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L 'Etica del lavoro

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Messaggio Da Lara Ven 16 Ago 2013, 00:16

In una delle tante apparizioni televisive della Santanché,  a cui talvolta ci sottoponiamo  con una buona dose di masochismo, la signora chiedeva con insistenza ad una deputata del PD che lavoro facesse, come se non fosse evidente che fare il parlamentare fosse già un lavoro di qualche impegno.
“Io lavoro”, rincarava, alludendo ad altro, rispetto al suo incarico politico.
Il “lavoro” cui si riferiva la Santanchè è una società di pubblicità che è concessionaria della raccolta pubblicitaria per Il Giornale, e che lo è stata per Libero e Il Riformista, ed anche la partecipazione societaria a locali di lusso come il Billionaire.
Questi  “lavori” si sono sviluppati e perfezionati proprio durante la sua attività politica, a sostegno della tesi che la politica è solo la sua attività secondaria, uno  sfondo per il suo vero impegno, quello di imprenditrice e azionista, in settori così difficili come la raccolta pubblicitaria  e il mercato dello svago di lusso.
Certo, il fatto che certi committenti siano così lontani dal proprio giro politico deve averla ostacolata non poco.
Riuscire ad espletare entrambi gli impegni, come fanno le mamme lavoratrici, deve essere stato un tour de force.
Riunioni politiche e poi faticose campagne per convincere la clientela che il proprio servizio era migliore rispetto alla concorrenza, creare contatti, ottenere concessioni in virtù della serietà e della qualità di un prodotto così delicato… ore di attesa nelle anticamere dei direttori di giornale, faticosi rendez-vous coi nuovi ricchi proprietari di club esclusivi, tanto per differenziare un po’  gli investimenti.
Il lavoro che nobilita chi ha soldi e contatti per farlo non è lo stesso lavoro dei “fannulloni” di Brunetta, quelli che passano i tornelli e devono timbrare i cartellini. Quest’ultimo lavoro è sempre una “concessione”, ma immeritata, l’osso che si getta ai cani per sopravvivere.
Poi ci sono i lavori dei dipendenti privati, gente senza iniziativa, che non si accontenta di percepire uno stipendio, ma aspira a sicurezza, diritti e dignità, come se fossero imprenditori, quelli che rischiano il proprio capitale e assumono decisioni. I dipendenti sono sul mercato e, quindi, soggetti alla legge della domanda e dell’offerta. Il loro prezzo è sempre al ribasso, il loro costo costituisce la variabile più facile da limare, quando l’imprenditore è incapace di operare sulla qualità del prodotto, sull’innovazione, sulla lungimiranza di un vero investimento.
L’etica classista del lavoro cerca di far passare le  rendite di posizione come lavoro e il lavoro dipendente come una sorta di parassitismo sin troppo retribuito.
Per contro, basta svolgere lo stesso lavoro alla Camera o in qualche altra corte protetta, e la propria retribuzione si moltiplica magicamente, alimentata dalle generose casse di stato. Lo stato arcigno che dimezza le retribuzioni dei dipendenti attraverso il cuneo fiscale, elargisce invece pensioni e stipendi da nababbi ai pochi fortunati insediati nel palazzo.
“Io lavoro”, protesta la Santanchè, come se la casacca del parlamentare, condivisa con quelli del PD e degli altri partiti, non fosse sufficiente connotazione. Insomma, anche i parlamentari che non lavorano al di fuori dal parlamento sono, in fondo, dei parassiti.
La politica come mezzo e non come fine è l’assunto di una certa destra che, a parte le malevole interpretazioni per cui uno si sistema economicamente, è alla base di una visione gerarchica della società.
In questa visione gerarchica, il lavoro è l’alibi o meglio il nome che danno alla posizione che si sono conquistata. Fingono di fare politica di straforo, per non lasciare il campo agli altri, mentre avrebbero ben altre occupazioni. Sono trascinati nell’agone perché sentono di dover difendere la “democrazia”, ovvero il sistema che gli ha permesso di riuscire così bene nel loro “lavoro”, un lavoro da difendere dagli attentati della concorrenza, da stimolare con regole convenienti, da presidiare come un orticello prezioso.
Navigano a vista in una fratellanza di intenti encomiabile, pronti a sostenere l’insostenibile, se serve a preservare la condizione che li ha resi  così indipendenti dalle crisi ordinarie dei settori economici ordinari.
Il loro Boss ha passato gran parte del suo tempo a corteggiare politici per ottenere concessioni, ad accaparrare emittenti e stars televisive a suon di miliardi piovuti dal cielo, ad eludere il fisco e a spargere fondi neri per mezzo mondo, a procurarsi donne e organizzare festini,  e poi ha deciso di difendere con la politica il frutto di tanto “lavoro”.
Se D’Alema ha affemato che Mediaset era una grande risorsa del paese, forse non ha mai calcolato quanta ricchezza in più avrebbe prodotto un mercato televisivo e pubblicitario non monopolizzato. Quanta crescita economica e culturale si sarebbe creata con una regolazione adeguata degli spazi e delle concessioni, quanto tempo avremmo potuto dedicare alla modernizzazione del paese e delle sue infrastrutture invece di inseguire il medioevo di una società bloccata sulle convenienze di questi grandi “lavoratori”, dediti all’occupazione permanente del Parlamento, che costituisce la loro assicurazione globale contro i rischi del mercato e le pastoie legali da scaricare sui paria, i deboli e gli invidiosi, quelli che non possono vantare un “lavoro” come il loro.
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Messaggio Da cireno Ven 16 Ago 2013, 13:00

