei che ha sentito passare di notte, oltre le montagne, e agli uomini minacciosi, sconosciuti, che hanno attraversato i vicoli di corsa, lasciando una scia d’ombra.

La vecchia vive all’ultimo piano di una casa sbilenca, con i muri intonacati che disegnano gibbe e rientranze, incastrata tra un palazzo addirittura ducale, decaduto anzichenò, e altri edifici ricostruiti invece nei secoli senza troppa cura, spesso divenuti magazzini oggi abbandonati. Samira sale le scale buie e anguste senza prendere pause né respiro, ha il passo elastico e lungo e la vita le sembra leggera, nonostante tutto. Le pareti parlano, c’è un brusio sostenuto che corre per tutta la città, incessante, e dentro ci si possono cercare parole, frasi intere, canzoni, grida e bestemmie, ma anche il traffico e il movimento delle persone o le raffiche del vento sulle cime degli alberi e in mezzo alla brughiera, tra le scogliere e le colline dell’entroterra.

Trova la porta aperta, si fa strada nell’oscurità di un ingresso minuscolo e di un corridoio vuoto fino alla sala illuminata da una lampadina. Su un tavolo enorme è disposta una panoplia di tovaglie stropicciate, zuppiere sfuse senza coperchio, bicchieri sporchi e mezzo vuoti, rivestiti da una patina di polvere e di vapore condensato, e giornali ingialliti, scatole di medicine, sigarette pietrificate nei piattini e riviste di moda e pettegolezzi degli ultimi vent’anni. Dietro quella muraglia di ricordi e smemoratezza la vecchia giace semisdraiata in una poltrona ancora avvolta nel cellophane. Il suo ginocchio sinistro è un melone insano, fasciato da una benda rosa che non ha più molto di elastico.

Samira non è autorizzata a operare, ma a questo punto della vita chissà che cosa importa, e soprattutto a chi. Perciò incide la suppurazione con un bisturi che un primario le ha donato dopo una settimana d’amore, insieme a una valigetta di pelle di cinghiale. Ha fatto bollire la lama, Samira, e adesso applica un impiastro che le ha confidato una strega di Bretagna dopo una notte di passione in un bagno termale.

La vecchia sorride, si scusa, non ha nemmeno dei cioccolatini da offrirle, ma Samira scuote la testa, da te non li vorrei, vecchia, tu non ricordi, ma dieci anni fa vietasti a tuo figlio di andare con me. Ora lui è morto – anche lui, come tanti, del resto – e che cosa ci ha guadagnato, rinunciando alla mia carne? Mi basta averti aiutata, vecchia, con questo mi sento ripagata, e tornerò.

Samira ride, scendendo le scale di corsa, agile sui tacchi alti.

La vecchia sta meglio.

L’uomo invece è un funzionario dei tributi. Samira sa che anche questo mese non le arriverà nessuna cartella, e perciò ride mentre lui le entra dentro, ma il funzionario è bravo quasi quanto lei, il letto è caldo e irrorato di succhi, le lenzuola si avvolgono come una vite senza fine e a Samira non sembra di aver fatto poi chissà quale sacrificio per non pagare le tasse.

Le tubature di casa rimandano echi di conversazioni perdute, chissà se dei piani di sotto o di altri caseggiati, o se invece rapite per strada e nelle piazze, ripetute e storpiate da tombini e condutture. Il brusio della cità non smette mai e a tratti è perfino ossessivo, sale di tono da un bordone sottovoce a un coro scomposto. Che fa compagnia.

I gemelli della vicina, intanto, dormono tranquilli, proprio nella stanza accanto. La mano del funzionario dei tributi accarezza le cicatrici sul fianco di Samira. È lì che l’hanno punta qualche giorno fa le api, quando lei è andata prendere il miele dal favo sotto il castagno al principiar del bosco: quello è il miele più caldo, appena secreto, ideale per preparare il decotto contro il mal di gola. La vicina è una maestra brava, così le hanno detto tutti, anche se Samira la conosce appena e non ha mai avuto tempo per fernmarsi a parlarle come desidererebbe. Chi sia il padre dei bambini non lo sa, ma che importa, importano le ore che a quanto le dicono la vicina dedica a insegnare a bambini di altri la matematica e le poesie, i verbi e i paesi del mondo.

