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Messaggio Da Adam Gio 25 Apr 2013, 08:42

In occasione della commemorazione della Liberazione, pubblico qui tre storie già pubblicate molti anni fa su Lettere Al Direttore. Tre flash di esperienza reale che, vissuta a quella giovane età, non si dimentica.

TRE GIORNI D’APRILE

1° giorno

Avevo 13 anni, compiuti da poco. Età acerba, età curiosa.
I ricordi di quei giorni di Aprile, tra il 20 e il 25 del 1945, si intrecciano con le informazioni raccolte dopo, negli anni e questo racconto ne è la non fluente elaborazione.
Dicevano che i tedeschi se ne erano andati e con loro la parte militarizzata della Repubblica di Salò. A Torino erano rimasti quei fascisti che non sapevano dove andare e che con molto ottimismo pensavano che, in un modo o nell’altro, quei brutti giorni sarebbero passati.
I partigiani stavano scendendo dalle montagne e dalle colline e si concentravano nei centri urbani, Ad essi si aggiungevano quelli “dell’ultima ora” che ne ingrossavano le file, distinguendosi dai primi, per l’abbigliamento più “cittadino” e per le armi ottenute e maneggiate con meno disinvoltura.
Era pomeriggio tardi, quasi sera, il campanello suonò con un trillo prolungato, perentorio, ed io andai ad aprire. Mentre mi avvicinavo alla porta, sentivo voci concitate sul pianerottolo, sconosciute, alterate, per cui socchiusi l’uscio con grande timore.
Erano tre uomini armati, uno armatissimo, al dischiudersi del battente lo spalancò con forza gettando me, che ne ero appoggiato, contro la parete. Rimase con il braccio proteso a mantenerlo aperto e, senza guardarmi, continuava a discutere con gli altri due.
Capii che parlavano del Tenente Rizzo, che abitava al piano di sopra con i suoi genitori, quando uno dei tre che ancora aveva un piede sulla scala, mi chiese dove abitavano coloro di cui stavano parlando.
Non avevo voce per rispondere ed indicai con il braccio il piano superiore. I tre allora guardandomi in un modo che per la paura intesi come avvertimento a non mentire, abbandonarono il pianerottolo per salire le due rampe di scale che li dividevano dal loro obiettivo.
I Rizzo erano una famiglia alla quale la mia era molto legata, il padre, funzionario comunale, era un ometto timido e molto a modo, sempre vestito di scuro, quando mi incontrava con mia madre si fermava e si toglieva il cappello che d’estate e d’inverno nascondeva la sua quasi totale calvizie, portava all’occhiello quello che allora era il necessario pass-par-tout per far parte della pubblica amministrazione, la “cicca” del PNF, ma del fascista non aveva proprio l’aria.
La madre era un donnone simpatico ed estroverso, amicona di tutte le donne del fabbricato, con le quali si intratteneva in lunghe chiacchierate, alle quali mia madre, non portata al pettegolezzo, cercava invariabilmente di sottrarsi, con garbo ma con fermezza.
Il figlio unico, orgoglio dei suoi, era uno studente che come tanti aveva dovuto interrompere gli studi universitari per andare sotto le armi. Aveva fatto il corso da allievo ufficiale e da sottotenente aveva partecipato a non mi ricordo quale Campagna. L’otto settembre del ’43, convalescente per una leggera ferita , si trovava in licenza a casa e quando si pose come a tutti i ragazzi come lui, la scelta tra l’aderire alla Repubblica di Salò o riparare in montagna, ascoltando le implorazioni di sua madre che temeva per la sua salute nell’immaginarlo nel freddo inverno dei monti inospitali, si era presentato all’arruolamento nel nuovo esercito repubblichino.
Acquisì i gradi da Tenente ed andò a comandare un distaccamento in un paese vicino a Torino.
Disgrazia volle che in quel paese i partigiani, individuato un obiettivo per una loro azione di sabotaggio, facessero scoppiare una bomba per cui, con il coordinamento del comando delle SS tedesche, ci fu un’azione di ritorsione violenta per la quale morirono alcuni civili estranei ai fatti.
Un episodio di ordinaria follia di cui la storia della Resistenza è purtroppo colma, un episodio che coinvolse la responsabilità del povero tenente, che per le credibili spiegazioni che ebbe modo di dare in seguito, fu completamente estraneo alla responsabilità del fatto; ne fu coinvolto suo malgrado e non ci si poteva certo aspettare, per il tipo che era, da lui atti eroici quali sarebbero stati la ribellione agli ordini avuti.
Quel fatto aveva causato l’iscrizione del suo nome nelle liste dei ricercati e l’azione dei tre ne era la conseguenza.
Dopo che i partigiani erano saliti al piano superiore, io non avevo chiuso completamente la porta, ma ero rimasto a sentire quello che stava succedendo.
I tre suonarono ripetutamente il campanello e batterono violentemente contro il legno della porta fino a che questa si aprì ed alla signora Rizzo terrorizzata, gridarono l’ordine che avevano avuto di prelevare suo figlio.
Ho ancora nelle orecchie la voce implorante di quella donna, che diceva che il figlio non era in casa, che potevano controllare, che il figlio non era più tornato da settimane, che, comunque, qualunque fosse la ragione del loro intervento, suo figlio era un bravo ragazzo che non aveva mai fatto male ad alcuno. Li invitava ad entrare, voleva dar loro le chiavi della cantina e della soffitta ‘che controllassero pure. Diceva e piangeva, veniva sulle scale a cercare qualche voce amica che potesse aiutarla in quella terribile circostanza, e tanto disse e tanto implorò , che i tre dopo aver cercato invano in casa se ne andarono senza più parlare, scendendo velocemente le scale con il rumore metallico dei chiodi che avevano sotto gli scarponi.
Mi affacciai alla finestra e li vidi salire sulla macchina che li aveva aspettati fuori dal portone.
Se ne andarono con uno dei tre seduto sul parafango a cavalcioni sul fanale, come era loro costume.
Allora corsi nella mia cameretta,e, chinandomi per guardare sotto il letto rassicurai il Tenente Rizzo che il pericolo era passato. Non riprendemmo la ripetizione di latino, non ne avremmo avuto testa.
Antonio Rizzo, trovò modo di rifugiarsi da certi suoi parenti in Francia. Lo rividi alcuni anni dopo con una bella francesina per moglie ed un bel marmocchio al quale avevano dato il mio nome.

