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Appunti di viaggio - Germania

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Messaggio Da Arzak Sab 08 Feb 2014, 12:47

GERMANIA

I Romani lo chiamavano il paese dei Germani, ossia dei fratelli. Non sembravano però a volte molto fraterni i tedeschi dell’Ovest con quelli dell’Est, e viceversa. Loro in effetti si definiscono deutsch, ossia teutoni, vocabolo eufonicamente più appropriato. L’unica volta che sono riusciti a vincere una guerra (1870), hanno eretto una gigantesca colonna con statua d’oro della Vittoria alata che si vede a chilometri di distanza.
Nonostante la fama di paese militarista, a Berlino non si vede un poliziotto.  Non ce n’è bisogno, ci sono già loro, i tedeschi. Per convincervene, provate a parcheggiare con due ruote sul marciapiede o a mettere un piede nella pista ciclabile.
Se alla sera però entrate in una di quelle birrerie dove si canta, al vedere la schiera di persone di tutte le età che ondeggiano  abbracciate su quelle lunghe tavolate, viene assurdamente da pensare che anche i tedeschi, in fondo in fondo, siano degli esseri umani quasi proprio come tutti gli altri.
Piatto nazionale würstel e crauti. La domenica, würstel con patate.


È qui la Fest?
Monaco 1969

Per qualche imperscrutabile motivo la Germania mi aveva sempre attratto, e appena svincolato dalla tutela dei genitori riesco a convincere Luciano ad andare insieme all’Oktoberfest di Monaco. Mi intrigava l’idea di un posto dove scorreva birra a fiumi in uno sfondo di musiche e di canti corali. Chissà poi le ragazze, che immaginavo con le trecce e i calzoncini di cuoio con le bretelle come forse avevo visto in qualche filmato. Nonostante la patente fresca di stampa mancava però l’auto. Dopo qualche ricerca, mille promesse e altrettanti scongiuri riusciamo a farcela prestare da un altro amico. Si trattava di una cinquecento bianca un po’ datata ma, a detta del proprietario, pienamente affidabile.
L’attraversamento della Svizzera è abbastanza indolore, a parte un cretino che per un banale malinteso automobilistico (gli avevamo semplicemente tagliato la strada) ci lancia qualche insulto a sfondo razzista. Che si guardasse lui che era svizzero, pensiamo concordi.

Il primo intoppo si verifica alla frontiera tedesca. Il doganiere non gradiva che sul passaporto ci fosse un nome e sul documento di proprietà dell’auto un altro, e non deponeva a nostro favore l’aspetto bohémien di cui menavamo vanto con gli amici. Quando finalmente si convince che neanche un italiano avrebbe potuto desiderare di rubare un’auto del genere sorge un altro problema.
- Lahì! - ci intima contrariato dopo aver esaminato la vettura. Luciano ed io ci guardiamo con aria interrogativa. La nostra conoscenza del tedesco non contemplava quella parola (neanche le altre, a dire il vero), e il poveretto ripete l’esclamazione a voce più alta, come fanno quelli che pensano che l’aumento del volume comporti automaticamente una maggiore comprensibilità.
- Lahì! Lahì! - strillava sempre più indispettito perché non capivamo quel fonema così semplice.
Alla fine esasperato si reca ad un mobile ed estrae un foglietto ovale di plastica adesiva con su la lettera “I” di Italia, facente parte di una scorta previdentemente destinata agli indisciplinati italiani come noi.
- Lahì! - ripete agitando l’adesivo come se stesse parlando a due subnormali.
- Ah, la “I”, poteva dirlo subito! - esclamiamo mentre quello si rodeva. Paghiamo la somma di due marchi e attacchiamo la targhetta, poi ci defiliamo prima che venisse a galla qualche altra irregolarità. Ingrugnito ma finalmente appagato il gendarme ci lascia passare scuotendo la testa, probabilmente trovando in quell’episodio la conferma di qualche sua particolare concezione del mondo mediterraneo.

Era ormai ora di cena e i soldi erano pochi, ma lungo la strada incontriamo una lunga serie di alberi di mele. Fino ad allora ero abituato a pensare alla Germania come ad un regno dei ghiacci, e non immaginavo che potessero crescervi frutta e vegetali come da noi. Ne prendiamo solo una o due, giusto per ricordo, ci diciamo per mitigare il senso di colpa. Fatto sta che ci ritroviamo col vano posteriore della cinquecento zeppo di mele, alcune delle quali ci rotolavano fra i piedi ad ogni frenata.
Se solo avessimo previsto le conseguenze gastrointestinali di quella razzia forse avremmo fatto meglio a cenare con un caffè. Anche i Conquistatori spagnoli d’altra parte avevano dovuto subire la vendetta di Montezuma, racconto a Luciano ricordando le mie letture. Sì, ma questa è una vendetta del Kaiser, fa lui tenendosi lo stomaco, lasciandomi in dubbio se alludesse al vecchio Francesco Giuseppe o ad altro.

Monaco di notte è impressionante. Grandi strade vuote, una nebbiolina gialla, neanche un cane in giro e soprattutto nessuna traccia dell’Oktoberfest. Da perfetti sprovveduti eravamo arrivati che la festa era già finita, e il miraggio dell’Eldorado che ci aveva attirati fin lì si dissolve nel nulla. Facciamo un giretto in quel deserto gelido proprio per non dover ammettere che eravamo venuti per niente, poi torniamo alla cinquecento. Riprendiamo un po’ mogi la strada del ritorno, poi ripensando alla situazione scoppiamo entrambi in una nervosa risata liberatoria. Raccatto due mele dal sedile posteriore, ne passo una a Luciano, e insieme iniziamo a sgranocchiarle intirizziti pensando al tepore della casa che ci aspettava in Italia.


Il mostro dell’autostrada
Basel-Hamburg

L’autostrada Basel-Hamburg è la spina dorsale della Germania occidentale, e quindi dell’intera Europa. Un nastro lungo 800 chilometri che collega il Mediterraneo al Mare del Nord, un ponte fra diverse culture e una scorciatoia per la tintarella dei nordici. Trovarvisi imbottigliati nel mese di agosto in qualche rallentamento per lavori è come rivivere la scena iniziale del film Roma di Fellini.
In contrasto con l’uniformità del paesaggio la regina delle autostrade tedesche è un caleidoscopio di situazioni. Vi si potevano incontrare le spropositate case mobili  degli amburghesi che calavano al Sud, i veicoli militari alleati condotti da giganteschi negroni, le carovane di improbabili circhi con le giraffe che sbucavano dal tetto come nel treno di Dumbo, i violacei camper custom americani col simbolo della marijuana. I polacchi della prima ora si distinguevano dall’incredibile quantità di masserizie che accumulavano sul portapacchi della 126, mentre quelli della seconda generazione, più doviziosi,  adesso dispongono di grosse Mercedes che trainano ridicole roulotte lunghe un metro e mezzo.

A volte si incontrano presenze più inquietanti: nugoli compatti di motociclisti caratterizzati da una feticistica predilezione per il cuoio nero di cui sono interamente ricoperti. Appaiono all’improvviso nello specchietto, ci sfrecciano a fianco rombando come una squadriglia di Stukas in picchiata, poi scompaiono velocemente all’orizzonte come sfolgoranti eroi del Valhalla in missione per conto di Odino. Sono gli stessi che, dismessa l’aria minacciosa, a volte si vedono oziare pigramente al sole nei baretti di Monterosso, con lo stomaco pieno di fettuccine e l’occhio illanguidito dal vino delle Cinque Terre. Ciò dimostra che probabilmente una tempestiva introduzione della dieta mediterranea a nord delle Alpi avrebbe evitato alla Germania molti lutti e sciagure.

Un’altra categoria di centauri, che i puristi considerano una deprecabile deviazione, è quella dei Motociclisti Comodi. Viaggiano seduti su enormi poltrone che si reggono su due ruote posteriori, in uno sfavillio di cromature e di orpelli. Ho incontrato uno di questi divani ambulanti ad un distributore, e vi ho curiosato attorno sotto lo sguardo sospettoso del proprietario. Il motociclo a tre ruote è ingombrante come un’auto, consuma come un’auto, costa più di un’auto, ma quando piove diventa in compenso una simpatica vasca da bagno viaggiante. Per rabbonire il padrone, un vichingo barbuto che sembrava Carlo Marx con casco e giubbotto di pelle, attacco discorso fingendo di elogiare il suo veicolo. Subito lui inizia a vantarmene le meraviglie con lo sguardo che gli si illuminava di commozione. Con quella sua aria patriarcale e la carrozzella cromata il suo aspetto era letteralmente quello di un nonno in carriola, il sussiego orgoglioso con cui parlava della creatura sembrava quello di un papà, ma l’impressione che alla fine mi rimane ad onta della barba è quella di un bambino un po’ cresciuto che continuava a giocare col suo triciclo prediletto.