Lara ha scritto:
Il loro Boss ha passato gran parte del suo tempo a corteggiare politici per ottenere concessioni, ad accaparrare emittenti e stars televisive a suon di miliardi piovuti dal cielo, ad eludere il fisco e a spargere fondi neri per mezzo mondo, a procurarsi donne e organizzare festini,  e poi ha deciso di difendere con la politica il frutto di tanto “lavoro”.
Se D’Alema ha affemato che Mediaset era una grande risorsa del paese, forse non ha mai calcolato quanta ricchezza in più avrebbe prodotto un mercato televisivo e pubblicitario non monopolizzato. Quanta crescita economica e culturale si sarebbe creata con una regolazione adeguata degli spazi e delle concessioni, quanto tempo avremmo potuto dedicare alla modernizzazione del paese e delle sue infrastrutture invece di inseguire il medioevo di una società bloccata sulle convenienze di questi grandi “lavoratori”, dediti all’occupazione permanente del Parlamento, che costituisce la loro assicurazione globale contro i rischi del mercato e le pastoie legali da scaricare sui paria, i deboli e gli invidiosi, quelli che non possono vantare un “lavoro” come il loro.

La Santanchè non riesco nemmeno a commentarla, fredda fanatica calcolatrice di ogni mossa politica che le possa dare visibilità e considerazione da parte delle legioni azzurre. Mi spiace, ma ci sono personaggi, e la Santanchè è uno di questi, che mi danno l’orticaria per cui li evito accuratamente. Quando sullo schermo compare lei io immediatamente cambio canale, e così faccio quando c’è Bondi, la Carfagna, la Biancofiore.
D’Alema quel giorno disse una delle tante cazzate che ha detto nella sua vita per cercare di rendersi simpatico a quelli dell’altra sponda: rimase solo l’enorme cazzata e non arrivò nessuna simpatia. Mediaset è stata un disastro per l’informazione e anche per la cultura italiana. Le sue emittenti hanno diffuso solo spazzatura che, quasi ovviamente, ha avuto grande successo: culetti femminile ben esposti, idiozie patetiche ruotanti intorno ai sentimenti umani, giochi a premi per l’inclita, mai un programma minimamente istruttivo, mai qualcosa su cui pensare. Mediaset è stata un disastro anche per l’occupazione nel settore dell’informazione televisiva, oltre che per la proposta: ci fosse stata vera libertà il numero degli occupati sarebbe sicuramente stato ben più alto.
Mi spiace per lui, ma quel giorno D’Alema disse proprio una grande cazzata
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Messaggio Da einrix Ven 16 Ago 2013, 13:09

La Santanché è il prototipo di persona che parla di lavoro, ma nella realtà pensa alla classe sociale, allo status, a quanto e come guadagni, non certo alla capacità professionale ed all'impegno giornaliero di una persona, perché altrimenti, fare il Parlamentare è lavoro che meriterebbe il tempo pieno, e non quel genere di contumelie e divagazioni.

Non siamo più dei cacciatori-raccoglitori che quasi tutto il loro tempo lo spendevano per il cibo e per un riparo. Divenuti uomini moderni che quasi mai producono direttamente ciò di cui si cibano, si vestono, si riparano, o usano per vari scopi, dall'intrattenimento al trasporto, capita che vi sia pure chi viva benissimo in funzione di quelle rendite che la stratificazione della società permette di costituire, in vario modo.

Che la Santanché faccia pubblicità c'è da chiedersi se sta in ufficio, o se fa il porta a porta, e se è socia del Billionare, se serve ai tavoli. No! Per qualche strana ragione è proprietaria, in parte, di quelle società, e vattelapesca con quali e quanti soldi abbia potuto comperare quelle quote. Pecunia non olet; senza contare il nepotismo che si esprime attraverso la politica di quel partito per imprenditori, o un congiunto, che essendo direttore di giornale, ti può affidare un ufficio di pubblicità.
 
Insomma, certi ragionamenti, anche per il tono, servono ad ostentare potere, non certo ad informarsi su che mestiere faccia, o facesse l'altro, prima di venire eletto parlamentare dai propri concittadini. A me la Santanché non piace come persona, ancor prima che come per essere di destra o di sinistra. Potà essere ricca tanto quanto vuole, ma ai miei occhi, sarà sempre povera ed infelice, come l'altra donna di Berlusconi: la Mussolini, che pare abbia cambiato solo nonno, ma non gli istinti di una destra violenta ed aggressiva, che solo raramente trova nella sinistra simili antagonisti.