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Messaggio Da Adam Gio 25 Apr 2013, 08:43

2° giorno

Tra le figure femminili che alimentavano la mia fantasia di adolescente, vi era quella di una bionda sconosciuta che abitava nel palazzo di fronte, sull’altro lato di Corso Regina Margherita, a cinquanta sessanta metri dalle mie finestre.
Era una ragazza che, deducendo da ciò che la mia memoria conserva, poteva avere venticinque anni o giù di lì. Bionda con i capelli come si portavano allora, tirati sulle tempie, lunghi al disopra delle spalle ed una voluminosa frangia che le copriva la fronte.
Formosa da suscitare le mie adolescenti curiosità, elegante con il suo vistoso “collo” di due volpi argentate che si trattenevano l’un l’altra mordendosi i musi. Slanciata, ma non alta, nei suoi aderenti tailleurs portati da due gambe da brividi precise e diritte come la cucitura scura delle calze di seta che, partendo dalle caviglie sottili, si insinuava sotto la gonna aderente.
L’avevo notata una prima volta in chiesa, una domenica, e l’avevo guardata tante altre volte, abbastanza per farne l’oggetto delle mie fantasie. Guardavo con insistenza le finestre dell’appartamento dove abitava e dalla quali spesso si affacciava, ed aguzzavo lo sguardo per carpire visioni facili da sognare, ma difficili da vedere.
Sentivo dire che frequentava i tedeschi, e questo era detto sottovoce e con quel disprezzo prudente e ben celato, indispensabile in allora per non finire nei guai; ma tant’era la mia ammirazione per lei e tanto poco il mio coinvolgimento nelle cronache di quei giorni dannati, che la cosa non scalfiva il mio desiderio di vederla e ammirarla tutte le volte che ne avevo la possibilità.
E quando fuori dal suo portone l’aspettava il macchinone nero con l’ufficiale nazista che l’accompagnava, sentivo i morsi della gelosia, come l’avrei sentito per qualunque altro accompagnatore, a prescindere.
La liberazione di Torino era incominciata il giorno prima.
Si sentivano i colpi di moschetto e le raffiche di mitragliatrice, sparati dai cecchini fascisti.
Radi i viandanti, si vedevano principalmente gruppi di partigiani che passavano radenti i muri delle case, e si fermavano di tanto in tanto per cercare le finestre dove era annidato il nemico da colpire, ed individuatole, le facevano segno a raffiche di colpi che precedevano l’azione della cattura che aveva sempre successo e costava invariabilmente la vita al fascista di turno.
Altri gruppi si indirizzavano, invece a colpo sicuro. Conosciuto l’indirizzo dove si presumeva fosse nascosto il loro obiettivo, si suddividevano i compiti: chi saliva armatissimo a stanare il ricercato; altri attendevano con un automezzo i compagni e la preda per portarla al comando che avrebbe deciso del suo destino.
Altre volte era come se l’iniziativa non fosse stata preordinata. Pattuglie si formavano e, sulla base di informazioni raccolte lì per lì - e chissà quante nefandezze sono state compiute per inconfessabili desideri di vendette personali -, procedevano a prelevare degli indiziati di fascismo o di collaborazionismo, per farne scempio e denigrazione in pubblico, per poi ucciderli o, nei casi migliori, per consegnarli alle loro autorità che ne disponeva a discrezione secondo il caso.
