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I nostri nemici quotidiani

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Messaggio Da Vargas Mar 11 Giu 2013, 12:29


1. La pioggia.





Credo fermamente che quelli che dicono di adorare la pioggia – poeti, innamorati, romantici, Gene Kelly & Debbie Reynolds – siano affetti da seri disturbi mentali.

Io, che sono una persona sana e normale, odio la pioggia, da sempre. Posso vivere in paesi freddi, torridi, sommersi dalla neve, immersi nella nebbia, ricchi, poveri, disordinati ed efficientissimi, alti e bassi, rossi o verdi, ma per favore, non condannatemi alla pioggia, questo sì che non riesco a tollerarlo.

Che cosa avrà poi di così bello, la pioggia? Sappiamo tutti che si tratta di un paradosso della fisica, ovvero di acqua che invece di lavare sporca. Quando piove ogni cosa si infanga, si respira la mota, il solo fatto di guardare le gocce che cadono oltre le finestre ci fa sentire impuri, la pelle si macchia, si ricopre di grassi misteriosi, avvertiamo il bisogno di farci di nuovo la doccia non più di dieci minuti da quando l’avevamo già fatta, sentiamo che i vestiti ci marciscono addosso. Se poi ci troviamo all’aperto, in campagna, il solo fatto di guardare la pioggia che cade trasferisce misteriosamente le zolle e l’erba fin dentro alle scarpe: è una forma di transustanziazione in grado di sfidare le menti dei più raffinati teologi.

Se non ci copriamo come si deve affoghiamo nell’acqua. Se ci copriamo, peggio che mai, suderemo perfino se la temperatura è polare, e il nostro corpo sarà doppiamente sotto assedio, un assedio liquido dall’interno, dai nostri stessi pori, e dall’esterno, attraverso i tessuti.

Le scarpe? Personalmente diffido delle foto o di qualsiasi altro documento nel quale si vedano persone con le scarpe lucide in una giornata di pioggia: è un photoshop, non c’è dubbio, e lo era già anni o decenni prima che fossa partorita la sola idea del photoshop. Nella dura realtà è sufficiente fare due o tre passi perché le nostre povere calzature siano aggredite irrimediabilmente da una mota giallognola che fuoriesce dalle viscere della terra, che sale sulla suola e sulla tomaia, infanga il tacco, il collo, arriva fino alla linguetta. All’improvviso ci accorgiamo che anche l’interno è tutto inzuppato, non importa che razza di magnifiche scarpe impermeabili ci abbiano venduto a prezzi improponibili.

E naturalmente, poi, il risvolto dei pantaloni! Schizzi di sostanze terrose si appropriano del tessuto, disegnando linee diagonali sempre del colore più evidente: se indossiamo un paio di pantaloni scuri, il fango sarà certamente giallognolo, come la cacca di un cane diarroico; se siamo vestiti di chiaro, la mota sarà marrone scuro, come la triste terra di un cimitero all’indomani di un funerale.

Poi la vera e propria gamba dei pantaloni comincia ad arricchirsi di minute gocce ad ogni istante più pesanti, che quasi perforano il tessuto, finché la stoffa aderisce al corpo. Non c’è salvezza. E non pensate minimamente che tanto poi i vestiti si asciugheranno! La pioggia – l’abbiamo già detto – è un tipo speciale di acqua, meritevole di uno studio chimico e organolettico finora mai realizzato. Non solo invece di lavare sporca: trasforma addirittura la struttura molecolare delle sostanze sulle quali si deposita. Dobbiamo correre subito in tintoria, ma a volte non c’è più niente da fare, è troppo tardi, non ci resta che gettare tristemente i vestiti nella spazzatura e imparare, la prossima volta, a restarcene buoni buoni a casa.

Come dite? L’ombrello?

L’ombrello non esiste. Punto. L’ombrello è la più grande truffa nella storia dell’umanità. È un oggetto virtuale, parte integrante di un miraggio che ha ingannato decine di generazioni.

E va bene, proviamo, voglio proprio farvi contenti. Prendiamo l’ombrello e usciamo ad affrontare la tormenta.