L'etica del lavoro? Non me la sento in vicende come questa, di tirare in ballo l'etica del lavoro, che mette al centro proprio il mestiere, sin dal noviziato in bottega, o a scuola, e che cerca le soluzioni perché sia fatto al meglio, innovando, risparmiando fatica, rendendo tutto perfetto, dalla funzione al piacere estetico. Manzù l'artista, o Saletta - quest'ultimo, un vecchio tornitore - avevano l'etica del lavoro, per le opere che sapevano fare, e per la naturale dedizione che vi mettevano. Vi pare che essere soci sia un lavoro, se tutto si limita a raccogliere i frutti della fatica altrui? E se poi, come politico, della Santanché le sole cose che si possono notare sono la dedizione al capo, con un culto ostentato della personalità, che arriva alle urla in Tivvù, da baccante, come stregata dal nuovo archetipo di un moderno Dioniso, si può parlare di vera etica?
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Messaggio Da Lara Ven 16 Ago 2013, 22:32

La mia voleva, appunto, essere una provocazione, Einrix.
C’è,  a destra, uno sconveniente ricorso al lessico dell’impresa e del lavoro, volendo intendere che, a sinistra, ci sia invece solo la politica dell’assistenzialismo e della rigidità del lavoro.
Sono discorsi furbi e interessati, che vorrebbero dipingere l’impresa e il capitale come il regno dell’efficienza e delle regole di mercato, mentre il lavoro dipendente e i sindacati che lo tutelano, non come un fattore della produzione da remunerare, ma come un costo iniquo e parassitario, che lima profitti e pretende di intervenire sull’organizzazione aziendale.
La destra primitiva concepisce l’impresa come proprietà esclusiva dell’imprenditore e, come tale, produttiva di benefici per il solo proprietario. Gli altri fattori sono al suo servizio, per cui un’ impresa che crei profitto ma non ricchezza si inserisce nella perfetta logica di questa destra. Tutte le speculazioni finanziarie che hanno creato questa crisi non hanno aumentato di un grammo la quantità di ricchezza, hanno solo moltiplicato i profitti da capitale, una grande schiuma sullo stesso minuscolo boccale, sempre più vuoto nel fondo.
E mentre il lavoro si deve far carico dei problemi del sistema, l’impresa e la finanza rivendicano logiche autonome e intoccabili, le leggi superiori dell’universo economico: l’interesse privato e l’avidità, posti alla base della capacità di investimento.
Siamo all’inversione dell’utilità sociale.
E fa senso veder strumentalizzare la visione etica del lavoro da chi si limita ad investire capitali ed a recriminare sulle tasse devolute in welfare.
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Messaggio Da einrix Sab 17 Ago 2013, 19:26

Lara, la Santanchè mi ha suggerito che vi fosse poca etica del lavoro, nelle sue parole, ed invece, pura ostentazione di potere politico-economico-mercantile.
Da li discende la mia argomentazione.
Interessante è anche il tuo richiamo a quel lessico del lavoro, quando si parla di impresa, e di assistenzialismo quando si parli di sindacato e di sinistra. I linguaggi nascono sempre per qualche ragione, poi si sviluppano ed infine muoiono quando non siano più attuali. Chiunque può riconoscere le capacità di un Steve Jobs, in confronto a tanta gente che fa lavori modesti e che usa il suo computer multimediale, come un  telefono per raccontarsi banalità quotidiane.Il merito e le capacità personali che consentono la costituzione di gruppi professionali sempre più estesi e complessi - le imprese - non può essere negato a chi abbia dato una tale prova di mestiere e professionalità. E quanti ne abbiamo visti, sul lavoro, accanto a noi, o negli uffici in cui ci siamo recati, pigri e svogliati, quando non fossero degli incompetenti. Il fatto è che quando queste qualità individuali sono messe in campo, si selezionano protagonismi diversi e vicende umane che tendono a differenziarsi,
talvolta, anche molto rapidamente.
Questo processo non è inevitabile, e il comunismo ci ha mostrato che occorre pagare un prezzo elevato, bloccando a certi livelli la libera iniziativa, che altrimenti allargherebbe troppo la forbice della ricchezza e del potere, ma così facendo si addormenta tutto il sistema. Se invece, il sistema, lo lasciamo libero ed aumentiamo oltre ogni limite le libertà, quel processo si rompe per ragioni diverse, appena si manifesti qualche instabilità, che porta irrimediabilmente al conflitto sociale.
Lo stato democratico moderno si sostiene con un mix di  socialismo e liberalismo, che permetta ad ognuno di soddisfare i propri bisogni, in una società a più velocità, che attraverso il Welfare consente la giusta redistribuzione delle ricchezze.
Il fatto che oggi vi siano capitali monetari sfuggiti all'impiego nell'industria, è il sintomo che il vecchio liberalismo monetarista non si sia rassegnato al ruolo di sostegno dei debiti sovranii, e che preferisca sprigionare tutto il suo potere nella speculazione, in tutti i modi che in questi ultimi anni abbiamo visto.
Ma quei capitali, non sono sfuggiti solo all'impiego nell'industria manifatturiera o allo sviluppo delle attività agricole, e quasi sempre sono frutto di evasione fiscale, e quindi sono stati sottratti al welfare ed alla redistibuzione, attraverso il mercato interno; che è una delle ragioni del nostro declino.
Non è un caso che attorno a questo genere di capitale stia nascendo un lessico che parla della speculazione, delle bolle speculative che nascono in virtù di quei capitali corsari, mentre vi è molta più benevolenza per i soldi investiti nell'impresa che produce beni e lavoro.
Peccato che la materia sia così complessa; per ogni frase, sarebbe necessario aprire un capitolo di discussione, tanta è la vastità delle cose che dovremmo affrontare, e che andrebbero divulgate, proprio per cambiare le idee, quasi sempre in ritardo sui tempi, e molto spesso frutto di fraintendimento e malcelata propaganda.
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Messaggio Da Rom Dom 18 Ago 2013, 00:48

Lasciamo da una parte la Santanchè, che è una sintesi estrema e irripetibile di antipatia e di supponenza.

