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Metafore

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Messaggio Da Rom Sab 15 Mar 2014, 07:38

Di fronte al caleidoscopio di commenti e reazioni che agitano questi giorni di Svoltabuona renziana, mi era venuta voglia, stamattna, di fare una specie di punto della situazione: più per mettere ordine nelle mie idee che per dare suggerimenti agli altri.
Mi sono accorto, però, che mi veniva fuori una serie di considerazioni, per me giustissime, ma irrimediabilmente sovraccariche di tutta la melassa di obiezioni proponibili e improponibil, lecite e illecite, che formano il caos comunicativo nel quale affoghiamo ormai da mesi, se non da anni.
Allora, vale la pena che io scenda su un piano più modesto. Anzi, che cambi proprio sceneggiatura. Andiamo dunque per metafore.

Il presidente della Roma, Franco Sensi, per vecchiaia e malattia, a un certo punto non fu più in grado di condurre la società.
Sotto la sua guida, non priva di cadute di stile e contraddizioni, ma vigorosa, la Roma aveva vinto uno scudetto ed aveva mantenuto la sua posizione di quarto incomodo nella geografia pallonara italiana, raggiunta dal suo grande predecessore Dino Viola.
Ma la sua battaglia contro certe "associazioni a delinquere" - come egli stesso le aveva profeticamente definite - gli era costata cara: il suo potere economico era stato gravemente falcidiato e i beni di famiglia erano insidiati da una prospettiva fallimentare.
La crisi economica incombente s'incrocia con la necessità del ricambio al vertice: gli subentra la "giovane" Rosella Sensi, sua figlia.

Data la formazione della ragazza, per un momento si pensa che si passi da una gestione familiare a una più manageriale, in grado di rendere più efficiente la società e ricomporre su altre basi la sua posizione.
Invece, succede agli esterefatti occhi del popolo romanista di vedere Rosella Sensi in Campidoglio, a prendere un caffè con Alessandro Moggi, sotto la benevola compiacenza del sindaco Veltroni.
Cosa sia successo nel backstage non è dato sapere, ma basta e avanza quello che si vede sul palcoscenico: una surreale "pacificazione" con quegli ambienti che erano stati per anni i nemici più acerrimi e dichiarati del vecchio Franco Sensi.

Non si sa se per la ribellione popolare, o se per altre ragioni, il connubio Moggi - Roma (in realtà, la conquista diretta della Roma da parte dei Moggi) non va in porto. Ma negli anni successivi la politica societaria cambia visibilmente direzione, mentre diventa prevalente la preoccupazione di salvare quanto possibile dei residui beni economici della famiglia, e dei bilanci societari.
La presidenza di Rosella vivacchia confusamente, sul piano societario, ma la fortuna vuole che, dopo un anno disastroso, arrivi a Trigoria Luciano Spalletti, che riesce a fare miracoli sul campo, anche grazie all'avvento di quella strana vicenda che passa alla storia col nome di Calciopoli: l'eliminazione pro tempore dalla scena che conta di Juventus e Milan, e soprattutto di Luciano Moggi.

Sull'onda del miracolo spallettiano ci sarebbe stato da aspettarsi una rinascita societaria e sportiva della Roma.
Ma no: in realtà appare, col tempo, più chiaro che l'infelicissima vicenda di quel caffè in Campidoglio non era stata un errore di gioventù, ma un radicale cambio di rotta. Messo in quarantena il potere juventino, emerge, sia pure tra le consuete foschie, il peso di una figura come quella di Galliani, vero dominus in Lega e nel campo dei diritti TV, oltre che potente gestore del Milan.
Da questo punto in poi, possiamo lasciare che la vicenda si avvii alla conclusione, ormai nota, di un cambio effettivo, che si realizza solo con l'arrivo di gente - gli americani di James Pallotta - davvero totalmente estranea ai giochi di potere italiani - alla quale questi poteri, ovviamente, hanno già cominciato a fare la guerra, con i metodi di sempre. Ma questa è un'altra storia.

Stretta la foglia, larga la via: ognuno può trarre le proprie valutazioni da questa novella, se vuole e se può.
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Messaggio Da Adam Sab 15 Mar 2014, 11:38

L'unica valutazione che do, per ora, è sul tuo intervento da romanista verace, che narra la vera storia della Magica in questi ultimi anni, che mal si presta come paragone con la situazione italiana di oggi.

D'altra parte si sa che i paragoni e, in certi casi pure le metafore, sono imbrogli dialettici, funambolici inganni che stordiscono l'interlocutore senza entrare nel merito delle questioni. Le quali questioni si potranno giudicare quando si leggerà nero su bianco, molto più di quanto si possa aver capito dalla scenografica (ma pericolosamente impegnativa per l'attore) presentazione che ha definitivamente detronizzato il Berlusca come principe della comunicazione.