Primo problema: come si apre un ombrello. Dentro casa naturalmente no, e non soltanto per mere ragioni di superstizione. Nell’atrio del palazzo? Diciamo pure di sì, tanto più che vogliamo ridurre al minimo il tempo di esposizione alla pioggia una volta che saremo fuori dalla porta. Però bisogna vedere le dimensioni del portone, come si apre, e se portiamo con noi una valigetta, oppure due o tre altri oggetti, e quante persone stiano passando in quel momento nell’ingresso di casa o stiano cercando di uscire insieme a noi, insomma una quantità non indifferente di variabili che trasformeranno questa prima semplice tappa in una vera e propria sfida. Si assisterà a una penosa manovra degna di un film di Stanlio e Ollio, nel corso della quale cercheremo di far ruotare l’ombrello già aperto con l’obiettivo di farlo passare in verticale o diagonalmente nella luce dell’uscio, infilandoci in aggiunta anche il nostro corpo, e il tutto senza bagnarci.

Bene, e adesso siamo fuori, sotto la pioggia. Un’altra tremenda menzogna è che la pioggia cada in verticale. Ma dove si è visto? La pioggia cade sempre diagonalmente, e perfino nelle giornate di totale assenza di vento si producono probabilmente fenomeni fisici sconosciuti che inducono le gocce a prendere direzioni trasversali di tal fatta che inevitabilmente, per quanti sforzi si facciano, finiamo sempre inzuppati. Un’altra parola chiave è appunto “direzioni”: attenzione, non ho detto “direzione”, ci sarà sempre un plurale in questa tragica storia. Usciamo, apriamo il nostro maledetto ombrello, ci rendiamo conto che ci stiamo comunque bagnando, cerchiamo di restare calmi e di essere razionali, vediamo che la nostra spalla sinistra è inzuppata e allora decidiamo di inclinare l’ombrello in modo tale che pensiamo, ci illudiamo, sogniamo di intercettare la caduta diagonale dell’acqua da sinistra. Sventurati noi! È sufficiente girare l’angolo e, non si sa perché, l’acqua adesso arriva da destra, o meglio, aspetta, dal centro-destra, o invece proprio dritta davanti a noi, o dietro, abbiamo già perso il conto. È possibile che esistano determinate leggi fisiche in grado di spiegare la direzione della pioggia, ma devono essere complesse come le formule della velocità dei neutrini nell’acceleratore del CERN di Ginevra. Ci vorrebbe il miglior skipper dell’America’s Cup per studiare la variazione del vento ogni volta che noi ci spostiamo da destra a sinistra e il vento invece, chissà perché, da sinistra a destra, e adesso l’abbiamo capito, ci adeguiamo, ma purtroppo capita che dobbiamo girare per forza a destra, perché magari il negozio dove ci stiamo dirigendo o il parcheggio della macchina stanno da quella parte, e alla fine, prima che riusciamo a pensare a una teoria coerente dei venti, non è rimasto più un centimetro del nostro busto e della nostra schiena che non sia completamente, tristemente inzuppato come Spongebob nelle profondità di Bikini Bottom.

E inoltre, come possiamo gestire le nostre due povere braccia con la loro corrispondente coppia di mani, considerando tutto quello che una persona normale deve fare quando piove e quando una delle summenzionate estremità è già occupata dal manico ricurvo del maledetto ombrello? Se solo portiamo una valigetta o una borsa, ecco che già abbiamo le due mani definitivamente occupate e siamo condannati a supplementari esercizi di equilibrismo per calcolare la provenienza del vento e dell’acqua e cercare (senza possibilità alcuna di successo) di mantenere asciutti al tempo stesso il corpo e la borsa. Se poi per somma sventura portiamo un secondo ingombro, che so, la borsa della spesa o qualcosa da portare in tintoria[1], siamo fritti. E se per caso ci fermiamo a comprare il giornale in edicola[2], be’, buona fortuna, allora, perché l’equilibrismo che ci toccherà fare per mantenere con una mano il manico dell’ombrello, sotto un braccio la borsa, tra le gambe la busta della spesa, in bocca il portamonete, non è ancora niente rispetto a quello che faremo quando cammineremo senza avere la minor idea di come evitare che lo sfortunato giornale si trasformi in pochi istanti in un orribile bolo annerito e appiccicoso.

Cerchiamo di prendere un autobus, ad esempio il trentadue. Ci mettiamo sotto la pensilina, o almeno questa sarebbe l’intenzione, prima di renderci conto che esistono almeno cinque seri fattori di disturbo.