C'è stata negli anni 70-80, nell'ambito della sociologia politica e sindacale, una grande discussione su cosa fosse il lavoro, sulla spinta dell'evoluzione tecnologica e organizzativa che stava definendo il quadro della nuova società post-industriale.
Quella discussione ha portato molti frutti interessanti, che però sono rimasti senza conseguenze: appaiono, anzi, lontani e antichi, inattuali, come le lotte sindacali, lo statuto dei lavoratori e la concezione idealistica della democrazia dei quali sono figli.
Con gli anni 90 e poi 2000 tutto è stato soppiantato dalla revanche liberista e capitalista globale.
Il discorso di Lara si potrebbe allora sintetizzare così, in chiave attuale: il lavoro dei lavoratori è una merce, che si compra al prezzo più basso, quello dei capitalisti è un ruolo che si vende col massimo del profitto.
Questo è chiaro oggi, come era chiaro un secolo e mezzo fa: in particolare, toglie di mezzo l'equivoco per cui quello del capitalista sia un "lavoro".
Di nuovo c'è però quella che è più opportuno chiamare una "definizione" (cioè una parola in cerca di oggetto al quale applicarla) prima di considerarla tout court una "categoria": quella degli "imprenditori".
Una definizione estremamente vaga, dentro la quale ci può stare di tutto, dal capitalista che gestisce fondi bancari all'artigiano con partita IVA, al fondatore di un'azienda manifatturiera, alla tenutaria di un bordello.
L'uso e l'abuso di questa definizione fa sì che è scomparso dal vocabolario della comunicazione (quindi dalla coscienza) la figura del capitalista, sostituita appunto da quella dell'imprenditore, mentre il capitalismo sopravvive solo ai livelli rarefatti della trattazione macroeconomica: il capitalismo senza capitalisti - i servi senza padroni, perché in effetti c'è un unico padrone (il denaro, cioè il capitale) al quale sono (sarebbero) soggetti anche tutti coloro definibili come "imprenditori".
Tra le varie conseguenze di questo nuovo assetto filologico c'è che ogni riferimento alla "qualità" del lavoro, o anzi ogniobiezione sul contenuto dei "lavori", sulla loro reale utilità, sul valore intellettuale, sulla fatica, sul rischio, sul merito, può facilmente essere declassato a pettegolezzo, a piccineria, perfino a "invidia sociale".
E qui possiamo pure tornare alla Santanché, prototipo di quel genere di "imprenditori" ai quali si può dire con santa ragione "tu, personalmente, non fai un cazzo", e che ti possono rispondere (forse perfino in buona fede) "ma come ti permetti, ignorante, io sono un'imprenditrice".
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Messaggio Da cireno Dom 18 Ago 2013, 08:40

Mi spiace abbandonare questo tavolo di discussione ma stasera a Genova ho la nave che mi porterà a trascorrere una quindicina di giorni in Sicilia. Comunque il mio pensiero sul lavoro, lasciando perdere la femme de plastique come chiede Rom, è derivato alle teorie di Carlo Marx.

Marx ne Il Capitale ha analizzato la struttura di base del capitalismo e il rapporto del capitalista con il lavoro. Ai tempi di Marx il capitalismo produceva merce, per lo più, quindi il modello marxista di Denaro-Merce-+Denaro, che sovvertiva quello fino allora consueto e cioè Merce-Denaro-Merce, era logicamente legato al momento storico.
Perchè Marx sovvertiva il metodo tradizionale? Marx ha spiegato come, acquistando la forza lavoro che gli era necessaria per produrre la merce della sua azienda, il capitalista pagava il lavoratore con cifre molto inefriori alla merce che lo stesso avrebbe prodotto, da qui quello che Marx ha definito plusvalore, che altro non è che la differenza tra il costo del lavoratore e la merce che lo stesso ha prodotto. Successe poi, specialmente dopo la morte di Marx, che la forza lavoro, che Marx chiamava capitale variabile, venisse a essere sempre meno necessaria stante lo sviluppo dell'automazione, cioè di macchinari in grado di produrre senza l'apporto del lavoratore: questo Marx definiva il capitale costante.
Cosa successe ancora dopo, cioè ai nostri giorni? Succede che il capitale costante è diventato preponderante nella produzione di merci e di conseguenza quello variabile è diminuito. Con la diminuzione del capitale variabile, cioè del numero di occupati, nasce il grande problema che il capitalismo non è e NON SARA' mai in grado di risolvere: la sovrapproduzione e la disoccupazione. La sovrapproduzione viene dalle produzioni automatizzate che hanno numeri molto molto più elevati di quello che era con la forza lavoro umana, e la disoccupazione conseguente ha tolto all'imprenditore "il cliente" per le sue merci, e questo proprio nel momento che le produzioni si sono così modificate al rialzo nei numeri. 

Ed ecco allora l'esplosione della speculazione finanziaria: produrre è sempre meno interessante, quindi meglio usare i grandi capitali accumulati in speculazioni finanziarie, quando non stratta di vere rapine. Ma questo è un altro discorso.

