La mia città - Barcellona
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La mia città - Barcellona
Barcellona è la mia seconda patria. Nel senso letterale del termine, perché vi è nato mio padre, ma anche perché dall'età di un anno in poi, quando mi ci portarono attraversando fortunosamente in nave il Golfo del Leone, ho avuto con essa continui scambi fatti di visite e di relazioni parentali. Qui racconto qualche impressione raccolta in un viaggio avvenuto in una stagione che vi sarà facile identificare.
***
La diva del momento era la rigogliosa e conturbante Brigitte Bardot, snobbata dai critici perché non sapeva recitare. Come se un difettuccio del genere fosse poi così importante. Le avevano persino dedicato una canzone in portoghese, di cui tutti canticchiavano le strofe pur senza capirne il significato.
La canzone più in voga da noi era invece Marina, che aveva fatto il giro del mondo per tornare in Italia attraverso le più incredibili versioni, dal turco allo spagnolo, dall’eschimese allo swaili. Il gioco dell’estate era lo scoubidou, consistente in quattro fili di plastica colorata che tutti i ragazzini intrecciavano alacremente per formare braccialetti e portachiavi. Anche lui si era meritato la sua brava canzoncina in francese, forse di scarso valore musicale ma terribilmente orecchiabile (...pommes, ...poires, et puis, scoubi-doubi-dou, ha!). Gioco poi soppiantato da quelle rumorosissime palline sospese a due fili che venivano fatte cozzare velocemente fra loro rovinando la siesta a mezzo continente, ma si sa, il progresso è inarrestabile.
Ero appena uscito dall'infanzia, e la proposta di accompagnare gli zii in Spagna proprio quando i miei orizzonti culturali si aprivano a tali affascinanti novità mi fa subito fremere per l’eccitazione.
***
Si viaggiava con una millecento D, quella con le alette, che la Fiat ha smesso di costruire appena si è accorta che era indistruttibile, trasferendo la catena di montaggio in India dove infatti continua a circolare ancora oggi in milioni di esemplari.
La Spagna che mi trovo di fronte appena passata la frontiera viveva ancora quel lungo e irripetibile momento di sospensione in cui il passato si prolungava fino ad occupare stabilmente il presente, nell’attesa che anche su quel paese si abbattessero i due grandi flagelli del secolo, l’automobile e la speculazione edilizia. In campagna giravano ancora i carretti trainati dall’asinello, carichi di otri di terracotta in cui veniva tenuta l’acqua che restava sorprendentemente fresca anche sotto il sole.
I villaggi color fango secco che attraversavamo erano assolati e addormentati, ma all’arrivo dell’auto venivamo subito circondati da una piccola folla di bambini, spesso scalzi e malvestiti, ma che col loro sorriso confermavano un paradosso universale: più precarie sono le condizioni economiche, più i bambini appaiono allegri e vivaci. Solo in Africa, in Asia o in Sud America i visi dei bambini sono ancora oggi illuminati da sorrisi scintillanti. Man mano che si procede verso nord, con l’aumentare del benessere i bambini diventano più ombrosi, più complessati, in definitiva più tristi, ed è forse questa la ragione umanitaria che sconsiglia i paesi più ricchi dall’aiutare quelli più poveri.
Non fosse stato per la guerra civile, che la riportò indietro di decenni, la Spagna era avviata a diventare una delle più sviluppate nazioni europee già negli anni trenta. Risalgono ad allora ad esempio i primi tentativi di Juan de La Cierva, alle prese con una nuova strana macchina volante chiamata autogiro, il progenitore dell’elicottero. Grazie al suo sviluppo industriale Barcellona divenne la città più popolosa della Spagna suscitando così le gelosie del governo di Madrid, che per mantenere il primato ne ritoccò artificiosamente i confini amministrativi, espediente che gli attirò l’eterno risentimento dei catalani.
Erano passati pochi decenni, ma del bagno di sangue che spaccò in due il paese non si avvertiva più alcuna traccia. I sostenitori del legittimo governo repubblicano e quelli dei generali insorti si erano lungamente massacrati a vicenda, ed entrambi separatamente ma concordemente avevano massacrato i religiosi e gli anarchici.
La forzata tranquillità imposta dal franchismo aveva poi favorito un certo benessere, e nonostante il solito squilibrio fra Nord e Sud le rivalità più aspre sembravano scomparse. La Chiesa aveva però perdonato, e assieme all’Opus Dei, suo braccio secolare, era tornata a riprendere il suo consueto ruolo spirituale e temporale accanto ai vincitori.