Primo: se ancora restano alcune fermate sulla linea del trentadue prive di pensilina, è certo che ci toccherà una di quelle.

Secondo: non importa quanto sia grande la pensilina, in ogni caso il numero di persone in attesa del bus, o di semplici passanti in cerca di riparo dalla pioggia, sarà superiore alla superficie della struttura secondo l’elementare funzione s1 = S – n (s2), dove s1 è l’area protetta che ci toccherà, S la superficie della pensilina, n il numero di persone, moltiplicato per s2, che è la superficie individuale di ogni persona. Considerando la famosa Legge del Fesso, secondo cui n (s2) S, cioè, la superficie occupata dal numero di persone in attesa è sempre maggiore o uguale alla superficie della pensilina, ne deriva che lo spazio protetto che ci toccherà è sempre minore o uguale a zero. In altre parole: ci bagneremo.

Terzo: l’acqua e il fango che non ci cadranno addosso dal cielo lo faranno comunque da sotto, perché non ci saranno un’automobile, una moto o una bicicletta[3] che non prenderanno in pieno con una, due o quattro ruote le pozzanghere di acqua fetida e fangosa venutesi nel frattempo a produrre nella cunetta sul bordo del marciapiede, proprio in corrispondenza del nostro posto.

Quarto: considerando che nelle giornate piovose il numero di persone che prendono la macchina è più alto che in quelle di bel tempo, che gli autobus sono mediamente più pieni e che perciò vanno più piano e hanno bisogno di più tempo ad ogni fermata, e che la percentuale di vecchi rimbambiti, ragazzi appena usciti dalla scuola guida, ubriachi, criminali o semplici idioti è inspiegabilmente più alta che nei giorni soleggiati, e che il numero di incidenti e di imbottigliamenti è proporzionalmente più elevato, il tempo di attesa del primo bus in arrivo potrà variare da un multiplo di due fino a un multiplo di dieci rispetto al normale.

Quinto: il primo, il secondo e il terzo autobus saranno comunque troppo pieni perché possiamo anche solo immaginare di salire a bordo. Il quarto sarà altrettanto o perfino più pieno, ma a quel punto ci saremo ormai rassegnati ed entreremo lo stesso, o almeno ci proveremo. Comincia una sfida muscolare, una vera e propria battaglia, un’epica tragica e muta. La gente di dentro, che appena una fermata fa aspettava fuori e lottava per il proprio diritto a guadagnare un posto nel veicolo, adesso svolge il ruolo della conservazione, della difesa delle posizioni acquisite, di una nobiltà di recente acquisizione ma già consolidata, e respinge o cerca di respingere la nuova moltitudine di poveri e disperati della quale ha fatto parte non più di pochi minuti fa. Non ci sono colpi, gomitate, pugni[4], ma una lenta guerra di posizione, portata avanti a forza di fianchi, natiche, petti e spalle. I corpi cercano di modificare la propria morfologia, si comportano piuttosto come dei liquidi, acquisendo la forma dei particolari contenitori nei quali si trovano infilati, occupando ogni angolino ancora libero. Gli altri corpi cercano di impedire che ciò accada, espandendosi contro ogni prevedibile e conosciuta legge della fisica. Il risultato è che, per quanto possa apparire impossibile, il volume totale della somma di corpi all’interno del bus è maggiore del volume dello stesso mezzo.

E qui insorge un altro problema, perché i corpi dei quali parliamo non sono normali, ma corpi bagnati, inzuppati, inzaccherati, illiquiditi, sudati, appiccicosi, pieni di fango, mota, argilla, creta, pezzi d’erba e frammenti di foglie, e più questi corpi aderiscono gli uni agli altri più si producono altri liquidi, altre sozzure, in un autentico trionfo dell’entropia.

Il tempo – altro fattore che non avevamo preso in considerazione – si dilata a sua volta secondo regole tutte sue, cosicché un secondo bagnato non dura affatto come un secondo asciutto, e i minuti a volte durano ore,e quando alla fine arriviamo alla prima fermata non sappiamo più se sia preferibile rimanere dentro o piuttosto affrontare un’impossibile passeggiata sotto la pioggia. Non abbiamo nemmeno il tempo di pensarlo, alla fin fine, perché non potremmo mai uscire dal bus, trovandoci schiacciati tra muraglie di carne e tessuti, ed è ormai arrivata l’ora di trasformarci a nostra volta in difensori dello spazio appena conquistato contro le nuove ondate di barbari invasori.