Secondo voi c'è una possibile soluzione a questo nodo?  Secondo me ci sarebbe, e questa soluzione,non può essere trovata se non nell'applicazione delle idee politiche di Marx che distillerei in una semplice frase: la ricchezza prodotta da una nazione deve essere equamente distribuita nella nazione stessa. Si chiama giustizia sociale, una storia che nessun capitalismo è mai nemmeno riuscito a immaginare, e che nessun riformismo o revisionismo potrà mai affrontare con la forza necessaria.

Vi seguirò dalla Sicilia attraverso l'Ipad, ma in ogni caso ci rivedremo dopo il 4 settembre.
Ciao
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Messaggio Da einrix Dom 18 Ago 2013, 15:16

Merce, denaro... e l'uomo, dov'è finito l'uomo, con i suoi istinti e le sue pulsioni? Forse che basti un suo qualunque ruolo, di operaio, poeta, condottiero,capitalista, soldato, maestro, artigiano, ladro e omicida, a nasconderlo? Se penso che il liberal e filantropo George Soros ha quasi mandato in bancarotta la lira, per una delle sue speculazioni, senza mai mostrarsi come una persona arrogante, anzi, persino con un occhio di riguardo per gli ultimi governanti dell'URSS in preda alla crisi, e per l'Europa al bivio dei suoi buoni propositi, per la quale non manca neppure di dare consigli(1), mentre la Santanché, il massimo che ti combina è qualche piazzata, con squallida intervista per la Tivvù, in difesa del suo indifendibile Capo Branco. Se è così, allora, può venire in mente che la questione sia molto più complessa, che il denaro, come la conoscenza, sia un moltiplicatore della potenza dell'essere, del suo carattere, della sua volontà, e che là dove è buono può costruire, e dove è cattivo può distruggere. Anche l'accumulazione del denaro può essere buona o cattiva, come lo è il risparmio e l'avarizia. E via di questo passo in un discorso che si dipanna all'infinito, e che per la sua semplicità, cancella tutti i luoghi comuni, quasi degli aforismi alla scuola del costume.
Marx, caro Cireno, ha fatto un ottimo lavoro, in un momento in cui il senso comune usciva dal Medio Evo ed entrava in pieno nell'Illuminismo, e quell'uomo di cui riesco a fare brevi cenni, inventando la macchina a vapore e trasformando l'artigianato in manifattura, meritava di essere studiato nella sua nuova realtà sociale, così come si stava costruendo in Europa. Ed è così che riesce a dare dignità ad una classe della gleba, proprio nel momento in cui veniva trasferita quasi coattamente, dalla miseria, nell'industria. E inventa la proprietà personale del lavoro, dandogli quella dignità giuridica che prima non aveva. Ed è sulla base dei suoi studi che trovano sostegno scientifico i movimenti sindacali, come quelli politici avevano tratto sostegno dalla rivoluzione illuminista. Il problema è che ormai nessuno mette in discussione quei diritti sindacali e politici ormai conquistati, e la società, divenendo più complessa crea altre sacche di crisi che preparano la nuova trasformazione, e adesso non c'è nessuno che come Marx sappia cogliere i segnali deboli che vengono dal futuro, e così siamo in balia dei sentimenti e degli istinti confusi. Una delle grandi questioni è la gestione del grande aumento della produttività del lavoro che produce disoccupazione anziché tempo libero, oppure produce spreco di risorse. Ormai la questione dello stato è fuori discussione. Ognuno pensa che non si possa vivere senza stato, ed anche la questione della democrazia, con l'eccezione delle aree dove regna la teocrazia, è un fatto consolidato. Su queste fondamenta sociali occorre rimodellare una società che riesca a crescere pacificamente. E per farlo, occorre spuntare tutti i problemi, portarli alla discussione e risolverli. E' ciò che deve fare la politica.


note:
1) http://www.georgesoros.com/articles-essays/entry/the_resistible_fall_of_europe_an_interview_with_george_soros/
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Messaggio Da Arzak Lun 19 Ago 2013, 13:15

einrix ha scritto:Marx, caro Cireno, ha fatto un ottimo lavoro, in un momento in cui il senso comune usciva dal Medio Evo ed entrava in pieno nell'Illuminismo, e quell'uomo di cui riesco a fare brevi cenni, inventando la macchina a vapore e trasformando l'artigianato in manifattura, meritava di essere studiato nella sua nuova realtà sociale, così come si stava costruendo in Europa. Ed è così che riesce a dare dignità ad una classe della gleba, proprio nel momento in cui veniva trasferita quasi coattamente, dalla miseria, nell'industria. E inventa la proprietà personale del lavoro, dandogli quella dignità giuridica che prima non aveva. Ed è sulla base dei suoi studi che trovano sostegno scientifico i movimenti sindacali, come quelli politici avevano tratto sostegno dalla rivoluzione illuminista.
Isolo questo brano del profondo intervento di einrix perchè si collega ad alcune discussioni che arricchiscono i miei pomeriggi estivi. L'argomento, che cerco di delineare sinteticamente, è il seguente:
i grandi mutamenti della storia sono stati indotti dall'opera di grandi pensatori e uomini d'azione che ad essi si sono ispirati, o sono conseguenza di un meccanicismo ineluttabile che si sviluppa al di là della volontà delle classi antagoniste che si fronteggiano da secoli ?

