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Messaggio Da Rom Sab 27 Lug 2013, 23:11

http://www.repubblica.it/politica/2013/05/11/news/diritto_social_network-58533282/?ref=HRER2-1

Fuori i bulli dal nostro Twitter
di Roberto Saviano

È NATO un nuovo diritto. Il diritto ai social network. Il diritto di poter avere un account, di poter postare, leggere e commentare. In paesi come la Cina, Cuba, la Corea del Nord, l'Iran l'accesso ai social network è vincolato o persino negato. Spesso può avvenire solo in forme clandestine. I regimi che hanno represso le primavere arabe vietavano i social network che, in quel contesto, sono diventati vettori di informazioni necessarie alle proteste e simboli di una rinascita democratica.

Ma ogni diritto ha delle regole. E nessuno dovrebbe sentirsi fuori luogo nell'esercitarlo, nessuno dovrebbe essere costretto a fare lo slalom tra insulti o diffamazioni. Eppure è ciò che accade sempre più spesso. Enrico Mentana annuncia di voler andar via da Twitter per i troppi insulti ricevuti. Usa la metafora del bar. Se il bar che di solito frequenti inizia a essere luogo di ritrovo per persone che non ti piacciono, che fai resti o cambi bar? Davide Valentini, un giovane documentarista, fa una riflessione interessante. Secondo lui Twitter innesca l'effetto Gialappa's band. Molti commenti intendono portare all'attenzione dei propri follower ciò che si ritiene stupido più che interessante, e lo si fa con parole cariche di sarcasmo. L'effetto desiderato, e ottenuto, è far sentire i follower particolarmente intelligenti mentre fruiscono di un contenuto considerato basso. Quanti non hanno mai visto il "Grande fratello", ma adoravano "Mai dire Grande fratello"?

Su Twitter ci si sforza di trovare la battuta brillante, spesso feroce. O il tweet è cinico o viene considerato scontato. Ciò che non è crudele, disincantato, diventa bersaglio della supponenza collettiva. Il politically uncorrect detta legge, l'aberrazione è considerata di culto, ogni provocazione - anche la più stupida - è cool perché rompe gli schemi. Una logica neocinica sembra aver preso il sopravvento su ogni cosa.

Ma questa è una degenerazione del mezzo, perché Twitter nasce per comunicare: è una piattaforma che mette in connessione chiunque con chiunque. Tutto è aperto. Puoi seguire chi vuoi, puoi leggere cosa scrive Obama, Lady Gaga o il tuo collega, quello che ha la scrivania di fronte alla tua. La capacità di poter assistere in tempo reale a ciò che accade nel quotidiano e comprendere i punti di vista degli altri, condividerne le conoscenze. Retwitti se trovi interessante una notizia e credi valga la pena sottoporla alla tua comunità. Crei dei topic, e puoi farlo chiunque tu sia. Poi ti capita di essere retwittato da chi ha centinaia di migliaia di follower e il tuo pensiero inizia a viaggiare.

Ma può anche accadere che in una piazza affollata, se si è a corto di contenuti o manca la capacità di sintesi (la regola su Twitter consiste nel mantenersi nei 140 caratteri, l'sms di un tempo), si urla per essere ascoltati. Quando il pensiero si semplifica e si riduce al grado zero, a volte c'è posto solo per l'espressione radicale o la battuta estrema. La serietà è banale, il ragionare scontato. Dunque ecco l'insulto. Chi ti insulta su Facebook non riesce a fare lo stesso, però, quando ti incontra di persona perché non ha il coraggio di mettere la faccia su uno sfogo personale che si alimenta di luoghi comuni e leggende metropolitane. Ho letto che se un post presenta un certo numero di commenti negativi, chi leggerà quel post sarà naturalmente influenzato da quei commenti. Le critiche sono sempre benvenute, gli insulti no.