Non parliamo poi degli oggetti che per sventura portavamo con noi. Non disponiamo di sufficienti mani per appenderci agli appositi sostegni, portare le nostre cose, difendere le medesime e il nostro spazio vitale, proteggerci dalle gocce che ci pioveranno addosso peggio che se fossimo rimasti fuori. Avremo magari una cartella sotto il braccio, uno zaino tra le gambe (ma a mezza altezza, mai appoggiato sul pavimento, se non vogliamo che si trasformi in una massa informe di fango), e un giornale, o quel che resta dello stesso, infilato sotto il mento[5].

Riavvolgiamo il nastro. Non prenderemo il bus ma la macchina.

Bene: se per l’una o l’altra ragione, per quanto mi sembri francamente impossibile, siamo sopravvissuti senza bagnarci e insozzarci orribilmente fino ad ora, entrando in macchina le possibilità residue si smarriscono in un buco nero. Apriamo lo sportello di dietro per mettere rapidamente sul sedile la borsa e altri oggetti, ma nell’operazione l’ombrello si rifiuterà di restare verticale, aderente alla nostra spalla, e insisterà piuttosto a cadere a terra lasciandoci esposti alle sferzate della pioggia. Chiudiamo la portiera, giriamo, apriamo davanti, cercando di sederci al posto di guida – il nostro – e lasciare fuori l’ombrello. Non esiste tuttavia nessuna legge della fisica o della geometria conosciuta che consenta di chiudere ermeticamente lo sportello della macchina senza aver prima ripiegato l’ombrello, ma mentre compiamo l’operazione ovviamente la pioggia ci flagella sulla gamba e sul braccio destri. E adesso, un po’ d’attenzione, per favore. Se qualcuno ha legittimamente pensato che nelle tre pagine precedenti io abbia esagerato o sia stato un vero e proprio imbecille, spiegatemi, allora, che cosa fare con l’ombrello bagnato dentro la macchina. Non possiamo lasciarlo alla nostra sinistra, perché lo spazio è talmente ridotto che finiremmo di inzupparci la corrispondente metà del corpo. Dobbiamo dunque farlo passare a destra, per metterlo ad esempio sul tappetino del lato del passeggero: ma come? Lo facciamo passare al di sopra di noi, irrorandoci come un giardino botanico, oppure sul volante e sul cruscotto? Qualunque soluzione scegliamo, il disastro sarà completo, tutta l’acqua che ancora era rimasta sul tessuto dell’ombrello si sarà trasferita sulle nostre gambe, sulla pancia, sul petto, sul volante, sul sedile, sul cruscotto.

Naturalmente il parabrezza è costellato di minuscole gocce di fuori e appannato all’interno. Accendiamo lo sbrinatore e l’unico risultato è produrre una serie di raggi circolari che si sovrappongono allo strato di condensa di dentro. Accendiamo il riscaldamento, lottiamo per qualche secondo con la posizione corretta dello stesso, che ovviamente all’inizio ci brucia i piedi, poi ci soffia sulla faccia e finalmente si dirige verso l’alto, disegnando due ovali che ci danno l’illusione che questa volta siamo riusciti a pulire la parte appannata. Ma è solo un’illusione, appunto, e di nuovo la differenza di temperatura tra l’interno e l’esterno produce altra condensa[6]. Pensiamo subito a una formula trigonometrica per calcolare l’esatto equilibrio tra le temperature, e intanto quasi ci siamo schiantati contro il bus numero trentadue del precedente episodio.

Arriviamo a destinazione, troviamo un parcheggio dopo aver viaggiato a velocità ridotta, a causa della visibilità quasi inesistente consentita dal parabrezza e degli imbottigliamenti, con tutto ciò che questi comportano in termini di nervosismo, insulti, risse evitate per un pelo, e dopo aver cercato un posto libero nel doppio o nel triplo del tempo normalmente necessario, se siamo stati fortunati. E adesso? Come diavolo speriamo di effettuare tutte le operazioni all’inverso, togliere dalla vettura l’ombrello, i nostri oggetti e il nostro corpo, con movimenti coordinati e razionali?