***

La Germania è rimasta per molti anni un paese quasi sconosciuto. Non si poteva tuttavia fare a meno di incocciarvi contro, ingombrante com’è al centro dell’Europa. Lo si doveva obbligatoriamente attraversare ad esempio per recarsi ad Amsterdam o a Stoccolma, itinerari un tempo molto battuti per ragioni diverse ma complementari. Quasi nessuno sentiva il bisogno di indagare su cosa c’era al di là del guard-rail dell’autostrada, da cui si intravedeva solo un piattume desolato. I tedeschi che accoglievano a bordo gli autostoppisti erano bensì gentili, così come confortevoli erano le loro BMW o Mercedes, ma la meticolosità dei controlli alle frontiere lasciava sempre un vago senso di disagio.

Ancora più inquieto mi sono sentito una volta, quando nel fare autostop nei pressi di Basel, città a cavallo di tre stati, mi è atterrato a fianco un elicottero con tanto di aquila e la scritta Kriminalpolizei, che già con quella K evocava sinistre fantasie. Forse stavano cercando il Mostro dell’Autobahn che in quel tempo scorrazzava impunito mietendo vittime su e giù per le autostrade tedesche, notoriamente gratuite. Se avessero adottato le tariffe autostradali italiane, il pericolo sarebbe stato certo molto più contenuto.
Era comunque comprensibile che le autorità, in piena epoca Baader-Meinhof, non vedessero di buon occhio un personaggio barbuto e stazzonato come doveva essere ogni buon autostoppista. Dopo aver controllato le mie generalità il poliziotto volante torna in cabina, e qualche istante dopo compare un’auto biancoverde della Polizei terrestre.

La cosa si stava mettendo male, ma invece di rifilarmi un colpo nella schiena col dorso del fucile come succedeva a quel punto nei film, i nuovi venuti mi invitano gentilmente a bordo in un’inglese crudo ma perfetto. Sicuramente mi portano alla centrale per torturarmi nei sotterranei, pensavo.
Senza dire una parola, ma con l’aria più tranquilla del mondo, i due mi accompagnano invece fino al limite della loro giurisdizione, un centinaio di chilometri più a nord. Incredibilmente avevo ottenuto quel passaggio agognato da ore proprio da chi non l’avrei certo atteso.  
Magari avevano voluto sottrarmi al pericolo del mostro, o semplicemente togliere dalla strada un elemento così antiestetico e diseducativo, ma il senso di conforto che provo dopo quell’episodio mi apre uno spiraglio su quell’alieno mondo germanico fino ad allora imperscrutabile.

.


Ultima modifica di Arzak il Dom 09 Feb 2014, 10:10 - modificato 1 volta.
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Messaggio Da einrix Sab 08 Feb 2014, 17:17

Forse, non si poteva fare autostop sull'autostrada. Saranno stati comprensivi, trattandosi di un giovane straniero. Visto dall'elicottero, hanno chiamato una volante perché in qualche modo risolvesse il problema, e forse la volante, andava casualmente nella tua direzione.
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Messaggio Da Arzak Sab 08 Feb 2014, 20:04

Probabilmente. Comunque, nessun autostoppista, ammesso che ne esistano ancora, fa realmente autostop sull'autostrada. Io lo facevo all'ingresso, prima del casello, oppure nelle aree di servizio, andando ad importunare gli automobilisti. Molto più gentili e disponibili di quanto si pensi, fra l'altro.
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Messaggio Da Rom Dom 09 Feb 2014, 06:49

Arzak, evito le due o tre righe di premessa su quanta e quale sia la simpatia, la stima e, anche, la frequente sintonia tra le mie e le tue idee, e passo direttamente all'inevitabile "ma", che generalmente segue agli elogi.
Ho il sospetto che in questo "ma" si manifestino i miei limiti, o peggio, i miei difetti diciamo così ideologici, o psicologici, o caratteriali. Certo, certissimo, anzi probabile.
Ma.
Questi appunti non mi sono piaciuti.
Sono come un film di Pieraccioni. Anzi, come il quarto o quinto film di Pieraccioni, che ripropone la stessa, ormai solita banda di amici del bar, che vanno di qua e di là con la solita macchina scassata a fare i "poveri ma belli", che con gli occhi candidi smontano la sacralità di miti e riti durante le soste nel parcheggio in autogrill, mentre mangiano un panino con la frittata.
Più che un viaggio, questo film sembra una visita al museo degli stereotipi, fatta dallo stereotipo del viaggiatore fantasioso e irriverente.
Poco importa che sia tutto vero. Anzi, quella parte di verità che traspare è proprio ciò che fa venire voglia di qualcosa di diverso: qualcosa di più di una battuta. Specialmente se gli "appunti" non sono on the road, ma il ricordo messo in pagina a distanza di anni.
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Messaggio Da Arzak Dom 09 Feb 2014, 10:05

Rom ha scritto:Questi appunti non mi sono piaciuti...
Poco importa che sia tutto vero. Anzi, quella parte di verità che traspare è proprio ciò che fa venire voglia di qualcosa di diverso: qualcosa di più di una battuta. Specialmente se gli "appunti" non sono on the road, ma il ricordo messo in pagina a distanza di anni.
E' proprio il contrario: queste che leggi sono tra le prime cose che ho scritto, e quasi subito dopo i fatti narrati. Sono quindi impressioni al volo, senza rielaborazioni successive e senza pretesa di farne un'opera letteraria, senza una trama e persino senza personaggi che emergano dal bozzetto. Il titolo comunque preveniva sul contenuto: si tratta di appunti, non di storie.
D'altra parte già dal'inizio ero consapevole che non tutto può piacere a tutti. Per coloro che comunque questi appunti hanno bene o male gradito, e qui mi devo basare sul solo dato quantitativo delle visite, butto giù ancora qualcosa dal mio archivio. .
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Messaggio Da Arzak Dom 09 Feb 2014, 10:17

La cortina di freddo
Germania Orientale 1972

Col mio amico normanno Jean avevo mantenuto regolari contatti, e nell’inverno di quell’anno siamo ancora assieme nella vecchia Peugeot col proposito di passare il capodanno in Polonia, attratti dala fama di liberalità delle ragazze locali.
Partiamo la mattina del 24 dicembre da Genova col sole, ma appena passati gli Appennini troviamo la prima neve. Avevamo lasciato alle spalle un mite inverno mediterraneo per immergerci definitivamente nell’inverno vero, quello rigido del Nord Europa, e le due estremità del tunnel dei Giovi che unisce la pianura padana alla Liguria sembravano le porte di due mondi contigui ma separati. Pareva impossibile credere che in quel momento sulla passeggiata di Nervi, a pochi chilometri da lì, c’era gente che prendeva il sole a torso nudo.
Neve bianca e cielo grigio ci accompagnano fino a Monaco dove arriviamo a tarda sera. Una sosta per rifocillarci, poi trattenendo il respiro ci inoltriamo nel buio fino al confine con la Germania Orientale, la temibile DDR.

E difficile far capire a chi non lo abbia provato cosa voleva dire attraversare la frontiera che divideva due mondi che si puntavano reciprocamente contro centinaia di missili nucleari. Era come entrare in un libro di Le Carrè, ma molto più tremendamente reale, e la fama sinistra di cui era circondata in particolare la sedicente Repubblica Democratica Tedesca non aiutava certo a tranquillizzarci.
Un insieme di fili spinati, sbarre, campi minati e torrette di controllo, il tutto immerso in una fredda nebbia illuminata di arancione. L’apparizione più preoccupante è però quella della polizia “popolare”, i famigerati Vo-po, coi loro elmetti a paiolo che ricordavano vagamente quelli nazisti.