Sarebbe facile rispondere che la verità sta in mezzo, e che la storia procede grazie a diversi contributi, sia intrinseci al proprio graduale svolgimento, sia estemporanei. E che la risposta dipende dal punto di vista in cui ci poniamo, ossia se la telecamera che riprende la scena è posta sul marciapiedi o sul tetto di un grattacielo. Per evitare il ginepraio pongo un'altra domanda:
se non fosse esistito un marx (minuscolo in quanto illustrativo della categoria, e non del personaggio) pensiamo che le condizioni delle classi lavoratrici sarebbero rimaste quelle della fine dell'ottocento?

Sì, no, forse...
Senza nulla togliere alla grandezza dei pensatori che hanno lasciato un'impronta nella storia, sono portato a pensare che il miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici sia avvenuto non in contrasto con gli interessi delle classi dominanti, ma sia stato da queste addirittura (e spesso inconsapevolmente) favorito proprio in ragione di un previsto aumento del profitto. Con tutti i ma e le contraddizioni che questo scontro-incontro ha comportato.
E' stato proprio il passaggio sopra ricordato dalla civiltà contadina a quella industriale a far capire ai nuovi padroni del vapore (in senso letterale) che il mantenimento della plebe nelle condizioni di schiavitù in cui era sempre vissuta era alla fine controproducente. Meglio un popolo di schiavi o uno di consumatori, a cui vendere con profitto la nuova merce prodotta in gran copia dalle macchine?
Non dico che il processo sia avvenuto con lucidità e linearità, ed è qui che si inserisce l'opera dei grandi pensatori e dei condottieri da essi ispirati. Ma se si pensa che il processo  di emancipazione del proletariato abbia portato nei secoli ad un riequilibrio dei poteri fra le due classi, ci sbagliamo di grosso. Negli anni 50 un Valletta guadagnava trentasei volte la paga di un operaio, con una Fiat in pieno sviluppo. Oggi, nell'epoca del declino, un Marchionne guadagna 6500 volte lo stipendio di uno dei suoi operai, il cui potere di acquisto è rimasto nel frattempo identico a quello degli anni 50. La redistribuzione della ricchezza, un indicatore non unico ma significativo della giustizia sociale, non solo non è migliorata, ma è peggiorata.
La strada è ancora lunga.
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Messaggio Da Rom Lun 19 Ago 2013, 14:42

Arzak ha scritto:
i grandi mutamenti della storia sono stati indotti dall'opera di grandi pensatori e uomini d'azione che ad essi si sono ispirati, o sono conseguenza di un meccanicismo ineluttabile che si sviluppa al di là della volontà delle classi antagoniste che si fronteggiano da secoli ?

Sarebbe facile rispondere che la verità sta in mezzo ...
La risposta, secondo me, è facile, e non sta in mezzo.
Semplicemente i marx, come i giulio cesare, i bach, i galileo, i guglielmo marconi e gli enzo ferrari, fanno parte dei meccanismi ineluttabili, ossia sono essi stessi dei "fatti", allo stesso tempo prodotti e produttori della storia.
Hai ragione a porti il problema del punto di vista, perché in effetti siamo costretti - oltre che irresistibilmnte tentati - di guardare alla storia come "fatti finiti" e definiti per categorie, per cui la disposizione cronologica o anche la semplice conoscenza dei fatti e dei personaggi ci induce (e ci consente) a elaborare le teorie più diverse sulla concatenazione di causa-effetto, schematizzandola.
All'opposto, vivendo la storia nella fase in cui è ancora cronaca, siamo quasi nell'impossibilità di individuare personaggi e categorie, e i fatti sono in così gran numero e così apparentemente "uguali", che non siamo in grado di averne una panoramica e tracciarne una gerarchia.
C'è però un momento fuggente - una "finestra temporale" e logica - che ci può aiutare, anche se non in modo definitivo: quel momento del passato prossimo in cui possiamo cogliere la metamorfosi con la quale la cronaca comincia a diventare storia - quello è il momento in cui appare la "necessità" dei fatti, che si materializzano anche in personaggi, fino a quel momento persi e confusi nella moltitudine o nella sfera delle ipotesi, o dei sospetti.

Per esempio, per storicizzare l'attualità politica nella quale ci troviamo, di quanto deve'essere "prossimo" (o remoto) il momento in cui troviamo quella finestra chiarificatrice? Io direi vent'anni, quasi esatti: non so se appena prima o appena dopo Mani Pulite, e forse faremmo bene a non considerare Mani Pulite uno spartiacque, perché probabilmente la fase cruciale sta qualche anno prima, nella caduta del Muro e dell'URSS.
Anzi, io sarei portato a eludere questi macro-avvenimenti, e cercare il flash in un livello più antropologico che politico, che legherei al fenomeno della comunicazione.
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Messaggio Da Arzak Lun 19 Ago 2013, 16:53