Miele di favo, erbe della macchia, sale raspato via dagli scogli, veleno di uno scorpione che ha ucciso almeno un uomo: questo Samira ha messo nel decotto, e i bimbi dormono col respiro leggero, mentre Samira geme investita dal funzionario dei tributi.

Poi ride. E si ferma, distesa, ad ascoltare il chiasso che sale dalle strade e si arrampica sui fili annodati delle linee elettriche, sfrgolando come una corrente indisciplinata. Quante lingue, riflette, e non le conoscerò mai tutte; e i versi dei cani randagi e dei merli, e altri ruori meno rassicuranti, rimbombi sgradevoli, il passo dei soldati sconosciuti. Sebbene uno lei lo abbia avuto lì nel letto qualche giorno fa. Sapeva di mare e polvere e non se la cavava affatto bene, ma lei lo ha guidato con dolcezza, sperando di curare anche lui, in qualche modo. Vivremmo tutti meglio e più in pace, sospira.



Ed è proprio così che Samira, maga più che puttana, accoglie tutti, uno dopo l’altro, e prova a curarli o forse piuttosto a curarsi insieme a loro.

Ride sempre e gli altri pensano che la sua sia l’allegria della forza o dell’ignoranza. Non è col pianto che si curano le malattie, dice loro la maga, perché il male sa dove cercarci, ha la capacità di scovare la tristezza dov’è andata a rintanarsi e colpisce con sicurezza e arroganza. Perciò, noi a nostra volta lo inganniamo. E giù una risata potente. E ascoltate i rumori e le voci, non fatevene un cruccio, non lasciate che vi disturbino. Sono parte della vita.

Viene da lei un ciabattino, come si dideva una volta. Ha la sua bottega a metà strada tra la città alta e il porto, in un vicolo chiuso in alto dalle cupole di chiese vecchie, dove vanno solo gli anziani, con i muri divorati dal salnitro che perdono anno dopo anno le ultime tracce di affreschi un tempo famosi, ora ridotti a macchie non si sa se più oscene e grottesche. I bimbi del quartiere se le mostrano a dito: la pazza, dicono, riferendosi in realtà a quel che resta di un profeta grave, inturbantato, che la peste del tempo e dell’umidità ha trasfigurato; oppure: l’asino, ed è forse un antico vescovo, coperto di bubboni che esplodono rivelando batuffoli di sabbia e sale sotto la crosta della pittura.

Pustole ricoprono anche il volto del calzolaio, prese chissà dove o con chi, ma Samira non sembra preoccuparsene: lo accoglie nel suo letto, lo avvolge con le cosce abbronzate e le gambe snelle e dai muscoli guizzanti. Poi, dopo aver estratto dal suo corpo lava e piacere, lo fa sedere al suo tavolo di massello antico, sgraziato e forte, e gli mostra come produrre un decotto utilizzando una radice che le ha regalato un marinaio togolese, anni fa. Il calzolaio se ne va sorridendo, e forse guarirà.

I marciapiedi, dove ancora sopravvivono, producono suoni e risonanze. Sale come se fosse vapore un borbottio indistinto. Un singulto scoppia come una bolla di sapone sotto la scarpetta di vernice di una bimba. Lei ride, e la voce lontana è già più lieve.

Samira entra nel mercato sotto gli archi del ghetto antico, si insinua come un movimento di spire tra i banchi, soppesa le stoffe e le spezie, si siede accanto a Petronia, le accarezza un braccio, le sussurra qualcosa sull’uomo che l’ha lasciata venti mesi fa: è vivo, le dice, e le mostra una carta sbiadita trovata nella pancia di un’ombrina, e su quel fogliaccio sono segnate isole che gli abitanti del borgo non hanno mai visto, e se sia stata l’acqua del mare a lavar via i nomi, o i succhi gastrici del pesce, o le lacrime di un marinaio, non importa più. Petronia sorride e la bacia, e le bocche delle due donne si incontrano sotto la tettoia della bancarella. Vengo da te stanotte, sussurra la mercante di stoffe, e ti porto un panno per quella tenda che si è strappata nella tua stanza, ti porto il più bello che ho.