È stato altresì arduo spiegare a quei buontemponi e ai cani lupo che li accompagnavano cosa diavolo ci facessero in giro la notte di Natale due personaggi come noi. Anche l’itinerario era poi inconsueto, tutt’al più i tedeschi occidentali andavano a Berlino Ovest, stando bene attenti a non mettere il naso fuori dell’autostrada e a non superare il tempo consentito. Nessuno si sognava di inoltrarsi nella DDR, la tendenza era piuttosto quella di cercare di uscirne a tutti i costi.
Dopo un attento ed estenuante controllo di documenti, borse, valigie, libri e tasche ci viene concesso il sospirato visto di transito di dodici ore. Troppo scalcagnati per essere delle vere spie americane, devono aver pensato quegli scrupolosi poliziotti  tornando intirizziti alle loro baracche. Anche loro, dopo tutto, avevano diritto ad un po’ di calduccio in una notte come quella.

L’autostrada apparteneva a quella rete di arterie costruite ai tempi del Grande Reich per agevolare la penetrazione verso l’Est, e da allora non aveva più subito alcuna manutenzione. Dopo un po’ il rumore ritmico delle ruote sugli interstizi dei lastroni di cemento del fondo stradale diventa ipnotico come quello del treno. Tu-tun tutun, tu-tun tutun...
In un’atmosfera spettrale ci scorrono davanti i nomi astrusi delle località che attraversavamo (Reichenbach, Karl-Marx-Stadt, Dresden...), senza che ci riuscisse di scorgere né una casa né un’auto né una persona. Sembrava che l’intera Germania Orientale quella notte fosse sprofondata nella nebbia e nel gelo con tutti i suoi veicoli ed i suoi abitanti, risparmiando solo quell’autostrada fantasma che portava verso il nulla.

Ad un certo punto però emerge dal buio una figura che ci faceva dei cenni. Si trattava  di un vecchietto scheletrico, infagottato in qualcosa che sembrava un vecchio cappotto militare, che si infila subito in auto iniziando a borbottare in dialetto sassone lamentandosi di qualcosa, senza assolutamente porsi il problema se capissimo o meno. Ya, ya, commentavamo tutti seri quando ci sembrava il caso. Sicuramente pensava che fossimo dei suoi connazionali provenienti dalla città più vicina (i cittadini sono sempre poco loquaci). Quando inizia ad accorgersi che nei nostri ya c’era qualcosa che non andava ci decidiamo a confessargli che eravamo degli stranieri provenienti dal mitico e denigrato Mondo Occidentale (Frankreich, Italien!, ripeteva il poveretto per convincersene).
Se gli avessimo raccontato che eravamo degli extraterrestri provenienti dal pianeta Papalla e che la Peugeot era in realtà un’astronave aliena il vecchietto non avrebbe potuto essere più sbalordito. Doveva essere almeno dal 1945 che non vedeva un forestiero, e chissà in quali imbarazzanti circostanze era avvenuto quell’ultimo incontro. Quando scende pochi chilometri più avanti si prodiga in ringraziamenti, poi viene di nuovo inghiottito dal limbo tenebroso da cui proveniva.

L’episodio aveva ravvivato la conversazione, e subito ci sbizzarriamo a fantasticare sulla strana apparizione. Per me era un fantasma, dice Jean. D’accordo, concedo, ma di chi?  Forse di un reduce dal fronte russo che non aveva trovato la strada di casa, o magari di un carnefice delle SS rimasto insepolto e condannato a vagare per l’eternità senza pace per espiare i delitti commessi. O piuttosto si trattava addirittura dello spettro di un soldato di qualche guerra napoleonica...
Dopo qualche tempo la stanchezza torna però a prendere il sopravvento. Passo al volante per dare il cambio a Jean, e il rumore ritmico delle ruote torna a cullarci pericolosamente. Fisso il buio che le luci dei fari faticavano a penetrare immaginando di vedere le ombre dei fantasmi che abitavano quelle lande lottando contro l’inesorabile abbassamento delle palpebre.

All’improvviso ho un sobbalzo. Un forte rumore di martello pneumatico mi penetra le orecchie creando un lancinante senso di pericolo. Il fondo stradale era cambiato, ed ora era formato da migliaia di sconnessi cubetti di pietra, divenuti lucidi per l’usura, che vibravano al nostro passaggio. Niente di preoccupante, ma quando alla prima curva tocco il freno la macchina scivola elegantemente sulla superficie ghiacciata finendo contro un palo.  Meno male che Jean continua a dormire, ma mi chiedo cosa sarebbe successo se invece finivamo nel fossato. Senza un carro attrezzi in vista, senza un telefono, senza un marco, senza un cane a cui chiedere il minimo aiuto. E con un visto a orologeria, scaduto il quale saremmo divenuti dei pericolosi fuorilegge. Probabilmente saremmo stati inghiottiti anche noi dalla nebbia ghiacciata, diventando dei fantasmi senza pace come l’ectoplasma che ci aveva chiesto un passaggio.

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Messaggio Da Amiter Dom 09 Feb 2014, 12:53

Ho conosciuto la Germania più di 30 anni fa... e l'ultima volta ci sono stato 5 anni fa (e a breve dovrò tornarci) e devo dire che la gente è sensibilmente cambiata.
Confermo che all'epoca gli italiani venivano spesso guardati come degli insetti... io ero poco più che un bimbo, e capitava non di rado, specie con i più anziani ('sti vecchi, lo dico sempre io che tocca 'mmazzàlli da piccoli!), che ti si rivolgessero in lingua stretta fingendo di non capire le rudimentali frasette che sapevo dire...
Una volta ad esempio, solo per aver chiesto un'informazione, mi sono sentito dire... "Ahaaa... 'taliani... MAFIA!"
A ripensarci... mi stupisce come un anziano signore potesse accusare di mafia un ragazzino...
Inoltre capitava anche spesso che quando facevi spese ti fregassero sul conto... questo per la verità succede ancora ai nostri giorni nella civilissima Londra... altro che Roma o Napoli, qui siamo dei dilettanti in confronto...

Oggi le cose sono decisamente diverse... i tedeschi sono estremamente cortesi coi turisti, molto più di quanto ci vantiamo qui in Italia... e al più ti si rivolgono in inglese...



Cmq Arzak... m'hai fatto ammazza' da le risate...

"Fino ad allora ero abituato a pensare alla Germania come ad un regno dei ghiacci, e non immaginavo che potessero crescervi frutta e vegetali come da noi."

... magari in pieno agosto ti eri vestito così?
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Messaggio Da Arzak Dom 09 Feb 2014, 13:03

Nella civilissima Londra sono talmente abili nel depredare i malcapitati da averci costruito sopra un Impero.
I Tedeschi di oggi sono in effetti molto civili e democratici, quasi avessero qualcosa da farsi perdonare...
Gli austriaci, tanto per generalizzare, non si peritano invece di darci dei mafiosi ancora oggi. Sulle responsabilità storiche sono invece abili entrambi nel palleggiamento: i tedeschi danno la colpa al caporale austriaco, gli austriaci accusano i tedeschi...
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Messaggio Da einrix Dom 09 Feb 2014, 14:51