Era un primo pomeriggio, i miei genitori erano usciti ordinandomi di non muovermi da casa, ed io, in compagnia del mio amico del cuore, con il quale dividevo le emozioni forti di quei giorni, me ne stavo eccitato alla finestra a guardare giù nel corso quella vita straordinaria così eccezionalmente diversa dalla normalità.
Passavano a tutta velocità veicoli di tutte le specie con a bordo partigiani armati, spesso seduti sui parafanghi con il fucile pronto a sparare in caso di necessità.
Uno di questi si fermò davanti al portone dove abitava la ragazza dei miei sogni. Ne scesero alcuni uomini, mentre altri aspettavano fuori guardandosi in giro.
Ebbi subito la dolorosa certezza che quella gente armata era andata a prendere colei che per le disinvolte e forse irresponsabili scelte di vita fatte era marchiata come collaborazionista.
Infatti dopo non molto stagliata nel riquadro buio dell’androne, con le mani legate dietro la schiena e spinta dagli uomini che la seguivano, apparve lei.
Aveva una camicia bianca sulla gonna scura ed i capelli ordinati come sempre.
Dimenticandomi della raccomandazione che mia madre mi aveva fatto, presi Giorgio per un braccio e mi precipitai giù per la scale. Attraversammo di corsa la strada e ci avvicinammo al capannello di curiosi che eccitati da morbosa curiosità avevano lasciato i prudenti rifugi per godersi lo spettacolo.
Ora la ragazza mi era vicino come non lo era mai stata prima. Aveva uno sguardo atterrito, implorante pietà, una pietà che non le poteva essere concessa. Pallida, mi appariva di una struggente bellezza, ansimava per la paura e, quando uno dei partigiani la prese per i capelli gettandola in ginocchio, emise un lamento, non un grido, un lamento lungo un’eternità che si spense poco a poco divenendo un rantolo, un rantolo di terrore.
Qualcuno estrasse una macchinetta, una di quelle macchinette che i barbieri usano per radere la sfumatura dei capelli sulla nuca, e incominciò a raderla.
I bei capelli biondi cadevano a ciuffi sul selciato ed il cranio appariva bianco, assurdo; e quando anche l’ultima ciocca cadde, un’altra mano armata da un pennello intinto nel minio, le tracciò sulla pelle appena rasata una svastica rossa.
Intanto la piccola folla che si era radunata, mostrò il suo falso coraggio. Uomini e donne che singolarmente avrebbero forse ceduto alla pietà, drogate dall'effetto del reciproco sostegno, incominciarono ad insultarla, a sputarle addosso, a colpirla, persino, con codardi ceffoni e la ragazza sanguinava dal naso e il sangue colava sul suo collo ed intrideva la sua camicia bianca.
I partigiani non parteciparono al linciaggio, assistettero per un po’ e poi alzarono la poveretta e la fecero entrare a forza nell’autovettura, partendo per non so quale destinazione.
Io, con il viso rigato dalle lacrime, guardai l’auto che si allontanava e rimasi immobile, in silenzio con il mio amico al fianco.
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Messaggio Da Adam Gio 25 Apr 2013, 08:43