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La diva del momento era la rigogliosa e conturbante Brigitte Bardot, snobbata dai critici perché non sapeva recitare. Come se un difettuccio del genere fosse poi così importante. Le avevano persino dedicato una canzone in portoghese, di cui tutti canticchiavano le strofe pur senza capirne il significato.
La canzone più in voga da noi era invece Marina, che aveva fatto il giro del mondo per tornare in Italia attraverso le più incredibili versioni, dal turco allo spagnolo, dall’eschimese allo swaili. Il gioco dell’estate era lo scoubidou, consistente in quattro fili di plastica colorata che tutti i ragazzini intrecciavano alacremente per formare braccialetti e portachiavi. Anche lui si era meritato la sua brava canzoncina in francese, forse di scarso valore musicale ma terribilmente orecchiabile (...pommes, ...poires, et puis, scoubi-doubi-dou, ha!). Gioco poi soppiantato da quelle rumorosissime palline sospese a due fili che venivano fatte cozzare velocemente fra loro rovinando la siesta a mezzo continente, ma si sa, il progresso è inarrestabile.
Ero appena uscito dall'infanzia, e la proposta di accompagnare gli zii in Spagna proprio quando i miei orizzonti culturali si aprivano a tali affascinanti novità mi fa subito fremere per l’eccitazione.
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Si viaggiava con una millecento D, quella con le alette, che la Fiat ha smesso di costruire appena si è accorta che era indistruttibile, trasferendo la catena di montaggio in India dove infatti continua a circolare ancora oggi in milioni di esemplari.
La Spagna che mi trovo di fronte appena passata la frontiera viveva ancora quel lungo e irripetibile momento di sospensione in cui il passato si prolungava fino ad occupare stabilmente il presente, nell’attesa che anche su quel paese si abbattessero i due grandi flagelli del secolo, l’automobile e la speculazione edilizia. In campagna giravano ancora i carretti trainati dall’asinello, carichi di otri di terracotta in cui veniva tenuta l’acqua che restava sorprendentemente fresca anche sotto il sole.
I villaggi color fango secco che attraversavamo erano assolati e addormentati, ma all’arrivo dell’auto venivamo subito circondati da una piccola folla di bambini, spesso scalzi e malvestiti, ma che col loro sorriso confermavano un paradosso universale: più precarie sono le condizioni economiche, più i bambini appaiono allegri e vivaci. Solo in Africa, in Asia o in Sud America i visi dei bambini sono ancora oggi illuminati da sorrisi scintillanti. Man mano che si procede verso nord, con l’aumentare del benessere i bambini diventano più ombrosi, più complessati, in definitiva più tristi, ed è forse questa la ragione umanitaria che sconsiglia i paesi più ricchi dall’aiutare quelli più poveri.
Non fosse stato per la guerra civile, che la riportò indietro di decenni, la Spagna era avviata a diventare una delle più sviluppate nazioni europee già negli anni trenta. Risalgono ad allora ad esempio i primi tentativi di Juan de La Cierva, alle prese con una nuova strana macchina volante chiamata autogiro, il progenitore dell’elicottero. Grazie al suo sviluppo industriale Barcellona divenne la città più popolosa della Spagna suscitando così le gelosie del governo di Madrid, che per mantenere il primato ne ritoccò artificiosamente i confini amministrativi, espediente che gli attirò l’eterno risentimento dei catalani.
Erano passati pochi decenni, ma del bagno di sangue che spaccò in due il paese non si avvertiva più alcuna traccia. I sostenitori del legittimo governo repubblicano e quelli dei generali insorti si erano lungamente massacrati a vicenda, ed entrambi separatamente ma concordemente avevano massacrato i religiosi e gli anarchici.
La forzata tranquillità imposta dal franchismo aveva poi favorito un certo benessere, e nonostante il solito squilibrio fra Nord e Sud le rivalità più aspre sembravano scomparse. La Chiesa aveva però perdonato, e assieme all’Opus Dei, suo braccio secolare, era tornata a riprendere il suo consueto ruolo spirituale e temporale accanto ai vincitori.