La prima volta che uscii dall'Italia, a diciassette anni, andai in Svizzera a trovare una ragazza a Kreuzlingen sul Bodensee e poi a Solothurn, nel canton Soletta, a trovare degli amici conosciuti anche loro al mare. Era settembre e partii in treno da Rimini. Forse cambiai a Milano, ma quando arrivai a Chiasso, insieme ad un nugolo di emigranti, un controllore ci fece scendere tutti dal treno e seguii la coda che credevo si dirigesse ad un controllo di frontiera. Invece la coda proseguì verso un fabbricato che riconobbi come luogo improprio per i miei scopi, quando l'avevo ormai raggiunto. Li si facevano le visite mediche ai lavoratori che stavano emigrando in Svizzera, ed io ero l'unico di quel treno che nel '56 andassi in Svizzera come turista. Rifeci a piedi quel chilometro circa, rientrai in stazione e presi il primo treno che mi portasse a destinazione. Quando dopo molte ore scesi alla stazione di Kreuzlingen, mi diressi verso il primo locale che mi permettesse di mangiare qualche cosa, ancora prima di cercare un albergo. Appena mi presentai sulla porta  della gästehaus, la cameriera mi venne incontro e come prima cosa mi disse: wir haben Keine Zimmer (non abbiamo camere) ripetendolo più di una volta, come se non lo potessi capire. Risposi che volevo mangiare e che non cercavo camere, almeno in quel momento. Il giorno dopo capii perché. Avendomi riconosciuto come italiano e pensando che fossi un migrante, mi stava dicendo che quello non era un locale per me. Gli italiani stazionavano sulle panchine delle stazioni, come fanno da noi in questi anni gli immigrati privi di alloggi confortevoli. E appena passava una ragazza, vedevi che a coppia la seguivano per attaccare bottone, cose che non dovevano piacergli molto. In genere, se erano occupati, lavoravano come manovali e muratori. Alloggiai per qualche giorno al Bahnhof Hotel che si trovava proprio di fronte all'ingresso della stazione. Non ero molto informato su cosa fosse Kreuzlingen, interessato com'ero alla ragazza che avevo conosciuto l'estate al mare, così un giorno, quando mi allontanai per una passeggiata più lunga del solito, in una bella strada molto larga, vidi un posto di polizia che mi chiese i documenti. In realtà stavo attraversando senza accorgermene la frontiera svizzero-tedesca e stavo entrando nella bella e importante città di Costanza, sul lago omonimo, che gli svizzeri chiamano Bodensee. Li comperai un piccolo regolo calcolatore Nestler che è ancora uno dei cimeli che si trovano sulla mia confusa scrivania.
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Messaggio Da Arzak Dom 09 Feb 2014, 15:47

Già. Ma la ragazza??? Appunti di viaggio - Germania 2237596903 
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Messaggio Da cireno Dom 09 Feb 2014, 17:24

Scusa Arzak se posto qui una storiella che ora racconterò.

Avrei voluto rispondere al thread su Aleksis Tsipras. Non so come mai ma anche se ho chiesto la connessione automatica questa non c'è più da giorni. Allora vado su ACCEDI, metto il nick, la pass, il forum mi dice Ciao Cireno, vado sul thread, clicco, e la connessione sparisce. L'ho ripetuta sette volte, sempre con lo stesso risultato. Sono riuscito a collegarmi solo qua. 
Che vuol dire?
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Messaggio Da Arzak Dom 09 Feb 2014, 17:37

E' possibile che tu abbia aperto due pagine in contemporanea, una con l'accesso già fatto ed una no, ed il sistema si confonde. In questi casi consiglierei di spegnere tutto, browser e pc, e cominciare da capo. Prova e sappimi dire.
La connessione automatica sparisce ogni tanto anche a me. In questo caso è il browser che per qualche misteriosa ragione non ritrova i suoi cookies, e richiede l'accedi.
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Messaggio Da einrix Lun 10 Feb 2014, 10:41

Arzak ha scritto:Già. Ma la ragazza??? Appunti di viaggio - Germania 2237596903 

Era carina, brava, simpatica, gentile, mi scriveva lettere con carta profumata e cuoricini messi un po dappertutto. Anche lei sognava, come me del resto, e le volevo bene come ne voglio sempre alle donne brave e buone che sappiano sorridere. Un conto era al mare, in piena libertà, senza vincoli, e un conto è quando ti ritrovi nella realtà del tuo ambiente, anche se intessuto di fili d'oro, specie per una ragazza. Ho sempre compreso il senso di quelle situazioni, la delicatezza di quello stato della coscienza in bilico tra il dovere ed il desiderio, e non ho mai voluto forzare quell'equilibrio in un senso piuttosto che nell'altro. Era bello così ed avevo di fronte a me un'altra stupenda e ricca avventura della vita che meritava di non essere sciupata. Qualche tempo dopo non ci scrivemmo più, ed io feci altri viaggi verso altre mete della conoscenza e del desiderio, sin che alla fine, alcuni anni dopo incontrai mia moglie.
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Messaggio Da Arzak Lun 10 Feb 2014, 10:45


Il ghetto dorato
Monaco-Berlino 1989

Le seconda esperienza della DDR è meno cupa ma più blindata. Il treno Monaco-Berlino arrivava alla frontiera nella località di Hof-Gutenfürst dove veniva preso in consegna dalla polizia orientale. Da lì in poi nessuna fermata, e per evitare che qualcuno potesse acchiapparlo al volo per rifugiarsi a Berlino Ovest alcuni militari restavano aggrappati al predellino esterno per tutto il viaggio. Nessun contatto era possibile fra il convoglio e il territorio attraversato, tanto da far pensare che lo scenario che scorreva dai finestrini non fosse che un film proiettato su di un telo, giusto per dare l’impressione del movimento come si vede in qualche vecchia pellicola.

Questa volta il panorama era gradevole. Era un giorno di luglio, e davanti ai nostri occhi scorrevano le colline e le vallate della Turingia in tutto il loro rigoglioso splendore. Sulle strade il traffico era costituito esclusivamente da Trabant, il veicolo che rappresentava l’orgoglio dell’industria automobilistica della Germania Orientale. Con i suoi fanaloni, l’abitacolo microscopico e  le alette sulla coda era identica all’auto di Topolino, da cui i progettisti l’hanno sicuramente copiata. Era un modello talmente ambito (anche perché era pressochè l’unico) che la consegna veniva effettuata almeno dieci anni dopo la prenotazione. Ci veniva da sorridere quando scorgevamo in lontananza questa improbabile automobilina giocattolo sferragliare disinvolta sulle strade come se si trattasse di un’auto vera. Quando poi ai passaggi a livello se ne accumulavano cinque o sei con i loro diversi colori pastello, invece che nella temuta Germania Comunista sembrava di essere a Paperopoli.
La carrozzeria era comunque di una resina talmente indistruttibile che al momento di rottamarle è stato necessario sottoporle all’attacco di una particolare coltura batterica…

L’atmosfera ridiventava però nuovamente tesa alla nuova frontiera, quella con l’enclave di Berlino Ovest. Ricompaiono i Vo-po, la cortina di filo spinato e i controlli minuziosi, e subito aleggia di nuovo l’odore della guerra fredda. Il treno continuava verso Berlino Est dove avrebbe incontrato una terza frontiera, ma noi scendiamo alla stazione dello Zoo, in quella disordinata e rassicurante confusione tipica del decadente mondo capitalista. In uno spiazzo un gruppo di indios peruviani suonava Guantanamera.

Berlino Ovest 1989

I berlinesi sono dei personaggi incredibili, se si pensa che fino all’aprile del 1945, quando la città non era ormai che una distesa di macerie e i russi erano a tre fermate di autobus dal centro, la posta continuava ad essere regolarmente consegnata e la spazzatura ritirata come se nulla fosse successo. Alla fine del mese, quando i russi entrarono in forze, i postini ed i netturbini si presero bensì qualche giorno di ferie, ma gli addetti alle fabbriche di birra proseguirono impassibili la loro benemerita attività indifferenti a bombe, massacri ed occupazione sovietica.

Prima dell’89 la parte occidentale di Berlino, per la sua particolare situazione di città assediata, viveva una strana atmosfera irreale, quasi di paese. Il disagio rendeva i suoi abitanti più umani e solidali che in qualunque altra parte della Germania. Nel Tiergarten ad esempio, il parco che occupa gran parte della città, si formavano gruppi di musicisti improvvisati, di sera le ragazze giravano da sole in bicicletta nel buio senza paura, e c’era addirittura chi, nelle notti più calde, vi si trasferiva col proprio letto matrimoniale da casa  per dormire sotto gli alberi.

Berlino Ovest era allo stesso tempo un’isola, un carcere, un ghetto dorato, ma soprattutto un’anomalia storica e geografica unica al mondo. Un’isola nel mar rosso della Germania Orientale, un carcere per il muro invalicabile che la circondava e un ghetto dorato per l’opulenza che non mancava di sbandierare in faccia ai suoi dirimpettai orientali per farli macerare di invidia. Un esempio di tale atteggiamento si ebbe quando per un concerto dei Pink Floyd venne sadicamente scelta la piazza del Reichstag, dove a cento metri di distanza, al di là del muro (The Wall…), i giovani berlinesi dell’Est tendevano pateticamente l’orecchio per rubare qualche nota di quello show che a loro veniva negato.

