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1 - A quel tempo ero soltanto un ragazzo

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Messaggio Da Rom Ven 05 Lug 2013, 00:06

Il mio primo libro di poesie - il primo acquistato, intendo, non scolastico - lo trovai su una bancarella, a non più di cento lire.
Non immaginavo di scoprire, leggendolo, quanto quell'appuntamento fosse appropriato. Non era roba da libreria.

Un'edizione economica, una copertina rosso scuro e pagine ingiallite, più per una lunga permanenza in magazzino che per essere state troppo sfogliate. La stampa sbiadita, come si conviene ai messaggi che vengono da lontano.
Nessun titolo, solo un nome, dell'autore: Cendrars, che non avrei mai più rivisto, né sentito, cosa che ha fatto di quell'incontro una specie di segreto, un ricordo esclusivo.
Lo presi, perché, sfogliandolo, fui catturato dai primi versi d'una poesia, e cento lire non mi sembravano troppe per permettermi il lusso di leggerla con comodità.
E' una lunga poesia, qualcuno la definisce un poema, esagerando. Abbiamo tempo, qui, per leggerla insieme, un brano per volta: del resto è il racconto di un viaggio, e nei viaggi ci sono fermate, distrazioni, intervalli.


A quel tempo ero soltanto un ragazzo
Sedici anni, ma chi si ricordava più dell'infanzia
A 16000 leghe dal luogo di nascita.
Ero a Mosca, nella città dei mille e tre campanili e delle sette stazioni
Ero a Mosca e non mi bastavano le sette stazioni e i mille e tre campanili
Poiché così ardente e folle era allora la mia adole¬scenza
Che il mio cuore volta volta bruciava come il tempio di Efeso o la Piazza Rossa
Al tramonto del sole.
E i miei occhi illuminavano piste dimenticate.
Ero già sì cattivo poeta
Al punto da non sapere andare fino in fondo alle cose.

Il Cremlino era un immenso dolce di Tartaria
Con la sua crosta dorata,
Le grosse mandorle delle cattedrali bianchissime
Il miele prezioso delle campane...
Un vecchio monaco mi leggeva la leggenda di Novgorod
Avevo sete
E decifravo caratteri cuneiformi
Poi d'un tratto s'alzavano dalla piazza le colombe dello Spirito Santo
E le mie mani prendevano il volo, con fruscii di gabbiani
Ultime memorie dell'ultimo giorno
Dell'ultimo viaggio
Del mare.
...


Ultima modifica di Rom il Dom 07 Lug 2013, 02:49 - modificato 1 volta.
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Messaggio Da cireno Sab 06 Lug 2013, 14:49

Avevo quasi dieci anni quando sono nato. Era il 10 giugno del 1940 e noi ragazzini giocavamo in terrazza come tutti i giorni dopo la scuola quando, dalla radio che mia mamma aveva alzato di volume perchè la sentissimo anche noi,  la voce di Mussolini ci arrivò chiara e forte
Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Donne e uomini d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate!
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria: L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra è stata consegnata agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna.
Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso ostacolato l’esistenza medesima del popolo italiano.
 
La voce del popolo schierato in piazza Venezia ad ascoltare le parole del Duce si alzò altissima “la guerra, la guerra” e anche noi bambini, presi da una sorta di frenesia per la novità che ci avrebbe poi sconvolto le esistenze (ma questo non potevamo ancora saperlo), ci mettemmo a correre in tondo sulla terrazza e a gridare a nostra volta “la guerra la guerra” come fosse un gioco.


Eravamo in cinque, due maschi e tre femmine, e in verità bisogna dire che noi due maschietti la guerra la conoscevamo, cioè ci giocavamo spesso, il battipanni era un mitragliatore e una sedia messa per terra un carro armato che sparava dai due cannoni che erano le sue gambe. Ma la guerra vera la conoscemmo la sera stessa, quando mia mamma mi svegliò intorno alla una “Enrico Enrico svegliati, dobbiamo andare in rifugio, sono suonate le sirene dell’allarme, muoviti, muoviti, alzati alzati”.


Il rifugio antiaereo non era altro che la cantina, cioè il corridoio delle cantine. Mio padre disse io non scendo perché se ci viene una bomba addosso tutta la casa ci coprirà di macerie, meglio stare fuori, difficile che una bomba prenda in pieno solo me e rimase in casa. Ma in cantina, cioè in rifugio, gli altri abitanti della casa ci andavano, altrochè se ci andavano. C’erano due panche, lungo il corridoio, e ci si sedeva là, in attesa che suonasse la sirena del cessato allarme. Quella sera vennero, lo si seppe il giorno dopo, quattro aerei francesi che sganciarono una dozzina di bombe a casaccio su Milamo e poi se ne tornarono a cuccia. Ci furonp tre morti.



Ecco, la guerra vera cominciò così.
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