Comunque sia, arriviamo a destinazione, casa, ufficio o quello che è. Ed è lì, in questo momento, che tutti i nostri nemici quotidiani congiureranno insieme. Non riusciremo a usare ancora l’ombrello[7], ad afferrare le nostre cose, frugare nelle tasche[8], tirar fuori le chiavi[9], infilarle nella serratura, aprire quella maledetta porta. La cartella, le bottiglie di latte o di whisky che avevamo comprato per strada[10], i libri e i giornali: tutto cadrà per terra, sul suolo inzuppato.

E quando finalmente saremo dentro, a casa, nell’ufficio o dovunque sia, la magnitudine del disastro prenderà corpo, litri d’acqua usciranno dai nostri pori o dei vestiti, si congeleranno, e la camicia si appiccicherà al busto, alcuni tessuti si saranno trasformati in una sorta di cartone rugoso, altri si saranno semplicemente sciolti, le scarpe si sfalderanno, ci renderemo conto di quante cose dovremo buttare nella spazzatura e di quanto ci toccherà spendere in medicine[11].

È probabile che in quel momento entri qualcuno, marito, moglie, amante, fidanzato o fidanzata, collega o amico, e ci dirà miagolando come una gatta in calore: «Ma che bella, la pioggia, che romantica!».

La statistica[12] dice che nei giorni di pioggia gli omicidi domestici si incrementano considerevolmente.







[1] In tintoria in una giornata di pioggia? Be’, allora ce le meritiamo proprio, queste disgrazie.


[2] Comprare il giornale (come qualsiasi altra cosa) in un giorno di pioggia? Bisogna essere proprio matti.


[3] Già: ci saranno pure delle biciclette per strada in questa giornata di pioggia, per quanto irrazionale e illogico ciò possa apparire, non foss’altro che per darci fastidio.


[4] Cioè, ci sono pure, a volte, ma limitiamoci a mo’ d’esempio a una situazione media, senza nulla di estremo.


[5] È ovvio che in tutta questa storia hanno indubbi vantaggi gli extraterrestri con quattro o sei braccia e gli attori di Hollywood dotati di un mento pronunciato.


[6] Che cosa credevate? È una semplice applicazione della seconda legge della termodinamica e del principio di Carnot.


[7] Ma perché insistere con l’ombrello? Questo vuol dire davvero meritarsele, le disgrazie.


[8] Le tasche, specialmente maschili, saranno oggetto di un altro capitolo dei Nostri nemici quotidiani.


[9] Altro futuro capitolo.


[10] Non si sa come, ma ci sono sempre bottiglie di vetro che si rompono. E se no, saranno delle uova.


[11] Compresi gli antidepressivi.


[12] Si vedano L. Huntington, Analisi degli effetti della pioggia sui delitti contro le persone, MIT Boston, 2009, K. Hauser, Fenomenologia dell’acqua e della violenza umana, Heidelberg, 2010, U. Prampolini, Pioggia: perché?, Univesità delle Zeppole di Catania, 2011.


Ultima modifica di Vargas il Gio 13 Giu 2013, 12:45 - modificato 4 volte.
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Messaggio Da Vargas Gio 13 Giu 2013, 12:38


2. L’orrendo involucro


 


 



Ieri ho comprato un disco, la seconda sinfonia di Balakiriev nella registrazione effettuata nel 1993 dall’Orchestra sinfonica di stato russa, diretta da Igor Golovschin. Non avevo idea che l’incauto acquisto sarebbe stato solo l’inizio di una serie di sventure: non perché l’opera, che già conoscevo, fosse troppo pesante, né per la qualità della registrazione o per una sollevazione dei condomini disturbati dalle aeree e vieppiù sofisticate note nel mezzo di una pennichella o della visione della puntata di chiusura dell’imperdibile reality-show "Come reagiranno sette pisquani a mollo in una piscina sommersi da una camionata di fiocchi d’avena e circondati da avvenenti conigliette in microbikini?"[1] Niente di tutto ciò: la musica era straordinaria, il disco di eccellente fattura, il mio lettore CD in uno stato di grazia fuori del comune[2] e gli altri abitanti del palazzo dediti a tutt’altro genere di attività[3] e comunque tutti dotati, per un irripetibile allineamento delle costellazioni, di buon gusto musicale e televisivo.