Arzak- Messaggi : 363
Data d'iscrizione : 10.04.13
Re: La mia città - Barcellona
Contrariamente a quanto suggeriva l’aspetto della campagna, che faceva pensare ad una Spagna arcaica tutta nacchere e miseria, Barcellona mi dà subito un’idea di modernità, con la sua metropolitana, una delle prime in Europa, i suoi autobus a due piani come a Londra e le sue ampie prospettive. Scarsissimo invece il traffico privato, caratteristica che esaltava l’imponenza degli edifici e la vastità delle strade percorse quasi esclusivamente da simpatici taxi gialli e neri.
Le uniche auto in circolazione erano delle SEAT, allora filiale spagnola della Fiat che anche lì costruiva i suoi gioielli, la classica Seicento e l’innovativa Seicento multipla, una vettura talmente al di fuori dei canoni estetici tradizionali che la sua informe goffaggine poteva passare come un esempio di arte di avanguardia. Esisteva altresì un veicolo di produzione spagnola, ma a fatica lo si poteva considerare un’autovettura. Era l’ineffabile Biscuter, una scatola di latta ondulata priva di tetto e fornita di quattro rotelline, talmente piccola che oggi potrebbe essere tranquillamente contenuta dentro il portapacchi di una Volvo familiare, ma allora portava tranquillamente in giro due persone svicolando fra i grossi autobus di Barcellona con l’agilità di una barchetta a motore a cui in effetti assomigliava. Memore di questa gloria nazionale, molti anni dopo Vazquez Montalban battezzò col nome di Biscuter l’introverso aiutante di Pepe Carvalho.
In un simile panorama automobilistico, la nostra millecento con le alette era una vera sciccheria, e lo zio la conduceva orgogliosamente lungo i vialoni di Barcellona che sembravano fatti apposta per accogliere sfilate trionfali. Anche i nomi lo suggerivano: Avenida del Generalisimo, dedicata a Francisco Franco, chiamata però dai catalani La Gran Via; Avenida José Antonio Primo de Rivera, che prendeva il nome dal fondatore della Falange figlio d’arte di un precedente dittatore, anch’essa ridenominata La Diagonal.
Come si può capire i catalani non apprezzavano molto Franco, alla tempra morale del quale alludeva velatamente il nomignolo con cui era stato familiarmente ribattezzato, La Mierda. Alla serie dei nomi usati in sostituzione di quelli voluti dal regime apparteneva anche il viale detto La Meridiana, così chiamato nell’errata convinzione che fosse allineato al meridiano di Greenwich da cui dista invece 180 km. Non fatelo però notare ai catalani, non amano la pedanteria.
Ci installiamo con gli zii italiani dai nostri parenti catalani (nessuno è perfetto) in un paesino nelle vicinanze di Barcellona, in quella splendida campagna stordita dal sole di giorno, ma che alla sera si animava di tavolate all’aperto e di balli popolari. Ballo tipico, la sardana, la cui origine è chiaramente denunciata dal nome. La prima cosa che mi disorienta è la scansione dei pasti. Forse era colpa del rilassato clima vacanziero tipico dell’estate, ma era difficile abituarsi alle diversità: la prima colazione si svolgeva alle undici, e consisteva in genere in una frittata di patate e cipolle. Il pranzo iniziava alle tre del pomeriggio e durava fino alle cinque. Alla domenica invece si protraeva fino alla sera, quindi mezz’oretta di intervallo, poi si attaccavano gli antipasti per preparare lo stomaco alla cena delle dieci.
I piatti più frequenti erano la paella a la valenciana, un piattone di riso da cui spuntavano orribilmente scaglie e chele appartenenti a cadaveri di alcuni animali marini, oppure la butifarra amb boléts, una sorta di salame arancione rinsecchito e piccante servito con i funghi. Nonostante l’appetibilità di simili vivande, sia io che i miei vari cugini preferivamo di gran lunga due belle fette di pan i tomaca, versione catalana della nostra bruschetta.
Come dessert tutti andavamo pazzi per i churros, delle paste dolci ultrafritte e ultrazuccherose, ma la mia vera passione era il morbido torrone Jijona, un’untuosa mescolanza di miele e di farina di sesamo che ho poi riscoperto in Turchia col nome di helva. Un vero concentrato di glucosio, tanto che ne bastava una fettina per restarne nauseati per una settimana. Il problema era che ne divoravo due etti per volta, segno di una tendenza masochistica e dell’umana incapacità di resistere alle tentazioni, soprattutto se dannose. Non era quindi raro che dopo un pasto del genere l’organismo si ribellasse obbligandomi a ricorrere ad una dieta di tisane e decotti, fatto che mi procurò da parte dello zio spagnolo il benevolo soprannome di Don Camomillo.