Rom ha scritto:Hai ragione a porti il problema del punto di vista, perché in effetti siamo costretti - oltre che irresistibilmente tentati - di guardare alla storia come "fatti finiti" e definiti per categorie, per cui la disposizione cronologica o anche la semplice conoscenza dei fatti e dei personaggi ci induce (e ci consente) a elaborare le teorie più diverse sulla concatenazione di causa-effetto, schematizzandola.
All'opposto, vivendo la storia nella fase in cui è ancora cronaca, siamo quasi nell'impossibilità di individuare personaggi e categorie, e i fatti sono in così gran numero e così apparentemente "uguali", che non siamo in grado di averne una panoramica e tracciarne una gerarchia.
Prima di affrontare il nuovo tema che proponi, e magari anche di tentare di rispondere alle mie domande vorrei approfondire la questione del punto di vista che ho enucleato. Magari alla fine diciamo la stessa cosa, perchè gli esempi e le metafore a volte tradiscono, ma con l'esempio della telecamera io la vedevo così: da lontano, guardando dal grattacielo, vediamo il flusso del traffico, e capiamo ad es. che scorre da est verso ovest e viceversa. Individuiamo quindi le grandi direttrici ma forse non sappiamo spiegare i movimenti che vi avvengono: perchè alcune di quelle macchinine vanno in una direzione e altre in quella opposta? Non potrebbero allora restare dove sono?
Se invece inquadro da vicino il guidatore dell'autobus, il vigile o il pendolare e lo intervisto riesco a dare un senso a quei movimenti che diventano soggettivamente volontari e ragionevoli. E' qui che nel paragone collocherei le figure storiche di cui sopra, che si mostrano protagoniste nell'ambito della visione ravvicinata, ma che in fondo nella visione da lontano non fanno che seguire un percorso ed un destino già tracciato.

Forse la cosa funziona così: con lo zoom (visione ravvicinata) spiego le cause contingenti, col grand'angolo (da lontano) individuo le cause remote di lungo respiro. In entrambi i casi mi pare però di poter dire che la funzione dei grandi personaggi nella storia dell'umanità andrebbe sfrondata da un'interpretazione idealistica, o idealizzata. Sono come dici sia causa che effetto dei mutamenti, ma per paradosso, rifacendomi al materialismo storico che vede l'economia come chiave fondamentale di interpretazione dei processi storici, trovo antimarxista dire che Marx sia stato la causa principale del processo di emancipazione delle classi subalterne. Forse, chissà, per coerenza si sentiva anche lui un epifenomeno...

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Messaggio Da Rom Mar 20 Ago 2013, 08:38

Arzak ha scritto:Se invece inquadro da vicino il guidatore dell'autobus, il vigile o il pendolare e lo intervisto riesco a dare un senso a quei movimenti che diventano soggettivamente volontari e ragionevoli. E' qui che nel paragone collocherei le figure storiche di cui sopra, che si mostrano protagoniste nell'ambito della visione ravvicinata, ma che in fondo nella visione da lontano non fanno che seguire un percorso ed un destino già tracciato.
... trovo antimarxista dire che Marx sia stato la causa principale del processo di emancipazione delle classi subalterne.
Sì, è certamente non-marxista eleggere Marx come "causa" dell'emancipazione.
Ma diciamo pure che Marx è, in fondo, un pragmatico, che ha elaborato una teoria che serviva allo scopo, mettendoci solo quanto bastava di fenomenologie sociali, di antropologia e di psicologia, per non parlare della metafisica. Altri, dopo di lui, hanno offerto spunti più interessanti su quelle materie, a cominciare da Gramsci, ma anche Freud, Russell e anche Einstein, il quale in polemica con Bohr disse quel "Dio non gioca a dadi" che, insieme con il problema de "l'osservatore" che è parte del fenomeno osservato, si ricollega alla genesi del nostro argomento.

Le metafore che abbiamo usato sono diverse - la tua più concreta, e interessante, la mia più astratta - ma convergenti.
Credo però che dovremmo scendere ancora di un livello, per trovare una sintesi tra la psicologia individuale e la fenomenologia legata ai "grandi numeri": in questo senso, mi sembra che possiamo aggiornare la metafora, assumendo quella del treno, che viaggia in una certa direzione pressoché obbligata (comprese le possibili varianti), mentre al suo interno i singoli individui viaggiatori possono  muoversi liberamente nelle direzioni più varie e compiere azioni che non cambiano la direzione del viaggio, ma ne cambiano la qualità e ne interpretano il senso - fino al punto che il "viaggio" è tale , e non è più solo uno "spostamento", proprio grazie alla percezione che ne hanno i viaggiatori.
Questo implica diverse cose, che si riassumono in un unico concetto, quello della relatività dei fenomeni: la "libertà", innazi tutto, che è tanto più "assoluta" quanto più se ne limita (psicologicamente) l'ambito in cui si esercita - nella metafora del viaggio, tale ambito limitato è quello dei vagoni e degli scompartimenti del treno - e che diventa improvvisamente inafferabile quando si prende atto che individualmente stai camminando dentro il treno, verso ovest, a tre chilometri l'ora, mentre il pavimento sul quale cammini (cioè il treno) sta andando verso nord-est a cento chilometri l'ora, rendendo vere (e false) entrambe le direzioni.
E questo rimette in discussione il concetto di "verità", ossia l'argomento stesso del quale stiamo parlando: "è più vero che Marx sia la causa etc, o è più vero che l'emancipazione sarebbe avvenuta ugualmente etc?"
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Messaggio Da Arzak Mar 20 Ago 2013, 10:33