Mai come oggi: chi vivrà, vedrà.
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Messaggio Da Rom Dom 16 Mar 2014, 09:51

Adam ha scritto:... mal si presta come paragone con la situazione italiana di oggi.
D'altra parte si sa che i paragoni e, in certi casi pure le metafore, sono imbrogli dialettici, funambolici inganni che stordiscono l'interlocutore senza entrare nel merito delle questioni.
...ha definitivamente detronizzato il Berlusca come principe della comunicazione.
Mai come oggi: chi vivrà, vedrà

Perché "mal si presta"?
In verità, il tuo commento, buon Adam, dimostra che la metafora l'hai capita benissimo, ben dentro il merito della questione, e che semplicemente non ti va di accettarne le implicazioni.

Il Berlusca, più che detronizzato è stato miracolosamente ripescato e rimesso su un piedistallo: della "comunicazione" al Caimano ormai importa un tantino meno meno di niente, dopo le tempeste elettromagnetiche degli scandali, dei risolini della Merkel, di Dudù e dello sputtanamento internazionale. Solo un centro-sinistra in sistematico ritardo sui tempi può credere, oggi, alle virtù taumaturgiche della "comunicazione", che è diventata una tracimante pagliacciata, grazie anche all'ingresso in pista di Beppe Grillo.
Berlusca è entrato nella fase del potere reale, pratico, nella quale accetta e anzi reclamizza la sua vecchiaia, e perfino i suoi acciacchi politici e giudiziari, mentre si trova in una situazione ideale, che appena pochi mesi fa non avrebbe nemmeno osato sperare: all'opposizione del governo, con tutte le facoltà che questo comporta in tema di propaganda, e allo stesso tempo in grado di condizionare il governo stesso, per ciò che gli aggrada e in modo notorio, tale cioè da poterne rivendicare il merito al momento opportuno presso il proprio target elettorale. Oltre, naturalmente, al ritrovato (ammesso che l'abbia mai avuto) ruolo di padre costituente, che gli spetta quale autore privilegiato (apertamente, ripetutamente privilegiato) delle riforme istituzionali, in primis la legge elettorale - che sarà pure orrenda, ma tale non appare ai suoi elettori e comunque, proprio in quanto orrenda, ben corrisponde ai suoi interessi.
Se la metafora è imprecisa, lo è per difetto: il caffè in Campidoglio, almeno, avveniva prima di Calciopoli. Nel nostro caso, il Berlusconi padre costituente ci è stato regalato dopo la sentenza definitiva della Cassazione e dopo l'estromissione del Caimano dal senato della repubblica.

E poi, davvero sarebbe il caso di smetterla con il "vedremo". Aspettare che le cose succedano, per dare un giudizio, è troppo facile, troppo comodo. Anche perché di cose ne sono già successe tante.
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Messaggio Da einrix Dom 16 Mar 2014, 13:30

Non è una metafora, ma anche parlare di Quattro scommesse, come fa Deaglio, è certo un modo originale per affrontare una critica dell'attuale fase politica.
Era da molto tempo che la politica non era così imprevedibile, e poiché è in grado di "fare notizia", più della stessa stampa, che deve darle - le notizie - questi tentativi di comprendere un fenomeno in corso, sono certamente interessanti.
 "LASTAMPA
 