La vera specialità che rende però la Spagna un paese incomparabile è una bevanda che scopro in un bar all’aperto della rambla, dove dopo una faticosa visita della città ci insediamo sopraffatti dal caldo e dalla stanchezza. Alla vera horchata de chufa, indicava il cartello. Incuriosito soprattutto dal nome ne ordino una, e poco dopo compare un bicchiere da mezzo litro imperlato di goccioline. Dentro c’era un liquido biancastro dall’apparenza sospetta, ma quando lo assaggio con una cannuccia di paglia come si usava allora, mi conquista immediatamente. Niente di più fresco, saporito e dissetante sotto il sole. Non dolciastro e acidulo come l’orzata nostrana, ma una specie di latte vegetale dal sapore naturale, una linfa che va giù subito accettata e riconosciuta istintivamente dall’organismo come nutriente e genuina. Trangugio immediatamente il bicchierone, poi, sotto lo sguardo critico dello zio cui erano affidate le mie finanze, ne ordino un altro. Non ci sono né frappé né frullati che possano reggere al confronto, non parliamo di quelle decadenti e appiccicose bibite americane tutte zucchero, bollicine, additivi e coloranti. Basterebbe solo questo paragone a sancire la superiorità della cultura mediterranea rispetto alle sue degenerazioni d’oltremare.
Per penetrare appieno il vero spirito dei catalani bastano sei sillabe: Dalì, Mirò, Gaudì. Chi è capace di rappresentare la realtà come un insieme di orologi liquefatti o di donne dotate di cassetti, come fa il primo, è sicuramente capace di percepirne le verità nascoste più di qualunque psicanalista e meglio di qualunque psicologo. Salvador Dalì non si peritava di presentarsi in società in costume da bagno con la coniuge al guinzaglio, ma era forse proprio la sua eccentricità a permettere le intuizioni che sviluppava sulla tela.
Ancora più stravagante la pittura di Mirò, tra l’infantile e l’onirico, con quegli strani oggetti (o animali?) che si librano in un cielo irreale. L’opera d’arte più eclatante prodotta dal genio artistico catalano è però Barcellona stessa, la Barcellona di Gaudì. Basti considerare il tempio della Sagrada Familia, un’opera ancor oggi in costruzione, come se lo sforzo creativo del suo ideatore si stia prolungando ben oltre la sua stessa esistenza terrena. Ci vuole del coraggio per arrampicarsi sfidando le vertigini all’interno delle sue strette guglie irte di pinnacoli e di demoni a metà fra lo stile gotico e quello del luna park. Come gli altri artisti spagnoli di questo secolo, anche Gaudì era un visionario, ma è l’unico i cui deliri abbiano preso forma in modo così concreto inserendosi d’autorità nel paesaggio urbano.
Si pensi ai vari edifici da lui progettati, come la Pedrera, o la Casa Batllò, dei castelli incantati visti attraverso la superficie ondulata di uno specchio d’acqua, o come il parco Gaudì, in cui la sua arabeggiante fantasia creatrice si poté sviluppare senza condizionamenti utilitaristici.
Il Tibidabo è una collina che domina Barcellona, su cui veglia con un’imponente statua di Cristo montata in cima ad una chiesa. È per ragioni molto più profane però che una moltitudine di persone visitano quotidianamente la collina. Più in là infatti sorge il più grande parco di divertimenti che avessi mai visto, e la mia ammirazione per la civiltà spagnola diventa sconfinata. Ad affascinarmi non era tanto la varietà delle attrazioni, ma la loro aria arcaica e decadente, come nelle vecchie illustrazioni del Paese dei Balocchi di Pinocchio. Si tratta infatti di un’installazione risalente ai tempi del liberty, di cui mantiene il fascino con le decorazioni, i ferribattuti, i ghirigori e gli arabeschi. Anche dal punto di vista tecnico gli impianti avevano un che di leonardesco. Vi era un trenino sospeso rococò che percorreva gallerie e scavalcava corsi d’acqua, un piccolo aeroplano d’epoca che volava grazie ad un alto sostegno rotante, e poi l’antenata della ruota panoramica, l’Altalaya, costituita da due soli lunghissimi bracci che sostenevano due seggiolini oscillanti. Il massimo dell’emozione l’ho provato all’inizio della fase discendente, quando il braccio metallico rimaneva nascosto e sembrava di precipitare nella valle sottostante senza alcun sostegno.