Rom ha scritto:Questo implica diverse cose, che si riassumono in un unico concetto, quello della relatività dei fenomeni: la "libertà", innanzi tutto, che è tanto più "assoluta" quanto più se ne limita (psicologicamente) l'ambito in cui si esercita - nella metafora del viaggio, tale ambito limitato è quello dei vagoni e degli scompartimenti del treno - e che diventa improvvisamente inafferrabile quando si prende atto che individualmente stai camminando dentro il treno, verso ovest, a tre chilometri l'ora, mentre il pavimento sul quale cammini (cioè il treno) sta andando verso nord-est a cento chilometri l'ora, rendendo vere (e false) entrambe le direzioni.
E questo rimette in discussione il concetto di "verità", ossia l'argomento stesso del quale stiamo parlando: "è più vero che Marx sia la causa etc, o è più vero che l'emancipazione sarebbe avvenuta ugualmente etc?"
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Altra carne al fuoco. Il barbecue sta diventando succulento, ma occorre ogni tanto andare a sorvegliare le prime bistecche appoggiate, per non bruciarle... (metafora estiva. Domani ho una grigliata).
E dunque faccio il punto cercando di collegare i temi.
1 - pensatori: causa o effetto dei mutamenti storici?
2 - terza ipotesi: sono ininfluenti?
3 - libertà: metafora del treno, o del traffico, e concetto di relatività
4- possibile risposta: è l'economia che fa la storia

Ci sono poi due bistecche in sospeso:
5- passato prossimo, mani pulite e comunicazione
6- finestra temporale da cui osservare gli eventi


Ordunque: le questioni 123 credo siano state affrontate. Interessante il richiamo alla libertà relativa, mi viene in mente la frase che ha scritto qui qualcuno tempo fa: durante il fascismo le persone credevano di essere libere perchè il loro concetto di libertà coincideva esattamente con quella che veniva loro concessa. Frase di una profondità insospettata, che potremmo estendere ad altri ambiti, dalla concezione di noi stessi a quella del mondo. Gli antichi pensavano che la terra coincidesse con quanto osservavano direttamente, così come ancora oggi molti pensano che il mondo non vada molto oltre i confini del loro paesello mentale. Alcuni trovano ad esempio inspiegabile ed insopportabile che una donna dalla pelle nera abbia la sfrontatezza di definirsi italiana. E si sentono persino in buona fede.

Sembrerebbe dunque che il discorso della relatività muti la questione in un gioco sofistico o pirandelliano: così è se vi pare, dipende dai punti di vista, tutto è relativo ecc. Ossia, non si può stabilire con esattezza quanto le azioni umane (o l'opera dei grandi pensatori) influiscano sul corso degli eventi più di quanto gli eventi stessi condizionino il loro pensiero.
A mio avviso esistono però due ordini di risposte che ristabiliscono una qualche oggettività.
La prima viene da una considerazione che ricavo dalla tecnica della regolazione e dei controlli automatici, che mi è più familiare di approcci politico-filosofici che paiono fondati su di una semplice concatenazione di causa-effetto. Come giustamente dici, ogni evento è allo stesso tempo causa ed effetto: causa di eventi successivi ed effetto di quelli precedenti. Ma c'è di più, in quanto gli stessi effetti, in un certo lasso di tempo, influenzano retroattivamente le cause determinando nuovi effetti in un processo che può essere crescente, decrescente od oscillatorio. In gergo, ed einrix certamente converrà, si parla di controreazione positiva o negativa. Che io sappia nessuno ha collegato questo concetto ai cicli di Vico, che non sono semplicemente ondulatori come si crede, ma rappresentano una curva con oscillazioni crescenti, diciamo il prodotto di una sinusoide con un esponenziale, analoga a quella che in certe condizioni si ricaverebbe trattando con adeguati parametri il problema con il modello del feed back. Ma qui decisamente ci vorrebbe un libro a parte di cui credo di sarebbe bisogno, perchè raramente gli umanisti ed ancor meno i politici dialogano col mondo tecnico-scientifico.

Tornando al tema per non annoiare: la seconda considerazione che ci fornisce una risposta convincente richiama nuovamente Marx, e cioè la prevalenza dell'economia, e qui arriviamo al punto 4. Ci sarebbe stata la stessa evoluzione anche senza un marx? Probabilmente, mutatis mutandis, sì. L'analisi, e soprattutto la prassi marxista, ha aiutato il fenomeno, ma di certo non l'ha prodotto. Come ho accennato nel primo intervento, l'emancipazione delle classi inferiori non è avvenuta in antagonismo con quelle superiori, ma in stretta concordanza di interessi, complice la grandiosa trasformazione dall'economia agricola a quella industriale e poi finanziaria. E qui, per ora, mi fermo rimandando i punti 5 e 6 alla prossima puntata.
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Messaggio Da Rom Mar 20 Ago 2013, 13:58

Arzak ha scritto: Interessante il richiamo alla libertà relativa, mi viene in mente la frase che ha scritto qui qualcuno tempo fa: durante il fascismo le persone credevano di essere libere perchè il loro concetto di libertà coincideva esattamente con quella che veniva loro concessa.
Anche io, per il momento, mi fermo e ci rifletto sopra.
La frase che citi l'ho scritta io, riportando ciò che scrivevano Fruttero e Lucentini in quel divertente libretto intitolato Mille lire al mese - la vita quotidiana nell'Italietta fascista.
Io, che ho poca memoria, l'ho sempre ricordata, perché mi è sembrata da subito molto azzeccata, e significativa.
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