Erano due mondi incompatibili, separati dalla storia ma interconnessi dalla geografia. Il confine poteva separare le strade e le case, a volte brutalmente tagliate a metà, ma non poteva interrompere l’aria, l’acqua dei canali o le fognature, tutti mezzi usati per tentare di evadere dalla zona orientale. Ugualmente complicata la situazione delle linee elettriche, telefoniche e ferroviarie. Capitava in qualche percorso della metropolitana sotterranea, la U-bahn, di sforare nella zona orientale, il cui confine sotterraneo non coincideva con quello di superficie.
Era come viaggiare nella macchina del tempo quando il treno emergeva dal tunnel e piombava sferragliando senza fermarsi in una stazione abbandonata dal ’45. Il marciapiede, presidiato da Vo-po con relativi cani lupo, era illuminato solo da qualche fioca lampadina in un grigio sfondo di macerie e di sbiadite scritte in un antiquato gotico tedesco. Alla stazione successiva luci colori, pubblicità e una folla multietnica annunciavano il ritorno ai giorni nostri nel settore occidentale.

Anche la linea sopraelevata, la S-bahn, sconfinava in alcuni punti permettendo di spiare dall’alto il territorio nemico. Curiosamente i suoi vagoni, pur circolando sui binari occidentali, erano gestiti dalla Germania Orientale, tanto è vero che portavano l’indicazione DR dell’azienda ferroviaria dell’Est, la Deutsche Reichsbahn, lo stesso nome d’anteguerra. Chissà perché gli orientali non avevano sentito il bisogno di cambiare quel nome che ad alcuni poteva suonare un po’ sinistro, specialmente per chi vi aveva viaggiato gratuitamente in itinerari di sola andata.

***

Ci insediamo dai nostri amici italo-tedeschi, Luciana e Peter, in un palazzo di epoca guglielmina, costruito completamente in legno, nel quartiere di Charlottenburg. Vicino sorge il castello omonimo, e poco più in là l’interessante Museo Egizio dove è possibile ammirare il busto in pietra di Nefertiti, moglie di Amenofi IV, a detta di alcuni intenditori la donna più bella di tutti i tempi. L’occhio un po’ rovinato le toglieva in effetti parecchio della sua avvenenza, ma la consapevolezza di trovarsi davanti ad una signora vecchia di 3500 anni incuteva comunque un certo rispetto.

Altro museo da vedere è quello dei Trasporti. Sorge all’interno di un vecchio deposito di locomotive, alcune delle quali, veri cimeli dell’epoca del vapore, sono collocate intorno alla piattaforma girevole che ne permetteva l’immissione sulla rete. Col tempo il museo si è trasformato in un’esposizione della Scienza e della Tecnica, ed è possibile assistere dal vivo ad alcuni esperimenti di fisica.
Il mio interesse si è particolarmente acceso però quando in mezzo alle motrici e ai vagoni d’epoca ho scoperto proprio uno di quei carri merci tristemente famosi, con cartello illustrativo e foto dei deportati.

Era la prima volta in Germania che coglievo un fugace accenno a quell’enorme tragedia. I tedeschi più anziani preferiscono non parlarne, quelli più giovani hanno le idee confuse, situazione che ha permesso il diffondersi di teorie secondo le quali le foto dei campi di sterminio sono frutto di abili fotomontaggi. D’altra parte, il film Schindler list non era forse di Spielberg, un regista ebreo famoso per gli effetti speciali? Non meraviglia che ci sia qualcuno sinceramente convinto che Hitler fosse il capo dei Naziskin.

C’è in realtà a Berlino un monumento all’Olocausto. Per non esagerare con l’autodenigrazione i tedeschi vi hanno dedicato un piccolo cubo di circa 50 cm di lato posto in una piazzetta vicina a Ernst Reuter Platz. La scritta recita: Alle vittime del Nazionalsocialismo. Curiosamente però a pochi metri di distanza sorge un altro cippo, del tutto uguale e simmetrico al primo, che dice: Alle vittime dello Stalinismo. Come dire, noi l’abbiamo fatta grossa. Pure quelli però...
Tocca alla Storia valutare se i sanguinosi delitti commessi dalle due dittature siano effettivamente equivalenti. Lì però eravamo in Germania, non in Russia. Perché non aggiungervi allora un monumento alle vittime delle dittature sudamericane o asiatiche? In realtà il secondo cippo aveva tutta l’aria di recriminare non tanto per le vittime innocenti russe di Stalin, quanto per il fatto che l’Unione Sovietica aveva vinto la guerra infliggendo, com’era inevitabile, sanguinose perdite ai tedeschi grazie soprattutto all’ottusa protervia dei loro stessi capi.

***

Un monumento alla disumanità del regime che imperava all’Est d’altra parte c’era già, ed era il più grosso di tutti. Il Muro.
I muri in realtà erano due. Invalicabili, separati da una decina di metri di campo minato, presidiati giorno e notte da militari che venivano cambiati quotidianamente, muniti di congegni automatici di sparo che fulminavano chiunque volesse tentare l’impossibile. Eppure l’effetto di repulsione da una parte e di attrazione dall’altra ha talmente stimolato la fantasia degli insofferenti che decine di questi sono riusciti a gabbare la polizia orientale con i più vari stratagemmi.
Il risultato di questi sforzi è raccolto in un curioso museo posto nelle vicinanze di quello che per molti anni è stato il Checkpoint Charlie, il valico americano più famoso. Mongolfiere, teleferiche, sottomarini artigianali, surf scavati all’interno, auto col doppio fondo, casse da morto, tutto serviva per sfuggire ai controlli di frontiera. Chi scappava attraverso le fogne, chi scavava cunicoli, chi nuotava sott’acqua, chi scambiava i documenti con quelli di occidentali in visita, chi si confezionava in casa finti abiti militari delle potenze occupanti. È un piccolo campionario dell’inventiva umana, che farebbe sorridere se non fosse la testimonianza di una tragedia vissuta per decine di anni. Quelli che alla disperata si lanciavano con l’auto contro le barriere o cercavano di scavalcare, il più delle volte venivano inesorabilmente falciati.

C’era una strana atmosfera nelle vicinanze del Muro. Pur trovandosi nel cuore della città, vi si viveva un’aria da periferia. La case erano fatiscenti, abitate da turchi o da occupanti abusivi, le strade erano abbandonate e ricoperte dalla vegetazione, il traffico languiva. Era il limite del mondo, più oltre sorgeva il Nulla. Sulle pareti del Muro si esercitavano artisti di ogni paese, con risultati sorprendenti. Particolarmente efficace quell’immenso murale che raffigurava la parte orientale della città come sarebbe apparsa se il Muro non ci fosse stato, creando una suggestiva impressione di trasparenza. Un’illusione ottica, che nessuno in quell’agosto 1989 credeva così vicina a diventare reale.
Qualcosa però si stava muovendo, e voci di un certo nervosismo filtravano anche attraverso il cemento del Muro. Proprio mentre eravamo nelle vicinanze di esso un giovane occidentale, come atto di protesta contro quell’ingiustizia trentennale, decide di sdraiarsi per terra ad uno dei valichi proprio attraverso la linea di confine.
C’è voluta una riunione d’emergenza delle Quattro Potenze occupanti per decidere da che parte della linea il contestatore doveva essere tirato via per ricevere la razione dei calci nel sedere che gli spettava per aver creato un incidente internazionale, ed è soltanto grazie alla distensione degli ultimi anni che l’audace non è stato mitragliato nella sua metà di corpo che sconfinava ad est.

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Messaggio Da Arzak Lun 10 Feb 2014, 12:23

einrix ha scritto:Era carina, brava, simpatica, gentile, mi scriveva lettere con carta profumata e cuoricini messi un po dappertutto.
Mi hai fatto venire in mente un'altra spedizione oltrefrontiera in 500, questa volta in Svizzera. L'amico Massimo ed io eravamo riusciti ad abbindolare due ragazze, che incredibilmente ci portano nella casa di una di loro momentaneamente priva dei genitori.
L'idillio dura una sola notte, ma la corrispondenza cartacea dura a lungo. In una di queste missive la mia bella si sbilanciava in un lirismo insospettato: "sei entrato nella mia vita come una folata di vento...". Ciuspi.
Dopo qualche giorno mi telefona Massimo.
- Dì, ma lo sai che mi ha scritto la "mia"? Devo aver fatto colpo, senti cosa dice: "sei entrato nella mia vita come una folata di vento..."