Non sazio di questo brivido mi dedico all’otto volante, ricco di discese mozzafiato e di avvitamenti che strappavano urla di terrore ai viaggiatori. Io invece non urlavo. Non ne avevo più la forza. Dopo le vertigini della Sagrada Familia, l’aeroplano sospeso, l’Altalaya, quell’ultima sarabanda mi dà il colpo di grazia. Le luci inizianoa girare, i suoni mi si confondono nella testa, mentre nello stomaco il salame piccante coi funghi risentiva delle sollecitazioni centrifughe subite. La festa era finita, ed era l’ora della partenza. Risalgo in macchina con gli zii e mi appresto a tornare a casa, pronto a sorbirmi una nuova e meritata dose di camomilla e di canzonature.
Barcellona è un centro laborioso e intraprendente, in coerenza con le sue origini fenicie rivelate anche dal nome (Barca era il cognome di Annibale)...
In Catalogna si parla rigorosamente il catalano, e chi usa lo spagnolo viene sempre adocchiato con un certo sospetto. "Il castigliano è la lingua della guardia civil", dicono, insulto che in Italia equivale a dare a qualcuno del carabiniere. Nei pochi luoghi pubblici in cui le scritte sono bilingui, la dizione castigliana comunque è quasi sempre cancellata dallo spray di qualche mano anonima. Tale caparbietà ha sicuramente le sue ragioni, ma è sconcertante constatare come uno spagnolo di Madrid nel trovarsi a Barcellona non sia in grado di capire una parola dell’idioma locale, come se un romano in visita al nord scoprisse che la lingua ufficialmente adottata nella Repubblica di Padania è il bergamasco delle valli e che l’italiano vi è stato abolito. Ai tempi di Franco il catalano era proibito, tanto che una mia zia è stata in carcere per averlo parlato, oggi invece è obbligatorio, a riprova del fatto che l'irrazionalità non ha preferenze politiche.
Le uniche auto in circolazione erano delle SEAT, allora filiale spagnola della Fiat che anche lì costruiva i suoi gioielli, la classica Seicento e l’innovativa Seicento multipla, una vettura talmente al di fuori dei canoni estetici tradizionali che la sua informe goffaggine poteva passare come un esempio di arte di avanguardia. Esisteva altresì un veicolo di produzione spagnola, ma a fatica lo si poteva considerare un’autovettura. Era l’ineffabile Biscuter, una scatola di latta ondulata priva di tetto e fornita di quattro rotelline, talmente piccola che oggi potrebbe essere tranquillamente contenuta dentro il portapacchi di una Volvo familiare, ma allora portava tranquillamente in giro due persone svicolando fra i grossi autobus di Barcellona con l’agilità di una barchetta a motore a cui in effetti assomigliava. Memore di questa gloria nazionale, molti anni dopo Vazquez Montalban battezzò col nome di Biscuter l’introverso aiutante di Pepe Carvalho.
In un simile panorama automobilistico, la nostra millecento con le alette era una vera sciccheria, e lo zio la conduceva orgogliosamente lungo i vialoni di Barcellona che sembravano fatti apposta per accogliere sfilate trionfali. Anche i nomi lo suggerivano: Avenida del Generalisimo, dedicata a Francisco Franco, chiamata però dai catalani La Gran Via; Avenida José Antonio Primo de Rivera, che prendeva il nome dal fondatore della Falange figlio d’arte di un precedente dittatore, anch’essa ridenominata La Diagonal.
Come si può capire i catalani non apprezzavano molto Franco, alla tempra morale del quale alludeva velatamente il nomignolo con cui era stato familiarmente ribattezzato, La Mierda. Alla serie dei nomi usati in sostituzione di quelli voluti dal regime apparteneva anche il viale detto La Meridiana, così chiamato nell’errata convinzione che fosse allineato al meridiano di Greenwich da cui dista invece 180 km. Non fatelo però notare ai catalani, non amano la pedanteria.
Ci installiamo con gli zii italiani dai nostri parenti catalani (nessuno è perfetto) in un paesino nelle vicinanze di Barcellona, in quella splendida campagna stordita dal sole di giorno, ma che alla sera si animava di tavolate all’aperto e di balli popolari. Ballo tipico, la sardana, la cui origine è chiaramente denunciata dal nome. La prima cosa che mi disorienta è la scansione dei pasti. Forse era colpa del rilassato clima vacanziero tipico dell’estate, ma era difficile abituarsi alle diversità: la prima colazione si svolgeva alle undici, e consisteva in genere in una frittata di patate e cipolle. Il pranzo iniziava alle tre del pomeriggio e durava fino alle cinque. Alla domenica invece si protraeva fino alla sera, quindi mezz’oretta di intervallo, poi si attaccavano gli antipasti per preparare lo stomaco alla cena delle dieci.