Dipende da noi dargli o meno diritto di cittadinanza. Facebook e Twitter consentono di poter eliminare l'insulto, bannandolo, cioè mettendolo al bando. Fa parte delle regole del gioco. Non credo sia corretto escludere chi fa un ragionamento diverso da quello proposto, chi critica con linguaggio rispettoso è una risorsa. Ma è giusto bannare chi usa i commenti per fare propaganda, chi ripete sempre lo stesso concetto quasi a fare stalking, chi - ad esempio - dice di conservare una bottiglia di champagne da aprire il giorno della mia morte, chi dice di avermi visto a bordo di una Twingo rossa o una Panda verde a Caivano o a Maddaloni sottintendendo che non è vero che vivo sotto protezione. Agli estremisti della rete che obiettano: "ma questa è censura", rispondo che chi vuole può aprire una sua pagina per insultarmi, ha l'intero infinito web per farlo. È che in realtà l'insultatore vuole vivere della luce riflessa dell'insultato. Eppure è semplice comprendere come non ci sia nulla di più dannoso dell'insulto: nulla garantisce più sicurezza al potere, inteso nel senso più ampio, se tutto il linguaggio della critica si riduce al turpiloquio, alla cosiddetta "shit storm", alla tempesta di merda di messaggi senza contenuto rilevante.

Ecco perché la necessità di regole non può passare per censura. Comprendo che la libertà della rete non può essere strozzata da vincoli, comprendo che i vincoli possono diventare pericolosi perché pericolosa è la valutazione: cosa è legittima critica o cosa è diffamazione? Ma la gestione delle regole non è un vincolo, è funzionale al mezzo, alla sua sopravvivenza, all'interesse che gli utenti continueranno o meno a nutrire. Per questo Enrico Mentana credo si sbagli quando dice che o sei dentro o fuori e che non si banna. Bannare è decidere di dare un'impronta al proprio spazio: è esercitare un proprio diritto.

L'educazione nel web, anzi l'educazione al web, sta ancora nascendo. Scegliere di usare un linguaggio piuttosto che un altro è fondamentale. Ogni contesto ha il suo linguaggio e quello dei social network per quanto diretto non è affatto colloquiale. Si nutre della finzione di parlare in confidenza a quattro amici, - il che giustificherebbe ogni maldicenza, ogni cattiveria - ma in realtà tutto quello che si dice è moltiplicato immediatamente all'infinito, ed è quindi il più pubblico dei discorsi. Non si tratta di essere ipocriti o politicamente corretti (espressione insopportabile per esprimere invece un concetto colmo di dignità), ma di comprendere che usare un linguaggio disciplinato, non aggressivo, costruisce un modo di stare al mondo. I linguisti Edward Sapir e Benjamin Whorf hanno teorizzato la relatività linguistica secondo cui le forme del linguaggio modificano, permeano, plasmano le forme del pensiero. Il modo in cui parlo, le cose che dico, e soprattutto come le dico, le parole che uso, renderanno il mondo in cui vivo in tutto simile a quello connesso alle mie parole. Se uso (non se conosco, ma proprio se uso) cento parole, il mio mondo si ridurrà a quelle cento parole. Noi siamo ciò che diciamo. Quindi il turpiloquio, l'insulto o l'aggressività costruiscono non una società più sincera ma una società peggiore. Sicuramente una società più violenta. I commenti biliosi degli utenti di Facebook e Twitter portano solo bile e veleno nelle vite di chi scrive e di chi legge. Purtroppo questa entropia del linguaggio sta contagiando anche la comunicazione politica, sempre all'inseguimento della grande semplificazione, della chiacchiera divertente e leggera, della battuta risolutiva. Spesso parole in libertà, senza riflessione, gaffe continue alle quali bisogna porre rimedio. La verità è che se ripeti in pubblico le fesserie dette in privato non sei onesto e gli altri ipocriti, sei semplicemente maleducato e in molti casi irresponsabile.

Rom
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