Impossibile che l'avessero concordato, potevano ben immaginare che ce lo saremmo confidato. Probabilmente hanno attinto entrambe ad uno di quei libretti allora in voga, tipo "Il segretario galante", che confezionavano lettere standard per gli innamorati privi di fantasia...
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Messaggio Da einrix Lun 10 Feb 2014, 13:21

su questo argomento:

"Tocca alla Storia valutare se i sanguinosi delitti commessi dalle due dittature siano effettivamente equivalenti.  "

 C'è un libro di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, che dà una risposta articolata ed interessante. Risposte meno specifiche, ma estremamente lucide sul totalitarismo, le da anche K. Popper nella sua opera La società aperta ed i suoi nemici.
Due letture complesse che consiglio a chiunque voglia approfondire l'argomento.
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Messaggio Da Arzak Lun 10 Feb 2014, 18:11

Sull'episodio svizzero che ho raccontato mi è venuta in mente un'altro particolare. La "mia" bella non era in realtà svizzera, ma sudtirolese. Nonostante parlasse dunque la stessa lingua ed appartenesse alla stessa cultura germanico montanara, mi diceva che il solo fatto di essere di nazionalità italiana le creava parecchi problemi, diciamo di insofferenza, da parte degli svizzeri tedeschi.

Sulla questione "simpatia" fra europei, un mio amico tedesco sostiene che gi screzi maggiori sorgono fra i confinanti. Italiani e tedeschi tutto sommato si tollerano, ed in alcuni casi si apprezzano. Fra italiani e svizzeri o austriaci, la ruggine è invece spessa e consolidata...

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Messaggio Da einrix Lun 10 Feb 2014, 20:01

Era austriaca di confine anche quella cameriera che mi disse subito che non c'erano camere, e perciò anche lei immigrata in Svizzera. Non c'erano solo manovali italiani a Kreuzlingen, ma anche cameriere austriache.
In quello stesso anno, pochi mesi dopo, agli inizi di Novembre, andai, senza che i miei lo sapessero, a Klagenfurt, dove abitava una ragazza che mi piaceva molto, e che avevo conosciuto al mare alcuni anni prima. Quando arrivai alla stazione di Klagenfurt, mi rivolsi per una informazione ad un poliziotto. Dopo avermela data, mi chiese se ero svizzero, per l'accento che mettevo nel parlare tedesco. Quando gli risposi che ero italiano, si irrigidì sull'attenti, fece dietro front e si allontano rapidamente: era il 4 Novembre, per noi un giorno di vittoria e la fine della guerra, mentre a loro ricordava la sconfitta.
In quegli anni di dopo guerra - la seconda guerra, questa volta - l'Austria era ancora a pezzi, occupata sino a pochi anni prima anche dai russi, e lo si vedeva dai vecchi autobus che circolavano, molto peggio di quelli che avevamo noi in Italia, ed era così anche per tutto il resto. Anche quella fu una esperienza roccambolesca e formativa sotto molti aspetti. Basti pensare che i miei mi sapevano a Brindisi dove facevo il IV anno dell'istituto nautico, mentre attraversavo l'Italia e finivo in Austria correndo dietro ai miei sogni ed alle mie emozioni.
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Messaggio Da Arzak Mar 11 Feb 2014, 10:14


Il vento dell’Est

Berlino Est  1989


I nostri amici, che si erano assunti il compito di farci conoscere la vera Berlino, ci portano a mangiare in una Kneipe. Si tratta di uno di quei locali cupi e fumosi che risalgono agli inizi del secolo scorso, frequentati solo da berlinesi autentici e dove vengono serviti autentici cibi berlinesi.

Doveva essere veramente affascinante la Berlino di allora, a giudicare dalle foto che parlano di un posto che non c’è più. Tram a cavalli, signore con l’ombrellino, cabaret pieni di vita dove una Marlène cantava in calzamaglia e cilindro davanti ad un pubblico cosmopolita. Era l’apogeo del vero spirito berlinese, fatto di umorismo e genialità, verve e buon gusto. Fino a quando il rumore ritmico degli stivali chiodati non spazzò via per sempre quello delle orchestrine.

Sembra impossibile che una città così mondana e sofisticata abbia sopportato le urla di quel delirante caporale austriaco, e in effetti non le accolse mai con troppo entusiasmo: gran parte della folla plaudente che si assiepava alle sfilate era costituita da seguaci appositamente cammellati a migliaia da Monaco per rimpinguare la scarsa adesione dei berlinesi e non sfigurare nei cinegiornali. È un po’ un luogo comune identificare la Germania di quegli anni col nazismo, e purtroppo i luoghi comuni sono spesso drammaticamente veri. Non occorre però dimenticare che nelle ultime elezioni libere mezza Germania votò contro Hitler, percentuale che a Berlino raggiunse l’ottanta per cento.

Saranno pure stati autentici i cibi berlinesi, ma il nostro palato mediterraneo non ne sembrava entusiasta. Torniamo a casa ancora affamati, senza però avere il coraggio di confessarlo ai nostri amici. Prima di andare a letto con lo stomaco che reclamava ci affacciamo al balconcino che dava sulla trafficata KaiserFriedrichstrasse per guardare il passeggio, quando sul marciapiede di fronte scopriamo miracolosamente un’insegna: Ristorante Italiano da Delfino. Ci guardiamo senza parlare, poi zitti zitti e quatti quatti per non farci sentire ci rivestiamo e prendiamo la porta di casa sentendoci davvero un po' come Totò e Peppino divisi a Berlino.
Era un vero ristorante italiano dove si parlava italiano, non uno di quelli finti gestiti da turchi, e l’entusiasmo va alle stelle. Ci sediamo al tavolo eccitati come due scolaretti che forcano la scuola e accarezziamo con gli occhi il succulento menù. Davanti ad un piatto di paglia e fieno con funghi porcini e panna come quello che ci capita davanti, e ad un bicchiere di vero Chianti, anche il Kaiser Federico, ne sono sicuro, sarebbe sceso da cavallo dalla sua statua e si sarebbe accomodato da Delfino, il salvatore degli affamati.

***

Per qualche giorno ci culliamo negli ozi e nei vizi della rutilante metropoli capitalistica, poi alla fine ci decidiamo. Non si poteva farne a meno, occorreva visitare Berlino Est.
Non era un lungo viaggio. Bastava prendere la metropolitana per Friedrichstrasse (senza il Kaiser, ma era sempre lui) e il confine era lì, in uno di quei passaggi sotterranei ricoperti di piastrelle bianche come in un’enorme toilette pubblica. Era la prima volta che attraversavo un confine sottoterra, e la mia vecchia sindrome da frontiera torna a fare capolino.

Era la stessa ansia che mi assaliva da studente prima di un esame importante, quando a dispetto di ogni oggettività statistica mi si affacciavano alla mente le ipotesi più nere: magari mi chiede proprio quella pagina che non ho studiato, mi viene una crisi di amnesia, il professore è di pessimo umore perché ha litigato con la moglie...
Gli esiti però in questo caso potevano essere ben peggiori. Ricordo ancora con terrore il buio che mi si è aperto davanti quando all’aeroporto di New York sono stato scambiato per un italiano quasi omonimo agente del SID, fra l’altro imputato di strage; sapendo per giunta che un mio amico per aver infilato un senso vietato in bicicletta aveva passato tre giorni in una galera californiana fra assassini e stupratori. Questo in America, terra della libertà. Figuriamoci se capitava qualcosa del genere in Germania Orientale, paese ricettacolo delle peggiori nequizie.

Consegno con un sorriso stereo il passaporto al funzionario germanico, poi resto ad attendere. Come nei miei peggiori incubi frontalieri il tipo mi squadra, confabula con i commilitoni, poi mi fa cenno di entrare nell’ufficio. Ecco, ci siamo, penso avvilito. Magari somiglio a qualche ricercato, e già mi immagino un trasferimento alla Lubianka di Mosca per essere affidato alle cure del KGB.
Il reato consisteva in un passaporto insolitamente ricco di timbri e in una foto non perfettamente incollata, probabile indizio di contraffazione. Mi affanno ad esibire altre tessere e documenti con la mia faccia, e dopo due ore di angoscia e di consultazioni ad alto livello il problema viene brillantemente risolto con una pennellatina di colla apposta dal volonteroso milite.
- Sa, è per quando esce. - mi fa burbero il poliziotto restituendomi il documento, e subito il sollievo mi si strozza in gola. Già, mi ero dimenticato che il problema non era quello di entrare all’Est, ma quello di uscirne vivi. Non era stato quindi per sadismo che mi avevano bloccato, ma per evitarmi guai maggiori quando il mio passaporto sbrindellato sarebbe finito in mano ai gendarmi che dovevano avallare il mio ritorno all’Ovest.