Esce dal mercato e attraversa le strade. Ride perché sa – crede di sapere – che il male non sopporta l’allegria e spesso, non sempre, soccombe, si ritira come la marea quando la luna muore, una volta al mese. E anche il mare, nel porto, sottintende un biasciare ombroso, un parlato tra le note di un coro. A volte ci si vorrebbe tappare le orecchie, ma poi si perderebbero troppe cose.

Stringe in pugno la borsa con le erbe e la polvere delle pietre e delle terre, e sminuzza a mezza voce le parole delle formule magiche. Guarda due uomini che attraversano la strada, loro rispondono al suo sguardo, uno lo ha già avuto in passato, l'altro mai, è alto, con le spalle larghe e scarpe pesanti, e Samira si chiede che tipo di piacere è quello che riceverebbe da lui, e se prima o poi quella curiosità sarà soddisfatta. Probabilmente sì.

Poi vede di nuovo gli aerei in cielo e scappa via. Anche gli altri lo fanno, le strade e le piazze si svuotano. Resta solo l’uomo alto, che si ferma in mezzo a un incrocio, guarda in su e sorride con la bocca storta, proteggendo una sigaretta con la coppa delle mani grandi, mentre la accende.

Poi all’improvviso hanno smesso di far rumore. Non parlano più: tubi, fili della luce, marciapiedi, muri ed alberi. Si ferma tutto, tutto tace, non c’è più il coro, non si sente l’accompagnamento del basso bordone, né brusii, grida o risate. Non parlano più. Il silenzio è proprio come Samira temeva: un’assenza minacciosa.



Sale dunque le scale di corsa, a due a due, mentre nel silenzio, nitidi, risuonano gli altri passi, quelli dei soldati.

Samira però ride lo stesso, forse perché non sa come si piange. Non lo ha fatto per Yamila, non lo ha fatto per Amina, non lo fa adesso per Daimara. La tiene in braccio e la culla, anche se un medico o un accademico positivista le direbbero che non serve più a niente. Tre ne sono uscite dal mio grembo, di tre uomini diversi, non ho mai saputo quali, e tre me ne hanno portate via, e forse gli stessi che le avevano generate, senza saperlo.

Ride. Magari non serve a niente, ma fa lo stesso. Un cornicione si stacca, di giù, e le sembra di sentire una raffica nella stanza accanto, oltre la parete, dove dormivano la maestra e i gemelli dalla gola risanata. Ma non è il vento tra le frasche. Non fa parte del linguaggio del luogo, non ne rispetta la grammatica.
E se perciò adesso nessuno parla più quella lingua, neanche il miele del favo servirà a qualcosa.
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Le vite di Vargas Empty Re: Le vite di Vargas

Messaggio Da Vargas Mer 24 Apr 2013, 12:55

Pupazzi





Paperino se ne sta sulla scrivania, il braccio sinistro piegato, col pugno sul fianco, quello destro disteso in avanti con il pollice che accenna a un timido thumbs up!, ma che resta quasi orizzontale, e un sorriso aperto sul becco.

Vargas digita sulla tastiera velocemente, con un rumore di tasti attutiti, un clangore plastico che fa da colonna sonora della nostra vita quotidiana. Scrive: Paperino se ne sta sulla scrivania, il braccio sinistro piegato, col pugno sul fianco, quello destro disteso in avanti con il pollice che accenna a un timido thumbs up!, ma che resta quasi orizzontale, e un sorriso aperto sul becco.