I piatti più frequenti erano la paella a la valenciana, un piattone di riso da cui spuntavano orribilmente scaglie e chele appartenenti a cadaveri di alcuni animali marini, oppure la butifarra amb boléts, una sorta di salame arancione rinsecchito e piccante servito con i funghi. Nonostante l’appetibilità di simili vivande, sia io che i miei vari cugini preferivamo di gran lunga due belle fette di pan i tomaca, versione catalana della nostra bruschetta.
Come dessert tutti andavamo pazzi per i churros, delle paste dolci ultrafritte e ultrazuccherose, ma la mia vera passione era il morbido torrone Jijona, un’untuosa mescolanza di miele e di farina di sesamo che ho poi riscoperto in Turchia col nome di helva. Un vero concentrato di glucosio, tanto che ne bastava una fettina per restarne nauseati per una settimana. Il problema era che ne divoravo due etti per volta, segno di una tendenza masochistica e dell’umana incapacità di resistere alle tentazioni, soprattutto se dannose. Non era quindi raro che dopo un pasto del genere l’organismo si ribellasse obbligandomi a ricorrere ad una dieta di tisane e decotti, fatto che mi procurò da parte dello zio spagnolo il benevolo soprannome di Don Camomillo.
La vera specialità che rende però la Spagna un paese incomparabile è una bevanda che scopro in un bar all’aperto della rambla, dove dopo una faticosa visita della città ci insediamo sopraffatti dal caldo e dalla stanchezza. Alla vera horchata de chufa, indicava il cartello. Incuriosito soprattutto dal nome ne ordino una, e poco dopo compare un bicchiere da mezzo litro imperlato di goccioline. Dentro c’era un liquido biancastro dall’apparenza sospetta, ma quando lo assaggio con una cannuccia di paglia come si usava allora, mi conquista immediatamente. Niente di più fresco, saporito e dissetante sotto il sole. Non dolciastro e acidulo come l’orzata nostrana, ma una specie di latte vegetale dal sapore naturale, una linfa che va giù subito accettata e riconosciuta istintivamente dall’organismo come nutriente e genuina. Trangugio immediatamente il bicchierone, poi, sotto lo sguardo critico dello zio cui erano affidate le mie finanze, ne ordino un altro. Non ci sono né frappé né frullati che possano reggere al confronto, non parliamo di quelle decadenti e appiccicose bibite americane tutte zucchero, bollicine, additivi e coloranti. Basterebbe solo questo paragone a sancire la superiorità della cultura mediterranea rispetto alle sue degenerazioni d’oltremare.
Per penetrare appieno il vero spirito dei catalani bastano sei sillabe: Dalì, Mirò, Gaudì. Chi è capace di rappresentare la realtà come un insieme di orologi liquefatti o di donne dotate di cassetti, come fa il primo, è sicuramente capace di percepirne le verità nascoste più di qualunque psicanalista e meglio di qualunque psicologo. Salvador Dalì non si peritava di presentarsi in società in costume da bagno con la coniuge al guinzaglio, ma era forse proprio la sua eccentricità a permettere le intuizioni che sviluppava sulla tela.
Ancora più stravagante la pittura di Mirò, tra l’infantile e l’onirico, con quegli strani oggetti (o animali?) che si librano in un cielo irreale. L’opera d’arte più eclatante prodotta dal genio artistico catalano è però Barcellona stessa, la Barcellona di Gaudì. Basti considerare il tempio della Sagrada Familia, un’opera ancor oggi in costruzione, come se lo sforzo creativo del suo ideatore si stia prolungando ben oltre la sua stessa esistenza terrena. Ci vuole del coraggio per arrampicarsi sfidando le vertigini all’interno delle sue strette guglie irte di pinnacoli e di demoni a metà fra lo stile gotico e quello del luna park. Come gli altri artisti spagnoli di questo secolo, anche Gaudì era un visionario, ma è l’unico i cui deliri abbiano preso forma in modo così concreto inserendosi d’autorità nel paesaggio urbano.