Superato momentaneamente lo stress usciamo all’aperto, e finalmente Berlino Est ci appare in tutta la sua splendida desolazione. Non una luce, un colore, un’auto. Orribile a dirsi, nemmeno un cartello pubblicitario. Solo case grigie, viali immensi, piazze sconfinate e tetri monumenti del passato ancora crivellati di proiettili come se la guerra fosse finita il mese prima. In sovrappiù la temperatura scende immediatamente di quindici gradi, inizia a soffiare un vento siberiano mentre in lontananza pareva di sentire un suono di balalaike e un coro di cosacchi che cantavano Kalinka.

Al ritorno raccontiamo il fenomeno agli amici, e questi ci confermano che è proprio così. Sarà stato per le strade più ampie, per l’assenza del traffico o per qualche altra misteriosa circostanza psicometereologica, ma appena arrivati all’Est fa subito più freddo.
Stringendoci nei nostri giacchettini vediamo finalmente la porta di Brandeburgo da dietro, con la stessa emozione degli astronauti che videro per la prima volta la faccia nascosta della Luna.
Con una differenza: i cavalli che sovrastano la porta, originariamente rivolti ad Ovest a simboleggiare l’auspicata conquista di quel mondo, dopo la guerra sono stati girati verso Est. E chi vuol intendere, intenda.

Percorriamo l’Unter den Linden, e dopo qualche centinaio di metri ci imbattiamo nel Museo di Stato. Per dare un tono culturale alla nostra visita decidiamo di dargli un’occhiata. All’interno campeggiava l’imponente Altare di Pergamo, un tempio ellenistico a forma di vecchia macchina da scrivere come l’Altare della Patria a Roma. Mi accorgo con sorpresa di conoscerne ogni dettaglio pur non avendolo mai visto, poi ricordo che molti anni prima, a scuola, era stato oggetto di una elaborata esercitazione di disegno prospettico  senza che mi fossi mai chiesto dove si trovasse l’originale. Anzi, fra noi ragazzi lo chiamavamo l’Altare di Bergamo, pensando in buona fede ad un errore di stampa.

Più avanti ci capita di assistere alla cerimonia del cambio della guardia al monumento ai caduti. Elmetti a paiolo, stivali lucidi, passi tesi e scattanti intimidiscono sia noi che la piccola folla che vi assisteva. Scatto (da lontano) una fotografia, e al ritorno a casa mi accorgo che era la copia identica di quella che compariva su di un libro. Stesso posto, stessi stivali, stesse facce severe. Cambiava solo la data, 1938.

Arriviamo quindi fino all’immensa Alexanderplatz, con la sua torre della posta, una cuspide sormontata da una sfera visibile da tutta Berlino. Se quello era il centro della città, non si poteva dire che fosse palpitante di vita. In giro poca gente, infreddolita e frettolosa, con l’aria di chi pensa ai fatti propri.
Per annusare l’atmosfera ci inoltriamo in un quartiere dall’aria più popolare, caratterizzato da grossi edifici in stile sovietico. Probabilmente erano stati tutti disegnati dallo stesso architetto russo che si era ispirato ad una figura geometrica semplice ed impressiva, il parallelepipedo, facendola diventare l’archetipo di migliaia di cloni, diffusi in tutto l’Est europeo, di uguali forme e dimensioni. Altri palazzi erano invece quelli scampati ai bombardamenti della guerra e all’incuria del dopoguerra. Colore dominante, il grigio, in tutte le sue accattivanti sfumature e gradazioni.

Ci incuriosisce poi una grossa costruzione intorno a cui ferveva un insolito movimento, e scopriamo che si trattava di un centro sportivo multifunzionale pieno di gente. Ecco dove si rintanavano i berlinesi dell’Est. Le strade erano vuote perché non c’erano vetrine allettanti, e non potendosi dedicare allo shopping i poveretti si consolavano con lo sport. Stavo assistendo ai tuffi e agli schiamazzi dei bagnanti che affollavano una grossa piscina quando ad un tratto si sente il suono allarmante di una sirena. Per un attimo mi vengono in mente le ipotesi più inverosimili, poi mi accorgo che l’acqua della vasca aveva iniziato ad agitarsi fino a produrre delle onde di discrete dimensioni, accolte con grida di divertito entusiasmo da parte di grandi e piccoli.

Nonostante il giubilo provocato da quell’insolito espediente, la scena mi fa una certa malinconia. Mentre i loro concittadini dell’Ovest in quello stesso momento si stavano godendo le spiagge di mezzo mondo, da Rimini ai Caraibi, dalla Grecia alla Polinesia, i berlinesi orientali  si sollazzavano in piscina tutti contenti per le ondette artificiali. Quello era il loro mare, e non avrebbero mai potuto averne altro. Solo in quel momento mi rendo conto con nitidezza che la mia impressione iniziale era falsata. Berlino Ovest era sì circondata da un muro, ma paradossalmente il vero carcere era fuori, non dentro.

Terminiamo il giro con una visita ai magazzini Centrum. Non era vero, come sosteneva la propaganda occidentale, che all’Est si faceva la fila ai negozi. Lì non c’era in effetti nessuna coda, semplicemente non c’era niente da comprare. Fioche lampadine illuminavano scaffali semivuoti, e gli scarsi clienti sembravano chiedersi disorientati cosa ci facevano lì dentro. Forse non erano altro che turisti occidentali come noi.
Torniamo quindi a Berlino Ovest, ai nostri lussi e alla nostra libertà, e nemmeno il sollievo per aver superato indenni il valico di frontiera riesce a cancellare un persistente senso di colpa per il privilegio di essere nati da questa parte del filo spinato. Chissà per quanti anni ancora sarebbe durata quella storia, commentiamo coi nostri amici nel familiare disordine della casa di Charlottenburg. Probabilmente per sempre.

***

Dieci settimane dopo, il 9 novembre 1989, riceviamo una telefonata dai nostri amici berlinesi eccitatissimi. In anteprima rispetto anche alle notizie della radio, ci stavano facendo ascoltare in diretta il clamore che giungeva alle loro finestre: la Repubblica Democratica Tedesca aveva abrogato il divieto di espatrio, iniziando così il conto alla rovescia della propria dissoluzione. I berlinesi occidentali restarono dapprima increduli, poi salirono sul Muro e come una moltitudine di formiche iniziarono a sgretolarlo. Nello stesso tempo migliaia di tedeschi orientali irrompevano nei viali lussuosi di Berlino Ovest, a piedi o con le loro caracollanti Trabant. Birra gratis quella notte, a Kurfürstendamm.

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Messaggio Da Arzak Mer 12 Feb 2014, 09:42

Ritorno a Berlino
Dresda-Lipsia-Berlino 1991

Torniamo in Germania orientale (questa volta con la o minuscola come semplice aggettivazione geografica) nel 1991 provenienti dalla Cecoslovacchia.
Dopo le esperienze precedenti faceva impressione varcare quel confine con la massima naturalezza e potersi avventurare nell’interno a proprio piacimento. L’unificazione  era appena avvenuta, ed era difficile cancellare i segni di una situazione durata decenni. Le strade erano ancora sconnesse, le case grigie, e anche la polizia locale non aveva ancora pienamente assimilato il cambiamento. All’ingresso di un paesino una sospettosa auto bicolore ci si mette alle calcagna seguendoci ostentatamente. Appena mi accorgo che ce l’avevano proprio con noi mi diverto a girellare qua e là per il paese fidando nella nuova impunità paneuropea, obbligando così i militi ad estenuanti zigzag per non perderci di vista. Non osano fermarci mancando assolutamente qualunque pretesto (avevo anche il triangolo e le lampadine di riserva), ma continuano pervicacemente a seguirci fino ai confini comunali. Evidentemente il nostro Volkswagen era il primo veicolo con targa straniera  che capitava in quel paese da decenni, e immagino la curiosità e il disorientamento che avevamo provocato a quei poliziotti neofederali che avevano appena messo in soffitta i loro inquietanti elmetti a paiolo.