3° giorno

In quei tragici giorni, andare in giro per le strade poteva essere pericoloso, per cui quando i miei genitori dovevano uscire, mi raccomandavano di non muovermi da casa.
Ma la voglia di disobbedire era tanta perché l’attrazione del partecipare fisicamente a quegli eventi straordinari era maggiore del senso del dovere e, non appena i richiami del mio amico si facevano poco più che pressanti, dimentico delle raccomandazioni mi precipitavo in strada con lui.
Una delle attività che più ci eccitava, era andare alla ricerca dei reperti che la guerra civile abbandonava lungo la via.
Bossoli di ogni genere, e altre cose che avevano a che fare con la guerra che si stava combattendo, erano le prede ambite che invidiavamo ai ragazzi più grandi e più liberi di noi nel cercare in posti che noi non potevamo certo pensare di frequentare come, ad esempio, le caserme e le postazioni abbandonate dai fascisti e dai tedeschi in fuga .
Le armi abbandonate erano il massimo, ma anche elmetti e abbigliamenti erano oggetti molto contesi, così che, non potendoci allontanare più di tanto dalla nostra zona, sfruttavamo ogni opportunità che ci veniva a tiro.
Erano le ultime ore della liberazione di Torino, non so dire con esattezza quale giorno fosse, ma si capiva che la fine di quell’ultimo, tragico capitolo di quel libro orrendo che è stato il lustro di guerra, era imminente perché gli spari erano sempre più radi e la violenza delle ritorsioni e delle vendette diminuiva mano a mano che si esauriva l’elenco delle vittime predestinate.
Quindi, la città usciva lentamente dalla paura che l’aveva paralizzata per giorni e riprendeva poco a poco a vivere, si incominciava a vedere gente che, frettolosa, si occupava dell’essenziale ed il traffico di automezzi aumentava.
Erano ancora in maggioranza auto di partigiani, auto di tutti i tipi, che percorrevano le strade sventolando tante bandiere rosse e qualche tricolore. Andavano come matti esibendo il predominio che avevano preso sul territorio, talvolta troppo euforici da abbandonare le più elementari regole di prudenza, come successe per l’appunto a due di quei veicoli : l’uno percorrente il Corso Regina e l’altro proveniente dal Ponte Rossini, che, non rispettando ne le regole di precedenza, ne’ quelle di una prudente condotta di guida, si scontrarono proprio nel mezzo del trafficatissimo incrocio con un gran botto e gravissimi danni agli occupanti, specie ai due che erano a cavallo del parafanghi anteriore.
L’incidente provocò subito un accorrere di tutti coloro che erano nei pressi ed un grande ingorgo, perché il Ponte Rossini, è l’inizio di Via Catania, ossia della principale via d’accesso al Cimitero principale della città ed in quei giorni era purtroppo una delle vie più frequentate di Torino a causa della sanguinosa lotta che si stava concludendo.
Io ed il mio amico eravamo a pochi metri dello scontro e quindi assai prossimi alla fila di automezzi che si stava formando.
Uno di questi, un piccolo camioncino con il cassone coperto da un telo, attirò la nostra attenzione più dell’interesse per l’esito dell’incidente. I due partigiani che erano in cabina erano scesi per avvicinarsi ai feriti ed avevano quindi abbandonato alla nostra curiosità il loro mezzo, la quale curiosità altro non era che la speranza di poter trafugare da quel cassone qualcosa d’interessante che potesse essere esibito con orgoglio ai nostri amici più grandi.
Con fare furtivo armeggiammo per sollevare il telo e guardare a ciò che era contenuto all’interno.
Ciò che ci apparve, e che ancora oggi a distanza di tanti anni, permane scolpito indelebilmente nella mia memoria fu il volto grigio della morte.
Quel cassone conteneva cadaveri accatastati destinati al Cimitero. Non so dire quanti fossero, perché, impietrito dalla sorpresa, non riuscivo a distogliere lo sguardo dal viso di quel morto ammazzato volto verso di me. Pareva mi fissasse con quegli occhi semichiusi, la bocca aperta e sul viso l’inespressiva maschera della morte.
Devo pensare fosse un fascista. Dovrei pensare che quel suo tragico destino fosse il giusto esito di chissà quali nefandezze e perciò ineluttabile, e sarà sicuramente così. Ma la realtà è che in quel viso ancor oggi ritrovo la sintesi di quel tragico, dannato periodo del quale sono stato testimone e che ha lasciato in me un’avversione viscerale per la violenza e per l’odio che la genera.
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