Si pensi ai vari edifici da lui progettati, come la Pedrera, o la Casa Batllò, dei castelli incantati visti attraverso la superficie ondulata di uno specchio d’acqua, o come il parco Gaudì, in cui la sua arabeggiante fantasia creatrice si poté sviluppare senza condizionamenti utilitaristici.
Il Tibidabo è una collina che domina Barcellona, su cui veglia con un’imponente statua di Cristo montata in cima ad una chiesa. È per ragioni molto più profane però che una moltitudine di persone visitano quotidianamente la collina. Più in là infatti sorge il più grande parco di divertimenti che avessi mai visto, e la mia ammirazione per la civiltà spagnola diventa sconfinata. Ad affascinarmi non era tanto la varietà delle attrazioni, ma la loro aria arcaica e decadente, come nelle vecchie illustrazioni del Paese dei Balocchi di Pinocchio. Si tratta infatti di un’installazione risalente ai tempi del liberty, di cui mantiene il fascino con le decorazioni, i ferribattuti, i ghirigori e gli arabeschi. Anche dal punto di vista tecnico gli impianti avevano un che di leonardesco. Vi era un trenino sospeso rococò che percorreva gallerie e scavalcava corsi d’acqua, un piccolo aeroplano d’epoca che volava grazie ad un alto sostegno rotante, e poi l’antenata della ruota panoramica, l’Altalaya, costituita da due soli lunghissimi bracci che sostenevano due seggiolini oscillanti. Il massimo dell’emozione l’ho provato all’inizio della fase discendente, quando il braccio metallico rimaneva nascosto e sembrava di precipitare nella valle sottostante senza alcun sostegno.
Non sazio di questo brivido mi dedico all’otto volante, ricco di discese mozzafiato e di avvitamenti che strappavano urla di terrore ai viaggiatori. Io invece non urlavo. Non ne avevo più la forza. Dopo le vertigini della Sagrada Familia, l’aeroplano sospeso, l’Altalaya, quell’ultima sarabanda mi dà il colpo di grazia. Le luci inizianoa girare, i suoni mi si confondono nella testa, mentre nello stomaco il salame piccante coi funghi risentiva delle sollecitazioni centrifughe subite. La festa era finita, ed era l’ora della partenza. Risalgo in macchina con gli zii e mi appresto a tornare a casa, pronto a sorbirmi una nuova e meritata dose di camomilla e di canzonature.
Barcellona è un centro laborioso e intraprendente, in coerenza con le sue origini fenicie rivelate anche dal nome (Barca era il cognome di Annibale)...
In Catalogna si parla rigorosamente il catalano, e chi usa lo spagnolo viene sempre adocchiato con un certo sospetto. "Il castigliano è la lingua della guardia civil", dicono, insulto che in Italia equivale a dare a qualcuno del carabiniere. Nei pochi luoghi pubblici in cui le scritte sono bilingui, la dizione castigliana comunque è quasi sempre cancellata dallo spray di qualche mano anonima. Tale caparbietà ha sicuramente le sue ragioni, ma è sconcertante constatare come uno spagnolo di Madrid nel trovarsi a Barcellona non sia in grado di capire una parola dell’idioma locale, come se un romano in visita al nord scoprisse che la lingua ufficialmente adottata nella Repubblica di Padania è il bergamasco delle valli e che l’italiano vi è stato abolito. Ai tempi di Franco il catalano era proibito, tanto che una mia zia è stata in carcere per averlo parlato, oggi invece è obbligatorio, a riprova del fatto che l'irrazionalità non ha preferenze politiche.
Arzak- Messaggi : 363
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Re: La mia città - Barcellona
Avevo ancora negli occhi la Spagna dei somarelli e dei bambini scalzi e chiassosi, stordita dal sole e dal paternalismo del regime, con le sue spiagge deserte e i tranquilli paesini di pescatori. Quando mi riaffaccio dal confine della Junquera quella che mi ritrovo davanti qualche annetto dopo è una Spagna irriconoscibile. Alle folle di turisti stranieri si aggiungevano quelli locali, agli asinelli si erano sostituiti i gipponi Toyota, i bambini, ora meno numerosi, erano tutti dotati di regolari calzature, ma non per questo sembravano più allegri. La Costa Brava si era relativamente salvata, ma le devastazioni avvenute nella Costa del Sol, con quei grattacieli sulla spiaggia, gridavano inutilmente vendetta ai quattro venti. Anzi, il nome Marbella, uno dei luoghi più colpiti da questa tragedia, invece di suscitare una doverosa costernazione, era stato addirittura imposto come un esempio di modernità ad un’innocente autovettura che nulla aveva fatto per meritarselo, mentre località come Torremolinos continuano ad abbindolare migliaia di tedeschi e di olandesi che non chiedono di meglio.