***

Nell’aprile del 1945 la città di Dresda non era che una distesa di sassi fumanti. Era il risultato degli accaniti e a quel punto inutili bombardamenti al fosforo angloamericani (di notte gli anglo, di giorno gli yankees), al termine dei quali le macerie continuarono a bruciare per diversi giorni raggiungendo una temperatura che fece scorrere per la città rivoli incandescenti di metallo liquido. Un secondo olocausto con decine di migliaia di morti civili innocenti, a tutt’oggi ignorato per mere ragioni diplomatiche.
La Dresda di oggi è caratterizzata dalla tipica edilizia socialista: grandi viali, casermoni popolari e monumenti inneggianti al progresso dei lavoratori. C’è da pensarci bene prima di attraversare una strada di quelle a dodici corsie, se non si è ben sicuri di dove si vuole andare. Alcuni monumenti del passato sono tuttavia stati diligentemente ricostruiti, come il teatro dell’Opera, il museo delle ceramiche ed alcune chiese. Gli abitanti camminavano però per le strade con una strana aria dubbiosa, come se non fossero ancora ben convinti che la cortina di ferro era davvero scomparsa, e dall’alto qualche Grande Fratello avesse potuto ancora giudicare e colpire i reprobi leggendo loro nel pensiero.

L’altra città importante che si incrocia sulla strada per Berlino è Lipsia, patria di quel Leibniz che con le sue dannate Monadi tormenterà per sempre gli studenti di filosofia. L'universo costituito da queste monadi è il risultato armonioso di un piano divino, ed è il migliore di tutti i mondi possibili, diceva, e per dimostrarcelo i bombardieri americani rasero al suolo anche la sua città. Fu anche l’inventore di quel calcolo infinitesimale che tormenterà per sempre gli studenti di matematica, ma per questo misfatto non c’è punizione sufficiente. Chi vuole saperne di più cerchi il personaggio di Pangloss, beffarda caricatura del filosofo sassone, nel Candide di Voltaire.

A Lipsia nacque anche quel grande ma tonitruante compositore che fu Richard Wagner, su cui il giudizio artistico e politico è ancora contrastato. Non a caso la sua Walkiria accompagnava nei cinegiornali di guerra l’avanzata dei Panzer. La città ha le stesse caratteristiche estetiche di Dresda: vialoni, palazzoni e monumenti inneggianti al lavoro. Le tradizioni sono state comunque sapientemente coltivate anche sotto il regime socialista: la sua vocazione fieristica (famosa è la  fiera del libro) risale addirittura al duecento.
Ultima tappa è la cittadina di Wittenberge, con la sua linda piazza del mercato adorna di statue di personaggi pensosi. È da qui che Lutero lanciò i suoi fulmini contro la corruzione della Curia romana con le sue 95 tesi, aprendo così la strada al successivo scisma protestante.

Procedendo verso Berlino incontriamo lunghe colonne di mezzi militari. Non era una novità, in un paese a sovranità limitata come la Germania del dopoguerra, passando da Francoforte capitava spesso di incrociare convogli militari americani. Questa volta però i veicoli avevano qualcosa di insolito, ma solo dopo aver notato la stella rossa e le incomprensibili scritte in cirillico sulle fiancate mi rendo conto con un fremito di cosa si trattava. Le truppe sovietiche, dopo aver terrorizzato per decenni il mondo occidentale, si stavano ora silenziosamente defilando da quella parte del loro ex-impero anticipandone l’imminente crollo definitivo.
Un po’ come in quel gioco di abilità, in cui il prestigiatore sfila con uno strattone la tovaglia di una tavola apparecchiata lasciandovi sopra le stoviglie: dopo la velocissima riunificazione i russi si sono improvvisamente trovati ad occupare un territorio che non era più sotto il loro controllo, e l’unica via d’uscita era una dignitosa ritirata. Nessuno fra gli ex-amici e gli ex-nemici ne avrebbe pianto o rimpianto la partenza.

L’arrivo a Berlino avviene con una temperatura tropicale. Percorriamo il viale 17 giugno che conduce alla porta di Brandeburgo, per la prima volta visibile senza il Muro, poi attraversiamo l’ex-confine con uno strano senso di trasgressione, come se improvvisamente dovesse arrivarci una ritardataria scarica di mitragliatrice. La sensazione non è molto diversa, perché dopo pochi minuti la temperatura si abbassa repentinamente di quindici gradi e ci piomba addosso una crepitante grandinata. Almeno in quello Berlino era rimasta uguale: ad Est faceva più freddo.
Il fenomeno dura pochi minuti, poi dalle nubi viola filtra di nuovo il sole che illumina l’interminabile Unter den Linden ancora bagnata e luccicante, una metafora metereologica riassuntiva del tormentato destino di quella città.

Percorriamo attentamente tutta la zona di frontiera, ma della linea che aveva fino a poco prima separato due mondi contrapposti non riusciamo a scorgere la minima traccia. Con un’operosità che ad un latino potrebbe apparire quasi malsana, nello stesso tempo che occorre in Italia per ricevere una raccomandata i tedeschi erano riusciti a demolire 120 km di fortificazioni, bonificare i campi minati, ripristinare le linee elettriche e telefoniche, i collegamenti idrici e le tubature del gas, restaurare le fognature, rendere agibili i canali, integrare e razionalizzare la rete dei trasporti, fondere il sistema politico, economico, amministrativo, postale, bancario, industriale, agricolo, militare, sanitario, scolastico, il tutto senza fare una piega.
Anzi, la prima cosa che venne in mente a quel mattacchione del cancelliere Kohl, non contento dell’imprevisto e cospicuo aumento di territorio dovuto all’unificazione, fu che a quel punto occorreva ridiscutere anche i confini orientali della Germania con la Polonia, come se le bazzecole  avvenute dal ’39 in poi, quando un suo predecessore aveva chiesto la stessa cosa, non gli avessero insegnato niente. L’unico risultato fu quello di farsi subissare da una corale salva di fischi e di improperi espressi in tutte le lingue europee, yiddish compreso. Il lupo perde il pelo, ha osservato allora qualche maligno.

L’atmosfera della zona ex-Muro era però rimasta magicamente sospesa in aria come un’effimera bolla di sapone. I turchi e i fricchettoni di Kreuzberg da abitanti di una periferia degradata si sono trovati improvvisamente al centro della città, in attesa di essere nuovamente marginalizzati dallo strepitoso aumento degli affitti. Potsdamer Platz era ancora una spianata un po’ squallida in cui si poteva trovare di tutto: bancarelle di turchi che vendevano colbacchi russi e schegge di Muro regolarmente numerate e autenticate con zelo germanico, alternativi che facevano il tè, barboni sprofondati in vecchie poltrone abbandonate come se fossero nel salotto di casa, mimi e saltimbanchi alla Zampanò. Una vera corte dei miracoli, tanto che invece che nel cuore della Prussia sembrava di essere nella Medina di Marrakech.

***

Siamo tornati a Berlino una terza volta nel ’97, ma ormai la sua unicità si era perduta, ed era diventata una metropoli europea come le altre.  Il traffico è cresciuto, centinaia di gru disegnano un nuovo profilo allo skyline, e decine di polacchi arrivano ogni giorno dalla vicina frontiera per “fare la spesa” tornando a casa la sera con le borse piene di autoradio. Incuranti di tutto questo ad Alexanderplatz alcuni  indios peruviani suonavano Guantanamera.

L’unificazione non ha però convinto del tutto, e anche se può sembrare blasfemo, di fronte alla disoccupazione e alla criminalità che ha fatto di Berlino la città più pericolosa d’Europa non sono pochi quelli che rimpiangono da una parte uno Stato che negava la libertà ma garantiva la pagnotta, e dall’altra quella città spregiudicata e cordiale rannicchiata all’ombra protettiva dell’odiato Muro, dove nelle sere d’estate si dormiva tranquilli nel parco e le ragazze potevano uscire da sole senza paura.

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Messaggio Da einrix Mer 12 Feb 2014, 10:33

Splendidi ricordi, spunti di verità. La storia come mai forse verrà raccontata.
Grazie Arzak
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