Italia futura

Sotto il mio ufficio si è installata una sezione di Italia Futura, l’organizzazione di Montezemolo.
Il trasloco è stato avveniristico, con una pedana elevabile da Formula 1, che si appoggiava alla finestra centrale di piano, da dove venivano introdotti mobili e scatoloni. Ah, la mano del grande manager!
Sono due giorni, però, che non accade più nulla, non si vede nessuno.
A che scopo procedere ad un trasloco velocissimo, se poi non si presenta nessuno a sistemare mobili ed aprire scatoloni? La targa, brillante e colorata, fa bella mostra di sé sulla porta serrata di un ufficio deserto.
L’Italia Futura può attendere.
Immaginavo di vedere giovani rampolli, in ansia carrieristica, svegli ed eleganti, prendere possesso di spazi e opportunità, aggredire il territorio con la sicumera dei predestinati.
Invece, tra i vecchi avvocati e i commercialisti del palazzo, solo oggi ha cominciato a far capolino qualche giovane sconosciuto dall’aria annoiata : anime in pena, con il marchio della transitorietà.
Se almeno non si identificassero con quell’insegna:  Italia Futura.
Quanto maggior futuro ho intravisto nella figlia del barista che, dopo un tirocinio in Norvegia con Erasmus, si sta laureando in norvegese ed ha deciso di trasferirsi lassù.
“Noi abbiamo Ibsen”, mi diceva l’altra mattina mentre chiacchieravamo di letteratura scandinava.
“Noi?”, le faccio, “ti senti già così poco italiana?”. Con quanta allegria riconobbe quel lapsus, che dilatava la sua identità, collocandola in un futuro senza Italia, da cui era già pronta ad allontanarsi senza  alcuna pena.
Mi resi conto che, a differenza di quei ragazzi svogliati sotto l’insegna  colorata delle buone intenzioni, lei, a parte Ibsen,  non sarebbe stata costretta in futuro a cercare continui riferimenti, insegne e protettori.
Un’affrancazione nemmeno lontanamente immaginabile dietro quella targa al primo piano, così pomposamente bugiarda.