D’altra parte, a cosa mai può servire una spiaggia, se non a costruirvi attorno residence, alberghi, supercondomini, piscine, discoteche, cinema, night club, pizzerie, gelaterie, bowling, sale giochi e affini?
Barcellona era però rimasta affascinante come sempre. La città era cresciuta, sia in quantità che in qualità. Nuovo il quartiere olimpico del Montjuich, nuove le spiagge nate dove sorgevano i vecchi cantieri. Spiagge libere, come dovrebbe essere in ogni paese civile, e con acque miracolosamente pulite, considerando che ci trovavamo in uno dei porti più attivi del Mediterraneo. Spariti i nomi e i simboli del vecchio regime, la città ostentava un volto moderno e spregiudicato. L’unico ed ineliminabile ricordo del passato era l’incombente cappa di calore che mozzava il respiro e trasformava ogni minimo spostamento in un’impresa sovrumana.
Ciò non impediva tuttavia la movida delle ramblas, dove mimi col corpo pitturato di bianco o d'oro restavano immobili per ore. Poteva però capitare che in pieno giorno, proprio nel mezzo del passeggio qualcuno si avvicinasse puntandoti qualcosa di spigoloso al fianco.
- La cartera o te pincho! - ti sussurrava con fare amichevole in mezzo alla gente ignara. L'equivalente iberico de "la borsa o la vita". E dal momento che di farsi pinchare nessuno ha voglia, il portafoglio ed il suo nuovo possessore sparivano fra la folla.
D’altra parte, a cosa mai può servire una spiaggia, se non a costruirvi attorno residence, alberghi, supercondomini, piscine, discoteche, cinema, night club, pizzerie, gelaterie, bowling, sale giochi e affini?
Barcellona era però rimasta affascinante come sempre. La città era cresciuta, sia in quantità che in qualità. Nuovo il quartiere olimpico del Montjuich, nuove le spiagge nate dove sorgevano i vecchi cantieri. Spiagge libere, come dovrebbe essere in ogni paese civile, e con acque miracolosamente pulite, considerando che ci trovavamo in uno dei porti più attivi del Mediterraneo. Spariti i nomi e i simboli del vecchio regime, la città ostentava un volto moderno e spregiudicato. L’unico ed ineliminabile ricordo del passato era l’incombente cappa di calore che mozzava il respiro e trasformava ogni minimo spostamento in un’impresa sovrumana.
Ciò non impediva tuttavia la movida delle ramblas, dove mimi col corpo pitturato di bianco o d'oro restavano immobili per ore. Poteva però capitare che in pieno giorno, proprio nel mezzo del passeggio qualcuno si avvicinasse puntandoti qualcosa di spigoloso al fianco.
- La cartera o te pincho! - ti sussurrava con fare amichevole in mezzo alla gente ignara. L'equivalente iberico de "la borsa o la vita". E dal momento che di farsi pinchare nessuno ha voglia, il portafoglio ed il suo nuovo possessore sparivano fra la folla.
Arzak- Messaggi : 363
Data d'iscrizione : 10.04.13
Re: La mia città - Barcellona
Racconto bellissimo Arzak, sei molto bravo e la mia è sana invidia.
Grazie, e se puoi faccene leggere ancora qualcun altro.... Con la fotografia me la cavo, ma con i racconti, proprio non riesco ad animare delle storie; non ho capacità affabulatorie, mentre tu e Vargas siete bravissimi.
Un saluto a tutti
Enrico.
Grazie, e se puoi faccene leggere ancora qualcun altro.... Con la fotografia me la cavo, ma con i racconti, proprio non riesco ad animare delle storie; non ho capacità affabulatorie, mentre tu e Vargas siete bravissimi.
Un saluto a tutti
Enrico.
einrix- Messaggi : 10607
Data d'iscrizione : 10.04.13
Età : 82
Località : Bergamo e Rimini
Re: La mia città - Barcellona
Grazie. Ho scritto qualcosa di analogo in questa stessa sezione e altrove. Ora non sono in fase creativa, ma magari andrò a cercare qualche impressione di viaggio ancora inedita. Ci si legge.
Arzak- Messaggi : 363
Data d'iscrizione : 10.04.13
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