Poi Vargas salva il file, spegne il computer ed esce dalla stanza. Se ne va in corridoio, guarda fuori al finestrone reso verde dalle sfumature del cristallo e dal riflesso delle luci che provengono dagli altri grattacieli.

Gli piace osservare il movimento delle persone giù in strada, trenta metri più sotto, come formichine silenziose che corrono in tutte le direzioni senza motivi apparenti, senza una logica che si riesca a ricostruire, da quassù. Guarda nel palazzo di fronte, oltre vetri appesantiti da riflessi altrettanto verdi. Una donna elegante, tailleur grigio, gambe snelle, tacchi alti, se ne sta appoggiata a una parete e discute con un uomo che tiene le braccia conserte sul petto e lo sguardo basso, sfuggente.

Paperino si sgranchisce le gambe e soprattutto le braccia, cancella quel sorriso un po’ ebete dal becco e attraversa la vasta piazza di legno, dirigendosi deciso verso un enorme cilindro di plastica nera, ripieno di enormi penne, matite, forbici e righelli. Paperoga sporge la testa, i capelli radi ma lunghi e ribelli schizzano da tutte le parti come zampe di un ragno polveroso, trattenuti a stento dalla berretta di lana rossa. Non hai caldo con quell’affare, gli dice Paperino.

Chissà perché non vendono pupazzetti di Paperoga. Paperino ovviamente sì, come Pippo, Pluto e Topolino. E poi Zio Paperone, Archimede, Qui, Quo e Qua, Minni e Paperina, e le principesse, tutte quante, Ariel, Cenerentola, Biancaneve, Pocahontas, Jasmine, Bella e via di seguito, perfino quelle nuovissime come Tiana, la fanciulla di New Orleans. Ma Paperoga no, vallo a capire.

Lui se ne sbatte, scende giù lungo le pareti del portapenne, si spolvera il maglione di lana rossa (ma non muori di caldo?), apre un minuscolo cassetto nascosto in un’intercapedine dello schermo e tira fuori un fascio di carte. Mettiamoci all’opera, dice poi con una voce grave.

Paperino schiocca le dita. Le sente anchilosate, l’immobilità forzata è davvero fastidiosa. Poi si mette alla tastiera e apre un file nascosto. Vargas non sarebbe mai stato capace di trovarlo. Ci si arriva del resto attraverso un’estensione ignota, da questa parte del mondo. Paperino digita la password e altre frasi con una velocità straordinaria.

Scrive: Vargas se ne sta sulla scrivania, il braccio sinistro piegato, col pugno sul fianco, quello destro disteso in avanti con il pollice che accenna a un timido thumbs up!, ma che resta quasi orizzontale, e un sorriso aperto sulla bocca.

Zio Paperone è nel corridoio, guarda fuori dal finestrone reso verde dalle sfumature del cristallo e dal riflesso delle luci che provengono dagli altri grattacieli.

Gli piace osservare il movimento dei paperi giù in strada, trenta metri più sotto, come formichine silenziose che corrono in tutte le direzioni senza motivi apparenti, senza una logica che si riesca a ricostruire, da quassù. Guarda nel palazzo di fronte, oltre vetri appesantiti da riflessi altrettanto verdi. Jasmin, pantaloni a sbuffo, il bel seno stretto in un top celeste, l’ombelico che fa l’occhiolino maliziosamente, le gambe eleganti, i tacchi alti, se ne sta appoggiata a una parete e discute con Rockerduck, che tiene le braccia conserte sul petto e lo sguardo basso, sfuggente.

Chissà che cosa sta tramando, il furfante, pensa Zio Paperone con rabbia.

Poi entra nell’ufficio. Diamoci una mossa, ragazzi, non vorrei che tutto il sistema saltasse da un momento all’altro.
Stai tranquillo, gli risponde Paperoga, abbiamo la situazione sotto controllo. Paperino continua a digitare velocemente, sicuro si sé. Ogni tanto guarda quello strano pupazzetto sulla scrivania. Vargas, chissà chi è, chissà se ha una sua vita, dall’altra parte del mondo.
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