EDITORIALI 15/03/2014
La politica dell’azzardo in quattro atti
MARIO DEAGLIO
 
Con il suo programma di governo, la sua recente conferenza stampa e i suoi interventi televisivi, il presidente del Consiglio ha reintrodotto, dopo molti anni, nella politica - e in particolare nella politica economica italiana - la dimensione dell’azzardo, della scommessa che si fa senza conoscere bene le probabilità di vittoria.
Il che è proprio il contrario dell’impostazione tradizionale, consistente nel non fare un passo senza aver minuziosamente soppesato tutte le possibilità e le alternative. Salvo poi, come è successo più di una volta al Pd, di sbagliare, per troppo calcolo, i rigori a porta vuota, secondo l’espressione dello stesso presidente del Consiglio.
Le scommesse di Renzi, delle quali bisogna oggi prendere atto, senza che questo implichi uno schierarsi ma piuttosto un tentativo di capire, sono sostanzialmente quattro.
La prima è di riuscire a cambiare subito qualcosa di importante nel processo di decisione politico-amministrativa del Paese: approvare una legge elettorale in poche settimane, mettere a punto progetti legislativi importanti in pochi giorni, rendere operative decisioni sempre rinviate nei fatti, come quella della vendita delle auto blu, passare da un eterno dire a un rapidissimo fare.
Così Renzi si scontra con la burocrazia centrale dello Stato, che ha oggettivamente – e spesso con obiezioni sensate – esercitato una funzione di rallentamento, gelando le premesse delle azioni di cambiamento.
Si scontra anche con procedure parlamentari ossificate che contemplano l’eterno rimpallo dei disegni di legge tra commissioni e Camere, sovente snaturati dall’inserimento di piccole modifiche di interesse particolare, secondo una norma non scritta per cui deve fare il possibile per dare almeno un «contentino» a tutti. Si scontra infine con procedimenti consolidati di contrattazione sociale, per cui gran parte del mondo sindacale e una parte importante del mondo imprenditoriale anela solo ad avere un «tavolo» su cui discutere e contrattare, se possibile in maniera permanente.
Si tratta di una scommessa molto ardita perché prevede il rovesciamento del gattopardismo che ha governato a lungo la politica e l’economia italiana, secondo il quale bisogna cambiare (superficialmente) tutto perché tutto resti (sostanzialmente) com’è. Sembra di capire che, per Renzi, invece tutto possa restare superficialmente com’è (i patti con l’Europa devono essere rispettati, le procedure parlamentari seguite) a condizione che tutto nella sostanza subisca un radicale rinnovamento.
La seconda scommessa, senza la quale l’introduzione delle novità procedurali sarebbe di poco conto, è di riuscire a cambiare i comportamenti economici degli italiani. Quando non possono promettere nuove spese, i politici devono esser capaci di suscitare nuovi modi di agire. Il programma del governo ha un senso se gli italiani che ne hanno le possibilità superano la paura di spendere, e recuperano una parte dei consumi non fatti negli ultimi anni; se le imprese italiane scacciano la paura di investire e le banche italiane la paura di finanziare quegli investimenti. Il tutto darebbe una sostanziale copertura economica ai programmi di riduzione delle imposte, mentre la copertura puramente contabile oggi potrebbe essere carente.
 
La terza scommessa, che si è venuta delineando solo negli ultimi giorni è quella di modificare, oltre ai comportamenti degli italiani anche gli atteggiamenti delle istituzioni europee, a lungo ingessate in un disperante burocratismo. Non è chiaro in che direzione Renzi voglia spingere l’Europa, ma di certo ha mostrato di volerla allontanare da un atteggiamento puramente ragionieristico per cui a un Paese delle dimensioni dell’Italia, con un movimento di cassa dell’amministrazione pubblica di 700-800 miliardi di euro si contestano sforamenti minimi, pari a 2-3 miliardi. Con la Francia, la Commissione europea non si è comportata e non si comporta così.
La quarta scommessa di Renzi è quella su se stesso. E’ difficile dire se la sua promessa di ritirarsi in caso di non realizzazione degli obiettivi sia solo un artificio retorico ma è sicuramente legittimo prenderla per buona. Anche in questo caso si è di fronte a una rottura di comportamenti garantisti per i quali il ritiro dalla politica non è contemplato, la condizione di «uomo politico» viene considerata irreversibile, separata dalla normale realtà del Paese.
Non è affatto detto che Renzi abbia successo. Il primo Berlusconi fece anche lui le sue scommesse, sperò che le piccole imprese e i lavoratori autonomi, sgravati con i condoni da una parte del peso del fisco, avrebbero proiettato il Paese in un esaltante futuro di crescita. E’ andata decisamente male, e la conseguenza è stata un ventennio di stagnazione. La scommessa di Renzi è diversa perché, oltre che socialmente trasversale, è basata, come si è detto sopra, sull’ipotesi di un profondo mutamento dei comportamenti; può essere sfavorevolmente influenzata, oltre che da un rifiuto viscerale di una gran parte degli italiani a uscire da un clima di contrattazione permanente, anche da un’evoluzione internazionale che sta facendo soffiare sull’Europa nuovi venti di guerra fredda e scoraggia i grandi cambiamenti. Se la perde, Renzi farebbe certo bene ad andare a casa. Il pericolo potrebbe essere che con lui ci vada tutto il Paese."
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Messaggio Da Rom Mar 18 Mar 2014, 18:42

Le scommesse che Deaglio attribuisce a Renzi appartengono al giornalismo-soufflé: una palletta di sostanza impaginata in modo da diventare un'"opinione".

Solo la prima scommessa ha una certa consistenza, per altro evidente e ampiamente sviscerata in queste settimane, e vantaggiosamente riducibile al fatto nudo e crudo che, se non ottiene subito qualche risultato purchessìa, Renzi ci fa una figura da peracottaro.

Delle altre tre, due è difficile rappresentarsele come "scommesse": solo la voglia di tener fede alla metafora costringe Deaglio a presentarle come tali, essendo invece sintesi di problematiche politiche molto complesse, che poco hanno a che fare con un tiro di dadi.
La terza, cioè la quarta delle quattro, è niente di più che l'altra faccia della prima: chi fa la figura da peracottaro farebbe meglio a mentener fede alla promessa di ritirarsi.

Ma la colpa non è di Deaglio. La verità è che qualunque commento "ordinario" su Renzi è destinato ad essere o tautologico o superficiale, o entrambe le cose, per evidente e ineludibile scarsità di materiale da esaminare.
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