Il dramma è cominciato quando ho dovuto compiere il primo, inevitabile passo per poter utilizzare l’oggetto che avevo appena acquistato. Illuso, imbevuto di una fiducia per le umane sorti e progressive nutrita da anni di lettura dei classici della ragione, da Lucrezio Caro a Richard Dawkins, ho provato ad aprire l’involucro di plastica che proteggeva il disco. Insano gesto! Culla demenziale delle mie future angosce, fonte sprigionante lapilli di ansia e vampate di nevrastenia! Anticamera delle più truculente prefigurazioni del futuro prossimo venturo, al cui centro sta immoto un totem di poliestere e cellophane, inviolabile come la sintassi etrusca!



Le mie unghie hanno grattato invano la superficie perfettamente liscia della plastica. Sulle prime non mi sono preoccupato, senza ancora nemmeno guardare in faccia l’orrido manufatto ho continuato a passeggiare per il salotto armeggiando con le dita attorno agli spigoli dell’astuccio. Dopo un minuto di inutili tentativi mi sono seduto sul divano e ho dato un’occhiata all’oggetto. Dovrebbe esserci una linguetta da strappare, ho pensato, ancora fiducioso, ma non riuscivo a vederla. In un angolo una leggera increspatura della plastica, appena percettibile, poteva forse rappresentare un embrione di strisciolina. Chissà, forse un trascurabile difetto di fabbrica non aveva dato a quest’ultima la forma e l’evidenza che ci si aspetterebbe. Ho strappato – macché, ho tirato quella specie di pellicina, e ne è venuta via un’inezia, forse la frazione di un millimetro.



Cominciando a percepire un principio di fastidio salirmi dentro dai precordi, ho avvicinato l’occhio al punto incriminato, non riuscendo a scorgere alcun elemento incoraggiante. Va bene, ai lati del parallelepipedo esisteranno quelle ripiegature ad orecchio che ricordano il raffinato lavoro delle commesse quando impacchettano un regalo, così sottilmente descritto da Luigi Pirandello nell’Uomo dal fiore in bocca[4]. Queste orecchie devono essere state giust’appunto molto sottili, considerando che alla mia vista risultavano semplicemente invisibili. Puntando tutto sul tatto, ho graffiato dapprima con delicatezza, poi con crescente sbrigatività, infine con franca cattiveria la superficie sdrucciolevole dell’involucro, senza punto scalfirla. In preda ormai a un principio di isteria, ho dato un violento strattone, rischiando di spezzare in due cofanetto e compact disc, poi ho dato un morso a uno spigolo, fermandomi in tempo prima di sacrificare un incisivo sull’altare dell’inutilità umana.



Diciamoci la verità: quanti di noi non hanno vissuto momenti di analoga impotenza e frustrazione, alle prese con l’apertura volta per volta di una busta di arachidi (nel novanta per cento dei casi spargendoli su tutte le superfici lavabili o meno della cucina), della protezione del tappo a vite di un succo di frutta (in questo caso il taglio del polpastrello è una delle rare certezze di questa nostra epoca), dell’inserto settimanale del vostro quotidiano (spesso strappando via insieme alla plastica angoli interi delle pagine, rischiando di perdere alcuni dettagli del gossip del momento, a meno di mettervi buon buoni sul tavolino del salotto a ricomporre un puzzle degno di Stanlio e Ollio[5]) o dell’astuccio delle lamette (prefigurando sulle vostre falangi lo sminuzzamento epiteliale che in seguito sarà operato dal rasoio percorrendo mento e guance al ritmo di un sofisticato guaguancó).



Conosco fior di gentiluomini e gentildonne, alcuni dei quali poeti laureati o aspiranti Nobel della fisica, che hanno rinunciato da anni a nutrirsi di cereali del tipo crunchy perché si sono arresi dinanzi alla barriera insormontabile della busta di plastica trasparente che maligna fa capolino una volta violato l’usbergo già atroce della scatola di cartone. Altri, nel cui ambito si annovera un chiosatore dell’opera omnia di Montaigne, hanno speso quasi il loro intero patrimonio, sovente riducendosi alla più bieca povertà, in sessioni psicanalitiche, a ciò condotti dall’ossessione insoddisfatta per la plastica che imprigionava l’automobilina o la Barbie della loro infanzia.



Perché i produttori di questi e mille altri eterogenei manufatti si dilettano a frapporre simili ostacoli tra noi e l’uso degli oggetti stessi, che in fondo dovrebbe essere il loro obiettivo primario, se davvero desiderano che l’acquisto si ripeta? È incoscienza? È la prova di un crescente istinto sadico nei diversi strati della popolazione mondiale? O non è piuttosto un riflesso condizionato della cultura plastica che preannuncia una mutazione genetica incombente? Saremo presto avvolti in involucri anche noi, a proteggerci dalle variazioni climatiche, dalle polveri sottili, dall’influenza aviaria? L’abusato gesto dei due amanti che si strappano i vestiti di dosso, impazienti, nella torrida clandestinità di una stanza d’albergo, sarà sostituito domani dallo strappo di una linguetta, sempre che si riesca a trovarla prima che il marito cornuto faccia irruzione con una pistola sigillante?



Se la cosa può interessarvi (ne dubito), ieri sera ho finito per ascoltare la collezione dello Zecchino d’oro Anni Settanta che giaceva sul lettore cd già comodamente aperta e libera da ostacoli polimerici.


 


 ________________



 


[1] Format ideato per la prima volta da una produzione della Galizia. Nella sua versione più celebre, andata in onda nella scorsa stagione in Uruguay, un attore di B Movies in pensione è riuscito a farsi ventiquattro vasche a farfalla in un brodo di müssli al lampone disseccato, guadagnandosi così le attenzioni nientemeno che di Camila Fornila, la famosa cantautrice di rancheras di Paysandú. Il giorno dopo, una bomba ad alto potenziale ha squarciato la fattoria dov’erano rinchiusi i Campesinos sin vergüenza (titolo della versione uruguaiana dello show), spargendo brandelli di Choco Cheerios in un’area grande quanto il Molise. Il programma è stato sospeso in attesa di nuovi rifornimenti di cereali. Camila Fornila ne ha tratto ispirazione per una canzone giunta alla settantatreesima settimana consecutiva in vetta alla hit parade locale: Estaba nadando en una piscina de trigo y de avena / como un barco en el mar bajo la luna llena / me besaste y un pedazo de fondente / se me puso en la punta de un diente. / Yo soy la muchacha de Paysandú / y cuando corro parezco un ñandú.





[2] Di solito questo non accade: se non ho le pile del telecomando scariche, ho dimenticato di attaccare la presa alla corrente, e se riesco ad aprire il cassetto del lettore potete star sicuri che ho selezionato la modalità “radio”.  Una volta ho collegato per errore il CD alla lavastoviglie e ne è uscito fuori un programma di rilavaggio con musiche di Puccini. Peccato che al terzo acuto di Cecilia Bartoli i miei calici Riedel da vino rosso siano andati in frantumi.





[3] Il geometra al piano di sotto stava terminando il sudoku iniziato a ferragosto, barando su un paio di numeri, altrimenti la soluzione non gli veniva. La coppia al terzo piano stava spargendo becchime sul terrazzo per catturare i piccioni necessari al pasticcio da portare alla cena aziendale. La famiglia del secondo piano era giunta alle semifinali del torneo di wrestling mensile. Di solito vince la nonna, che ha studiato per anni la mossa della cravatta con il nodo a gassa d’amante, marchio di fabbrica del grande John the New Face, così chiamato dopo essere stato sottoposto a delicata operazione di ricostruzione dell’intera struttura maxilofacciale in seguito al rovinoso impatto con la rotula di Jack the Brutal Bulldog Man.





[4] «Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata... ch'è per se stessa un piacere vederla... così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza... La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l'altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore dell'arte; poi ripiegano da un lato e dall'altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l'involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d'ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito» (L. Pirandello, L’uomo dal fiore in bocca).





[5] Nel Regalo di nozze (Me and my Pal, regia di Charles Rogers, 1933) Stanlio, testimone di nozze di Ollio, si presenta a casa dell’amico a pochi minuti dalla cerimonia, portando in regalo una scatola di puzzle e immergendosi nel gioco, che via via coinvolgerà lo sposo, il suocero, i parenti, un agente della polizia, in un crescendo che precipita nell’inevitabile apocalittico finale.
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